Racconto di Monique Sartor

IN CAMMINO
di Monique Sartor
Si ferma.
Un volto altero, solenne, sprezzante.
Il volto di una bellezza fragile ed impenetrabile come il mistero di meraviglie ed incanti dei ghiacciai perenni all'occhio del sole eternamente esposti.
Tra un volo e l'altro, si ferma.

Chissà se fra tanti volti scritti ed inscritti, ha mai letto il suo viso.
Un tempo, forse. Non ricorda. Non sa.

Chi è?
è l'ultima vocale della morte e la prima della vita.
Ricorda perfettamente l'Ave Maria di Schubert.
La sta ascoltando. Con mani d'aria e di luce impastate, l'ascolta.

Chi è? è un silenzio peregrino nel Nulla.
è una congiunzione, così vorrebbe scriversi, ma così non può scriversi.
è un verbo coniugato all'indicativo presente. Verbo condannato a quell'indicativo presente che tutta sostiene la lunghissima carovana delle parole dei piedi in cammino, ora lungo le vie di sabbia del deserto, ora tra un'onda e l'altra del mare.

Il mare.
Le massaggia quei piccoli piedi dall'anima d'onice nera, arcuati e in punta slanciati come immobili passi di danza dalla luce d'ambra all'ombra dei tempi, nel bianchissimo volo di gabbiani a stormi poco prima dell'alba.
Si è davvero fermata?
Giovane verbo d'esperienza come pesce in navigazione confuso e stordito. I popoli del mare lo inseguono per catturarlo ed assaggiare quell'immensità di storie e di vite che esso, indomabile guerriero dall'armatura di plumbee squame, porta in grembo e protegge.
Di tanto stordimento ed accanito tuffarsi tra golfi e fiordi per svanire in rigoglio di scogli, è morto naufrago annegato, e già è divenuto d'ambra aurifero scrigno fossile.

Salva è la sua immensità di storie, salve sono tutte le sue vite.

Eppure lei, quel verbo dell'esistere, indispensabile e sottesa congiunzione, avrebbe voluto essere.

Si è fermata nel dove della sua verità, nel dove della sua più incognita esistenza.
Non lo sa, ben sapendo che lei, sì, proprio lei è in congiunzione congiunta.
Lei... sì, è in congiunzione ad altro misterioso parto di vita coniugata.

Mancano pochi attimi.
D'ombrosa attesa.
Si sta forse trasformando in un periodo ipotetico?
è talmente stanca... Se lei si fosse fermata...

Lei sta sempre qui e lì, sottile giungo profumato di sale e di sole.
A piedi nudi sulle lastre di pietra umida e polverosa di una via che parrebbe cuore dell'intrico di vicoli in qualche città di porto. In un luogo del mondo che parrebbe ventricolo aperto a Sud, forse ad Est.

Eretta e tesa, calma ed impaziente, dolcissima e spinosa come fiore di cardo, si sporge in avanti.
Per vedere qualcosa. Sta cercando qualcosa.
Una veste bianca le ammanta tutto il corpo di pieghe sonore come marosi di vento, ed un turbante blu le avvolge tutto il capo, la nuca ed il volto in un'ardita ma perfetta tramatura d'invisibile.

Solo gli occhi sono scoperti fino all'estrema nudità.
Negli occhi tutto il volto sorride e nelle acque feconde delle pupille per solo desiderio radici d'edera crescono trovando altra terra da percorrere sulla fronte, sulle tempie, e da lì giù, fino alle caviglie ed agli archi dei piedi.
Fino alle pietre lastricanti il suolo.

Negli occhi si muove tutto il volto, di pianta splendida mimesi.
Metamorfosi si fa rivelazione, ed in questa appare tutta l'invisibile nudità del corpo.
Principesca nudità.

È lei, principessa di regni d'argentee libellule, dallo snello profilo in circolari evoluzioni affusolato, verso la luna a linea retta rivolto.
è lei, l'argentea libellula del cielo sovrana che in cieche lontananze di sguardo l'altra natura d'aquila reale al buio visibile rende.

L'oscuro chiarore di fiaccola di un lampione, sinuoso e di stella carne palpitante, vocale si fa strada per insediare coni di luce tra gli alti e fitti archi delle sue ciglia di nero e d'argento.

Per illuminare infine l'impemanenza e l'umana contingenza d'iridi e pupille alla mortalità celate e sottratte dalla ieratica bellezza d'inviolabile icona di quella giovane donna in battesimo nomade con l'infinito dell'erranza tatuata.

È caduta in ginocchio, da troppa luce innaturale abbattuta.
È caduta in ginocchio abbattuta dal pianto. Il volto di rampicante edera si fa violento e sradicante salice, piangente brucianti gocce di liquido argento.

Senza alcun fruscio, in silenzio piange.
Perché è il silenzio, ciò che piange.
L'attesa, l'algida permanenza dell'assenza e della mancanza nel punto d'incontro tra il suo corpo e il vuoto le indeboliscono ogni fibra, le spezzano gli arti come arbusti invernali da eccesso di linfa avvelenati.
Nulla sa della sua nascita e della sua morte. Pare non ricordare.
È nata, è morta. Sta scritto.
È morta e rinata. Sta scritto.

Rinata in ginocchio a nuova, irrinunciabile erranza.

Rinata con occhi grigi e luminosi come falce di luna a forma d'orizzonte sul volto intagliati.
Da mano esperta e decisa tinti d'argenteo mercurio e come mercurio a qualsiasi immobilità colibrì sfuggenti in rivoltoso ed altissimo volo.

Dalla stessa mano rigati di lunghe ciglia notturne e lunari ed agli angoli estremi protesi verso il cielo. Le ultime ciglia intrecciate s'ergono superbe come polene di tempeste d'alto mare incuranti.

Confine tra luce e buio, una rigorosa ed indelebile via di nero kajal dà direzione d'Oriente alla tenera pelle delle palpebre inferiori.

Chiusi, gli occhi. L'iride riposa nella visione di un nome nell'odore e nella tenace consistenza della pelle che porta quel nome.
Anche le ciglia paiono inginocchiarsi, in quell'intreccio dal dolore piegato e piagato, come gli archi dei suoi piedi dal sole incendiati.

Giovane donna dal cuore di foglia che ovunque può e sa della metamorfosi l'arte, disarmata ed indifesa, come filo d'erba tremante di neve in ghiaccio.
Il suo cuore di foglia in fronte a quel dolore non conosce mimesi alcuna.
Solo piangere l'anello di luce ora invisibile di quel nome, di quella pelle. Solo questo, ora può.

Si rialza nel bagliore della preghiera al grano.
Un uomo gliela insegna, ad ogni sfarfallio del giorno e della notte.

Si rialza in scura pelle nuda, dai lunghi capelli di grano resa bionda e dorata.
Ha il viso tinto di blu un occhio d'argento. Volge lo sguardo al sole nascente, apre a ventaglio le dita dei piedi e delle mani sul suolo salato.

China gli occhi e vede.
Vede l'ambito segno che finalmente fa del tormento del desiderio anticipazione del sogno, e della vita attesa simbolo d'evidenza assoluta.
Una bionda valigia.

Una bionda valigia feroce custode di quella vita che allo spasmo ama.
Lei, che con tanto sprezzo di non poter amare convinta la propria fede s'era inventata e di questa s'era travestita, nella febbricitante necessità d'essere segreta ed occulta...

... ora s'ascolta e si vede, nomade e mutante, curva d'amore che dà nome a genesi d'amore.

L'invertebrato corpo dell'attesa la bionda valigia le ha restituito.

Per nome può finalmente chiamare il suo tempo. Un tempo che ancora odora pesante di morte, di paralisi, di artrite cardiaca e vertebrale, ma che già profuma di grano e d'erba aurorale, di sabbia come lava incandescente, di sale pungente, di cascate di venti e correnti marine e di gorgoglianti fruscii di foreste d'alberi.

Un tempo, il tempo, questo tempo.

Si chiama Nicolas.
Si chiama Hodos.
Hodos alla ricerca dell'ignoto di Nicolas. Nicolas alla ricerca dell'ignoto di Hodòs.

Lei è Nicolas.
Lei è Hodos.

Guarda la valigia di Nicolas con quella passione di cui sempre ha temuto i percorsi sragionati e resi folli dalla potenza dei sensi.
Non teme più.
Dove ha incontrato la valigia di Hodos, sta per accadere la vita.

Sta per accadere...
La bionda pelle di Nicolas.

Stanno per accadere i suoi piedi alati di vento ed evaporanti raggi solari.

Le sue mani dalle lunghe dita di bellezza coraggiose e sfrontate amanti, fino alla morte per uccisione fedeli, stanno per accadere.
A lei. In lei.

Nel luogo d'anima e di carne in cui si trova.
Lì, di se stessa archeologico ritrovamento e storica scoperta.
Lì, in quel dove che è qui.

Sta scritto negli archi dei piedi...
Sta scritto Nicolas.

Apre la valigia. Apre il libro. L'apre ad una pagina casuale. Sta scritto: «Cammina dove il deserto cammina», e poi: «Io sono del deserto viandante anima blu. Tu sei del deserto il sogno d'acqua. Non attendere. Intona il ritmo del tuo passo al mio silenzio, ed incamminati per accogliermi. Sto giungendo a te».
E poi ancora. «Nell'arco dei miei piedi, il sogno mai potrà cessare di scriversi. Tu sei il cammino del mio cammino. Io sono il sogno del tuo sogno».

Nel libro, una mappa geografica disegnata a mano. Piccole orme blu scrivono il cammino ed il luogo. Piccole orme blu in forma di cammino scrivono il suo volto, i suoi occhi, le sue mani, il suo corpo intero, ma per primi, i suoi piedi arcuati nel moto.

Pare visione iniziatica a quella nuova erranza di cui il desiderio si fa oracolo e profeta.

Vede il suo volto. Per la prima volta lo vede.
A lungo lo guarda, del proprio ignoto avida.
Già in moto arcuato, i suoi piedi sulle lastre di pietra celermente scrivono: «è bello. Il mio volto è bello. Io sono bella... Io – in cammino – è bellezza altra».

Scorrono gli istanti, corrono i giorni, trascorrono, forse, gli anni.

Sulla più alta duna del deserto, si ferma. Dopo faticosa scalata, si ferma.
Seduta, le ginocchia incrociate.
Apre la bionda valigia di Hodos. Riapre il libro. Sta scritto: «Sono qui».

Un piede dalla bionda pelle come cuoio coriacea e come legno di verde venata con fine sabbia riempie la valigia. In deciso silenzio d'arco plantare, la chiude. Accanto a lei si siede.
Distende una gamba, poi l'altra.
Alla vetta della duna abbandona il corpo.

Lei tace. Nel suo silenzio, lei tace d'ascolto. Il lento succedersi dei gesti è schiudersi di immensi versi che mai saranno scritti perché già stanno scritti.

A lei si volge il volto di Nicolas, a lei si volgono i suoi occhi. Azzurrità blu da fili biondi screziate.

Le stringe le mani.
Su quelle dita così sottili da sembrare sensuali canne di bambù pronte a piegarsi e a tuffarsi in volo nell'acqua, si è incollata la sabbia del cammino. Lui guida le dita alla pelle del suo corpo.
Tolto il turbante, le fa scorrere come vellutate lame sul suo viso.

La sua fronte e le sue guance vuole incidere con quelle sottili e taglienti canne di bambù.

Il suo viso è geografia di rettilinei graffi. Solchi sul riarso terreno.
Lui sa. Non vede, ma sa. Chiude gli occhi, e dalla fronte e dalle guance in piccole ferite slabbrate colano magri rivoli di sangue che presto si fanno cascate d'acqua.

«Tu sei il sogno d'acqua del deserto», lei legge nei suoi occhi sorridenti.

«Tu sei l'eterno sogno d'acqua del deserto. Ogni notte ti ho vista, seguita e protetta. Di te ho oscurato in sogno ogni alba ed ogni infuocato mezzogiorno. Solo all'ombra della tua acqua potevo dare silenzio alle vocali, mentre tu, in un vicino altrove, il mio silenzio in parole scrivevi.

«E i tuoi silenzi... i lunghi silenzi inquieti dei tuoi erranti cammini...
Non necessitavano scrittura alcuna, poiché in me trovavano, della parola, il tacersi».

Lentamente, le svolge il turbante. I lunghi capelli biondi piovono torrenziali su di lui.
Coglie un chicco di grano. Lo bagna nell'argento che scende dai suoi occhi e tra le mani lo stringe.
Si avvicina. Sempre più si avvicina.

Sta per accadere.
Sta per accadere la vita per nome chiamata.

Il suo seme, da sabbia e cammini nutrito, penetra in lei con violenta dolcezza di vento su una duna.
Nelle sue acque lascia le orme di ogni suo passo.
Orme che in lei continuano a camminare come piccole vette di fuoco.

La nuova alba la risveglia.
Sola.
Se ne è andato.
Se ne è andato a morire lontano.
Lontano dal sogno d'acqua poiché di sua morte morirebbe orrendamente mutilato.

Lei sorride al deserto.
A quel deserto che le darà altra erranza, altro cammino, altro ignoto, altra vita. Altro Nicolas.

Mancano pochi istanti.
Mancano poche manciate di giorni al nuovo compiersi di Nicolas.

Breve tempo di solari passi.
Andrà verso il mare.
Lì, tra il mare e il deserto, partorirà il loro figlio.

D'altra erranza, parto.
D'altro cammino, parto.

Lo chiamerà – Nicolas.
Lo chiamerà – Hodos.

Si è alzata. Guarda tutt'intorno a sé. Nel fuoco dell'alba scorge, ormai sepolta dalla sabbia, una valigia.
Una valigia bionda.

Senza quasi respirare, discende la duna ad ampi passi. Si ferma.
In fronte alla valigia, si ferma.
Rapidissima l'afferra e la solleva al petto.
È pesante. Molto più pesante.

L'avrebbe portata sempre con sé.
Forse sarebbe stata la bionda valigia a condurre e guidare occultamente la giovane donna – con sé.
Ovunque «sarebbe stato scritto» in lingua aeriforme, di Nicolas, Hodos.

Se mai l'abbia riaperta, nessuno può dirlo.

La bionda validia.
La bionda valigia dell'erranza fra vita e sogno.

La riaprirà mai?

Copyright © 1998

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