Premio Editoriale Penna d'Autore - Narrativa
QUELLA VOLTA AL GABINETTO

Cristiano Della Bella
Il nostro uomo si chiamava Umberto e lavorava in un'azienda di materiali elettrici. Era un abitudinario, nel senso che si cacciava al gabinetto ogni giorno alla stessa ora, subito dopo pranzo. Era poi un vero dritto, ché si ricordava sempre di controllare.

Quel martedì era un giorno speciale per la carriera del nostro uomo. Poco prima di pranzo, infatti, il suo diretto superiore l'aveva avvertito di una convocazione nel primo pomeriggio, pronosticando un'inaspettata promozione. E ora Umberto, entrando nel gabinetto, aveva un leggero sorriso acceso fra le labbra. Già pensava al colloquio col signor direttore in persona. E forse fu questo a fargli scordare le cose.
Quel giorno Umberto si dimenticò di controllare e sarebbe stato un errore.

Ci sono persone che quando s'accovacciano sulla turca hanno bisogno di leggere qualcosa, per disimpegnare la mente e aprire gl'intestini. Al nostro uomo bastava una sigaretta, fumata quieta e regolare. E poi scandagliava la porta chiusa davanti a lui e, immancabilmente, gli occhi finivano sul fermo della porta. Chissà, pensava, se magari si fosse scordato di bloccare l'uscio? Poteva entrare la donna delle pulizie e non sarebbe stata una bella situazione. Che figuraccia! Umberto, sempre elegantone, giovane ingegnere in carriera, colto in fallo coi pantaloni alle caviglie e lo sforzo d'una memorabile cagata disegnato sulla fronte goticamente corrugata.
Comunque la porta lui la chiudeva sempre e, di sicuro, sempre l'avrebbe chiusa negli anni a venire.
Ci potete contare.

Quando Umberto si asserragliava nel gabinetto per fare le bisogna c'era un gran via vai nella toilette. I colleghi uscivano infatti dalla mensa e, prima d'andare a prendere il caffè o fumare una sigaretta a scopo digestivo, facevano tappa ai bagni per lavarsi i denti, ricomporsi eccetera.
Dietro quella porta di legno il nostro uomo si sforzava di partorire la popò, atleticamente concentrato per non fare rumore.
Lo sanno tutti che defecare e acusticamente sgradevole e, in qualche modo, perfino ridicolo. Umberto sapeva che c'erano orecchie tese, lì dietro. Umberto non voleva che poi, uscendo dal wc, ci fosse qualcuno a ridergli in faccia.
Lui allora procedeva controllato. Faceva un tiro di sigaretta e poi, in modo lentamente graduale, apriva le valvole di sfogo. E, al primo labile accenno di pernacchia, fermava tutto. Stringeva i denti e riprovava, in maniera collaudata e funzionale, come un professionista che sa come fare.
Ché Umberto era un dritto, e poi controllava sempre.

Quel giorno Umberto aveva in testa 'sta cosa della promozione, con tutti gli annessi e connessi. I pro e i contro, diciamo. I pro comprendevano naturalmente lo stipendio, l'immagine e la prospettiva di andare oltre in un immediato futuro. I contro erano il sicuro aumento delle responsabilità, della mole di lavoro e quel brivido d'incertezza che lo aspettava oltre l'uscio del direttore.
Lui rimase a riflettere su tali annessi e connessi e questo gli fece dimenticare le cose fondamentali. Tipo controllare.
Ma ancora non se n'era accorto.

Prese a costruire complesse trame mentali, geometricamente complicate. Tirava ad indovinare sulla sua nuova posizione nell'ambito della gerarchia aziendale. Ragionava cercando di ricordare se qualcuno si fosse licenziato, se qualcuno fosse stato trasferito, se la ditta avesse bisogno di qualche pezzo grosso in più. Questo nel vano tentativo di capire verso quale soleggiato lido fosse stato destinato.
Invano.
Più ci pensava più il nostro uomo scrollava la testa. C'era in effetti un posto vacante tra i responsabili della manutenzione, ma questo la sua mente lo scacciò con forza.
C'erano più contro che pro, e poi non sarebbe stata nemmeno una vera promozione. Lui ambiva a cose grosse, tipo responsabile della sicurezza, legge sei sue sei. Oppure capo del reparto spedizioni. Oppure ancora avere un ufficio tutto suo da cui giostrare la sua carriera in modo oscuro e proficuo.
Intanto il water si colmava e la sigaretta che teneva fra le dita andava a morire in cenere fino al filtro.
Decise di non pensarci più.
Alzò gli occhi al fermo della porta e sorrise, ché era chiuso come sempre. Gettò il mozzicone fumante sulla torta di colore bruno, prima di darci il colpo di grazia.
Oltre la porta sentiva l'acqua dei rubinetti e gli sputacchi nel lavabo di chi si lavava i denti.
Finalmente lui allungò la mano sinistra al rotolo di carta igienica e qui capì d'avere fatto una grossa stupidaggine.
Ché quel giorno il nostro uomo aveva la testa fra le nuvole e s'era scordato di controllare. Il nostro uomo si chiamava Umberto ed avrebbe invece fatto bene a non scordarsi.
Proprio.

Rimase lì con le chiappe sporche all'aria e una bestemmia disegnata sulle labbra imbronciate. Incredibile pareva l'immagine del cilindretto di cartone senza nemmeno l'ultimo quadrato di carta con cui pulirsi.
Incredibile ma vero.
La toilette degli uomini era un rettangolo. Da un lato c'erano i lavandini, dall'altro quattro porte. Tre erano dei gabinetti, l'ultima era quella della doccia, che nessuno usava più da anni. Da quando insomma un ciccione aveva fatto uno scherzo ad un altro ciccione, mettendogli della lana di vetro nel rubinetto a spruzzo della doccia.
Da allora quel piccolo spazio veniva usato come sgabuzzino. La donna delle pulizie soleva metterci le confezioni da dieci di carta igienica. E ogni volta, ogni volta che Umberto dopo pranzo andava ad accovacciarsi sulla ceramica, sempre si ricordava di controllare.
Entrava nel gabinetto e controllava che ci fosse un rotolo gonfio di carta. Se questo era alla fine lui andava nella doccia e prendeva un rotolo nuovo.
Ma.
Ma quel giorno andò diversamente e rimediare sottintendeva aumentare in qualche modo il danno e forse anche aggiungerci la beffa.
Come fare era una bella domanda. Se Umberto non avesse avuto la pessima abitudine di soffiarsi il naso nella stoffa forse avrebbe avuto una confezione di fazzoletti di carta con cui sostituire per una volta la più adeguata igienica.
Ma non ne aveva.
E allora prese a guardarsi attorno nell'unico metro quadro a disposizione, nell'improbabile tentativo di trovare un rotolo di carta magari dimenticato in un angolo.
Non ci volle molto.
Nemmeno uno spillo poteva nascondersi in quel microscopico ambiente. Oltre al pertugio di scarico, nel gabinetto c'erano soltanto la catenella dello sciacquone e il manico dello spazzolone. Tutto il resto era occupato dalle piastrelle color cachi del muro.
E basta.
C'era poi il cilindro di cartone del rotolo esaurito, ma non quello non poteva farci niente.
Quindi.
Quindi se Umberto voleva uscire da quella situazione doveva escogitare qualcosa di furbo e farlo anche in fretta perché l'orologio gli confermò che mancava un quarto d'ora all'appuntamento col signor direttore e farlo aspettare era una pessima idea.
Ma il problema persisteva, ostinatamente insoluto. Come fare per pulire il deretano?
Oltre la porta Umberto udiva distintamente i gorgoglii di chi insisteva nel lavarsi i denti, di chi indugiava per fare due parole, di chi pareva volesse attendere che il nostro uscisse fuori dal cesso con le chiappe sporche.
Merda, imprecò mentalmente a quel punto.

La prima alternativa era uscire dal gabinetto e andare a prendersi un rotolo nella doccia, coi calzoni alle ginocchia, una mano sul gingillo e le chiappe sporche.
Ma con tutta quella gente non l'avrebbe fatto nemmeno se gli avessero promesso il mondo intiero.
La seconda soluzione era di tirarsi su boxer e pantaloni e uscire facendo finta di nulla. Magari appropriarsi di un rotolo nuovo. Tornare a chiudersi nel gabinetto e pulirsi per bene.
Però la gente avrebbe commentato ironica nel vederlo in simile atto. E poi comunque si sarebbe sporcato le mutande e la cacca puzza e il signor direttore se ne sarebbe certamente accorto e non si danno certe promozioni a chi profuma di merda.
Umberto guardò di sotto nell'imbuto di scarico, giusto per verificare il tipo della bisogna. Sembrava marmellata di marroni, roba poco solida che gli avrebbe certamente disegnato una bella frenata nei boxer.
Roba altamente maleodorante che avrebbe attirato le nari del signor direttore. Qualcosa che gli avrebbe innalzato un'aura marrone attorno a sé, un'invisibile quanto impenetrabile barriera.
Un repellente per il prossimo.
Si morse un labbro, Umberto.
Poi tese l'orecchio, colmo di speranza.

Chi vive sperando muore cagando, e mai tale volgare massima fu vera. Il nostro uomo rimase nel più rigoroso ed assoluto silenzio, quasi convinto che oltre la porta ci fosse il deserto.
Pareva che tutti fossero usciti per tornare alle loro occupazioni. Sembrava che tutti avessero finito di sfregarsi i denti, darsi una pettinata o anche solo controllare la ricrescita della barba allo specchio.
Pareva che insomma il campo fosse libero.
E qui s'apriva la strada verso la prima drammatica soluzione. Uscire cioè dal gabinetto coi calzoni alle ginocchia e tentare d'impadronirsi d'un salvifico rotolo di carta igienica.
Ma.
Ma ci voleva una gran dose di coraggio e un bel po' di fortuna, ché mentre era a spasso colle chiappe in vista qualcuno poteva fare irruzione nei bagni e sarebbe stata una tragedia.
Solo l'idea gli fece venire la pelle d'oca.
Tuttavia era l'unica soluzione possibile. L'unico modo di uscire pulito da quella situazione. E, siccome era un vero dritto, Umberto decise di attendere ancora qualche lunghissimo istante, per essere sicuro di non trovarsi nessuno oltre la porta e mettere alla prova la fortuna.
Forse due minuti gocciolarono via nel più assoluto silenzio. Pareva proprio che tutto fosse a posto. Che anche il più ritardatario avesse espletato le odontoiatriche abluzioni.
Mise la mano destra sul fermo della porta e chiuse gli occhi, pregando i santi che tutto andasse per il verso giusto.
Ma le cose vanno bene solo nei film e Umberto non era mica un divo del cinema.
Mica.

Tremebonda, la mano destra alzò il fermo e, di seguito, spinse la porta d'uno spiraglio appena. Umberto mise poi il naso fuori, per controllare che il locale fosse vuoto.
Non vide testimoni ed era la prima cosa buona degli ultimi dieci minuti.
Ora occorreva tutto il coraggio possibile per andare verso la doccia, prendere un rotolo di carta igienica o magari anche tutta la confezione e tornare a sparire nel cesso come un lebbroso.
Tutta le scena eseguita con una mano a proteggersi gli attributi.
Deglutì una volta soltanto, scacciando mille pensieri di malaugurio. L'improvvisa apparizione di chicchessia, che magari restava allibito a fissare il povero Umberto.
La gogna.
Continuò a temporeggiare, cercando di capire se negli altri gabinetti ci fosse qualcuno che potesse uscire all'improvviso.
Sporse la testa più avanti.
Tutte le porte erano aperte. Non c'era dunque nessuno, né ai lavandini a farsi bello, né ai cessi a fare pipì.
Decise di spararsi fuori alla velocità della luce, contando mentalmente fino a tre, senza indugiare oltre.
Ma.
Ma proprio sul finire del conteggio, nell'istante che la mente ordinava alla mano di aprire del tutto la porta, nel mondo asettico dei servizi igienici fece irruzione qualcuno.
Umberto se ne accorse appena in tempo, captando i passi in corridoio. Tirò a sé la porta, richiudendola con un sonoro sblam! E poi manovrò col fermo, per evitare che il suo piccolo wc fosse preso d'assalto da qualche ignaro collega.
Tirò un sospiro di sollievo, passandosi il dorso della mano sulla lucida fronte bagnata. Per un pelo proprio non s'era mostrato al prossimo nella sua più bassa intimità. Che, seppure alla fine della fiera tutti quanti vanno a cagare, e altrettanto vero che non è bello farlo in pubblico.
E mentre l'intruso si soffermò ai lavandini per fare qualcosa, il nostro rimase dietro la porta di legno a mordersi le labbra con rabbia.
Poi guardò l'orologio.
A quell'ora lui doveva già essere al suo posto di lavoro, cioè in reparto a dirigere i subordinati nelle varie occupazioni produttive. E poi mancavano pochi minuti al fondamentale incontro col signor direttore, la cui pazienza era proverbialmente minima.
Pensa Umberto, pensò Umberto. Ti tiri su i pantaloni e la facciamo finita. Torni al lavoro immerso in una nube tossica di odori sgradevoli oppure esci col culo per aria e chiedi scusa.
Non poteva farlo.
Poi però gli venne in mente una terza possibilità e forse era la cosa migliore. Strano non averci pensato prima, si disse.
Quindi levò il fermo e aprì nuovamente la porta.

La terza possibilità fu un successo e venne messa in atto come da manuale.
Cioè.
Umberto aprì la porta e uscì una faccia colma di sorrisini imbarazzati. Vide che al lavandino c'era il signor Gustavo, che faceva il magazziniere. Richiamò la sua attenzione con un Ehi scusa, a bassa voce.
Gustavo si voltò per inquadrarlo.
«Mica che potresti prendermi un rotolo di carta igienica nella doccia, ché c'ho un problema...», fece Umberto con voce incerta.
L'altro rimase stupito, a tratti interdetto.
Poi si lasciò scappare un risolino, poi disse Certo e alla fine esaudì i desideri del nostro. Umberto allungò la mano per prendere la carta che l'altro gli porse, attraverso dieci centimetri di porta aperta.
Poi tornò a chiudersi dentro per pulire finalmente, era ora, il buco più intimo di un uomo.
Nonostante la rabbia gli salisse al cervello nell'udire le risate di Gustavo, c'era la consapevolezza d'essersela cavata a buon mercato.
Appena in tempo.

Dopo la terribile esperienza il nostro Umberto sarebbe andato dal signor direttore e avrebbe saputo. Sarebbe diventato un responsabile, un capo, un dirigente chi lo sa?
Lui non lo sapeva ancora.
Sapeva che comunque sempre avrebbe controllato prima di chiudersi in un gabinetto per fare le bisogna.
Di sicuro.
Mai più senza carta igienica, così banale così preziosa.

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