Premio Editoriale Penna d'Autore - Narrativa

 

IL FILO DELLE RONDINI

Fosca Andraghetti
Sai, questa volta sembra che la primavera sia arrivata davvero! Fuori il sole è caldo e il prato che intravedo dalla finestra è ricoperto di margherite. L’albero che sta in mezzo, un tiglio credo, è pieno di ciuffi di tenere foglioline.
Io ti parlo e tu non rispondi. Un sonno talmente profondo il tuo, che ti impedisce di aprire gli occhi. Ho l’impressione che la tua mano cerchi la mia quando te la allungo. Cominci un poco per volta, molto lentamente, a cincischiarmi le dita, come facevi quando ero piccola e mi stringevo alle tue gonne in cerca di protezione, vergognosa com’ero di fronte a persone sconosciute. Parlavate di me come neanche fossi lì, con il vestitino ben pulito, le orecchie lavate e le trecce appena fatte.
Se ti tengo la mano non posso scrivere e, se non scrivo, i pensieri volano via. Dopo, difficilmente riesco a riacchiapparli.
Vorrei essere con te in un altro prato, in uno di quei pomeriggi così assolati da costringere la gente a rintanarsi nella frescura delle grandi case da contadini dove hai abitato. Non c’era un suono, anche le cicale sembravano essersi addormentate, sfinite dalla calura. A lunghi intervalli, il rombo di una motocicletta interrompeva il rumore dell’aria. Verso sera, quando le persone tornavano nelle strade, arrivavano le rondini. Si posavano una accanto all’altra sui fili della luce e stavano lì in attesa, il capo piegato sotto l’ala.
Anche tu sei come una rondine. I tuoi fili sono tubi molli nei quali scorre un liquido. Davanti al contenitore floscio dell’ultima flebo capisco che hai smesso di volare.
Non sono Isabel Allende e tu non sei mia figlia, ma anch’io scrivo nel tempo che sembra essersi fermato e penso a stagioni lontane. Erano belle, mamma, con i profumi e i colori dei campi dove ti spezzavi la schiena a zappare, a sarchiare, a raccogliere le spigolature del grano, delle barbabietole. Volevi che i tuoi figli studiassero, che facessero una vita migliore.
Ieri, quando ti ho detto che sei bella, ho avuto l’impressione di vedere l’ombra di un sorriso sulla tua faccia, ma forse era solo la mia voglia di vederlo. Già mi manca, eppure tu non sorridevi spesso.
Sto nuotando in una girandola di ricordi che resteranno spezzati, incompleti, perché tu non puoi farmi da «correttore di bozze». Forse dovremmo tenere sempre memoria di quella che è, o è stata, la vita delle persone che amiamo e che, un giorno, diventeranno le persone che abbiamo amato.
Continui a cincischiarmi la mano. Guardo oltre la finestra le margherite del prato; con i fiori, quelli che ti porterò, che ti porteranno, il tuo cerchio si chiude. Non sono ancora pronta a questo, così ho continuato a parlarti anche a casa mia. L’ho fatto sotto la doccia, mentre giravo per le stanze, con il phon in mano. Io ti sento accanto, ti sento al mio fianco. Mi è venuta voglia di vederti. Sono salita in macchina e sono partita.
Hai smesso di muoverti, ma quando ti tengo la mano ho ancora la sensazione che la tua si chiuda un poco per trattenere la mia.
L’ultimo giorno che ci siamo viste mi chiedevi di casa mia, delle mie amicizie. Ti ho detto che sto bene, che mi piace abitare qui. Ho tanti amici. Eri contenta e ridevi delle mie stupidaggini. Nella tua mente svanita è difficile coniugare il presente con il passato, le relazioni di parentela, i luoghi, i compiti quotidiani. Ho imparato a seguire i tuoi percorsi mentali e ti rispondo che sì, i miei figli stanno bene, io che di figli non ne ho.
Ti guardo mamma. Sembri una bambina alla quale è stato affidato un compito più grande di lei e si sforza di farlo al meglio. Sei sempre stata così. Ti sei ingobbita per il troppo lavorare, avevi le mani doloranti per le artriti, eppure continuavi ad occuparti di tutti, senza cedimenti. Di te mi resterà l’immagine di quando entravi in casa trafelata, il fazzoletto legato sotto il mento, l’occhio rivolto al camino, alla pentola sul focolare. E mi rimarrà la nostalgia di una bambola di pezza, persa in non so quale trasloco, che cucisti una sera al lume di candela perché, una volta tanto, non fossi diversa dagli altri bambini. Avrei tante cose da domandarti. Una ricetta, una tua emozione, un tuo sogno. Ho voglia dello zabaione che mi facevi a primavera, come delle «burrasche» che a te facevano alzare la voce e a me sbattere la porta.
Mi accoglievi, gli ultimi giorni che sei stata bene, rannicchiata nel tuo letto e con un sorriso grande, tu che nella vita non te ne sei mai potuta concedere troppi di sorrisi.
«Ehi! Mammetta, ti sei dimenticata di alzarti oggi?».
Stavi al gioco, poi mi allungavi le mani per farti aiutare. Dopo leggevi le poesie adagio e ti correggevi quando sbagliavi.
Non sono i fili delle rondini quelli a cui sei aggrappata, oppure sì, ma tu non tornerai a primavera.
Il cerchio si è chiuso. Ti leggo l’ultima poesia e vorrei non sentirmi orfana di te, io che non sono più bambina.
I momenti di difficile comprensione, che a volte ci hanno allontanato, non ci sono più e nemmeno il tuo preoccuparti per il pranzo o la cena per la tua famiglia.
Ti guardo e ho la sensazione che ti abbiano fatto una grande ingiustizia per ciò che la vita ti ha negato. Sofferenza, fatica e nessuna possibilità di riscatto.
Ti ho tenuto la mano fino a quando sei andata oltre quella porta. Un piccolo gesto di amore il mio. Non grande come quello che tu mi hai donato. So che sarai sempre accanto a me, ma non dirmi che non devo piangere. Non posso!

 

Copyright © 2002

Per tornare alla pagina precedente


HOME PAGE