Collana di Penna d'Autore

 

Gran Premio Letterario Europeo Penna d'Autore - PRIMO PREMIO ASSOLUTO

IL RISVEGLIO

Alessandra Santini

Il cartellino che gli era stato legato all’alluce del piede sinistro indicava soltanto il nome e l’età: Maurizio, 38 anni. Adesso era steso sul letto d’acciaio dell’obitorio, coperto a malapena da un telo bianco, livido proprio come un morto di due giorni, ed era in attesa di autopsia.

L’avevano trovato ventiquattr’ore prima fra i rifiuti della discarica comunale – cadavere fra i cadaveri, senza documenti né altro che lo identificasse. Il medico legale aveva detto che la morte poteva risalire a ventiquattr’ore prima, ma anche che sarebbe stato più preciso dopo l’autopsia, soprattutto per quanto riguardava le cause del decesso.

Però poi Alex, fotografandolo in mezzo ai rifiuti puzzolenti, aveva notato qualcosa, molto somigliante ad un biglietto da visita, sporgere dalla tasca posteriore dei suoi jeans sbiaditi e l’ispettore, coi guanti sterili, aveva estratto il biglietto e aveva letto a voce alta: «3 dicembre 2001. Auguri per il tuo trentottesimo compleanno, Maurizio, anche se quando li compirai, forse, io non ci sarò più. Anna».

Perciò ora il cartellino riportava «Maurizio, 38 anni»: era morto proprio nel giorno del suo compleanno. Chi era Anna? e perché quello strano biglietto? perché l’uomo non aveva chiavi né documenti con sé? Queste le domande della polizia. E Maurizio l’ennesimo enigma da svelare.

Alex, incuriosito, aveva posto un milione di domande a Solina, ottenendo però zero risposte, se non un secco: «Aspettiamo l’autopsia».

«E il biglietto d’auguri?», aveva insistito il fotografo della scientifica.

«Potrebbero esservi le impronte della donna, che forse è l’assassino».

«Certo. Ma chi ti dice che non si tratti di suicidio?».

Il discorso era finito lì ed Alex, dopo l’ultimo scatto, era tornato in sede con l’amaro in bocca, chiedendosi se davvero l’autopsia del dottor Moretti avrebbe chiarito presto e definitivamente ogni dubbio. Chi aveva certezze su chi? Di certo c’era che Maurizio era morto il giorno del suo compleanno e che ora, cadavere ormai livido, si trovava in obitorio.

Alex fu avvisato dell’esame necroscopico con molto ritardo, ma non se ne sarebbe preoccupato se il medico legale non avesse espressamente richiesto la sua presenza. Si può fare un’autopsia alle nove di sera?, si chiese il giovane affrettandosi per i corridoi semideserti dell’istituto di medicina legale. Era in effetti un orario un po’ insolito, ma non c’era da stupirsi se si prendevano in considerazione le stranezze del dottor Moretti – pronto a sezionare cadaveri anche alle tre del mattino.

Nella sala operatoria non c’era nessuno, se si eccettuava il corpo livido di Maurizio. Alex s’avvicinò con circospezione, lesse il cartellino che aveva al piede e scorse lo schema di referto, non ancora riempito coi dati del morto. Poi il suo sguardo si posò sulla mano sinistra di Maurizio dove, dopo la ripulitura del cadavere, era comparso un tatuaggio di colore rosso. Niente di strano – tanta gente ama farsi tatuare varie parti del corpo –, ma quel disegno aveva qualcosa di inquietante... Alex non ne comprese subito il significato; si trattava di un animale accucciato – forse un lupo – il cui muso, staccato dal resto del corpo, si trovava fra le zampe anteriori della bestia. Pensò che fosse un tatuaggio molto brutto e che comunque dovesse significare qualcosa – forse un simbolo.

Stava già per tornare sui propri passi quando notò un movimento repentino dei muscoli della mano del cadavere e, come per magia, la testa del lupo sembrò tornare al suo posto. Che diavolo..., pensò Alex balzando indietro. I muscoli di un morto non possono muoversi... o sì?

Sconcertato, tornò a guardare: la testa del lupo era tornata a staccarsi dal resto del corpo, proprio come se nulla fosse successo. Allora il giovane pensò di aver avuto una semplice allucinazione, dovuta magari ai cristalli liquidi dello schermo del computer che era lì a due passi. Solo un’allucinazione, nient’altro. Non poteva essere altrimenti.

Tornò verso il corridoio, guardò fuori. Nessuno sopraggiungeva, ed erano già le nove e un quarto. Moretti era proprio strano: perché l’aveva fatto scapicollare a quel modo se poi tardava a sua volta?

In fondo al corridoio vide spegnersi la luce nell’ultima stanza del lato sinistro, la sola ancora abitata, poi un’ombra s’avviò verso l’uscita.

«Ehi, aspetti», chiamò Alex. L’ombra si voltò e a lui parve trattarsi di Barbara, l’assistente del medico legale. Le andò incontro.

«Che ci fai ancora qui?», chiese la ragazza.

«Aspetto Moretti», rispose Alex. «Ma tu non sei dei nostri?».

«Per fare cosa? Ho visto il dottore andarsene un’ora fa».

«Come? Deve fare l’autopsia sul cadavere di quell’uomo trovato ieri alla discarica, non ne sai niente?».

«No. Forse è stata una decisione dell’ultimo minuto perché fino a un’ora fa il dottor Moretti doveva trovarsi coi suoi amici per la solita partita a poker del venerdì sera».

«E tu, ovviamente, stai andando a casa?».

«Certo, sono quasi le nove e mezzo».

«Non capisco...».

«Ma poi perché t’avrebbe convocato? Non hai fatto le foto sul posto?».

«Forse voleva che riprendessi il cadavere quando fosse stato lavato. In effetti, adesso, aspettandolo, ho notato qualcosa che ieri non avevo visto: l’uomo ha uno strano tatuaggio sulla mano sinistra».

«Dopo il lavaggio emergono spesso elementi interessanti».

«Non vuoi vederlo?».

Barbara scrutò il giovane ironicamente prima di replicare: «Non m’interessa proprio, non ora. E poi c’è Claudio qua fuori che m’aspetta da mezz’ora. Scusa... buonanotte», quindi s’allontanò in tutta fretta.

Una partita a poker (la «solita», secondo Barbara). Allora perché fissare l’autopsia proprio quella sera? perché non rimandare tutto all’indomani? O Moretti era di colpo impazzito, o qualcosa non quadrava in tutta quella storia. Sempre più sconcertato, Alex penso di chiamare Solina, ma trovò il cellulare spento – mentre in ufficio non rispondeva nessuno. Ma tanto sapeva cosa gli avrebbe detto il poliziotto: «Stai ancora in giro? Lascia stare, va a casa e fatti una bella dormita», inutile insistere.

Tornò invece in sala operatoria e subito la sua attenzione fu attratta dallo schermo del computer: ora era spento, contrariamente a pochi attimi prima. Ma allora qui c’è qualcuno..., pensò stupito. Al contrario del tatuaggio, stavolta non poteva trattarsi di semplice allucinazione.

Gli parve di udire un rumore – come un fruscio, o passi furtivi. Corse fuori ma non vide nessuno. Una voce bisbigliò: È meglio se te ne vai...

«Chi ha parlato?», urlò Alex impaurito. «C’è qualcuno qui?».

Una voce, certo... o un soffio di vento? Un’altra allucinazione? Qualcuno lo stava sfottendo, e provava gusto a spaventarlo. Benché in quel soffio gli fosse sembrato di udire la voce di Laura... ancora Laura, sempre lei... Perché non lo lasciava in pace?

Moretti non si vedeva e Alex decise di tornarsene a casa. Aveva sognato, e il suo cervello stanco gli proponeva immagini irreali e voci dal passato, tutto qui. Doveva riposare. Spense la luce in sala operatoria e se ne andò.

«A volte gli spiriti si prendono gioco di noi, Alex. Non badarci, lasciali divertire», gli disse Giulia quella notte, accoccolata accanto a lui.

Ma lui scosse la testa. Non aveva mai creduto agli spiriti né ad entità ultraterrene, almeno fino a quando non gli era comparsa davanti Laura – morta molti mesi prima ma ancora così viva nelle ombre della notte. Solo che non voleva, non poteva accettare una simile spiegazione. Gli spiriti non sanno spegnere lo schermo di un computer...

«E sono gli spiriti a telefonarmi per dirmi dell’autopsia?», ribatté.

«Forse. Loro possono tutto».

«Mi prendi in giro: come puoi credere a simili scemenze?».

«Ci credo dalla notte in cui incontrai il camionista ubriaco che aveva occhi da demonio e che mi disse di star andando all’inferno. Quel camionista non è mai esistito, capisci? È stato solo lo scherzo di qualche spirito burlone. Ero terrorizzata, avevo la macchina bloccata e il cellulare morto, e lo spirito s’è preso gioco di me. A te, stasera, è successa la stessa cosa».

«Ma il video prima era acceso!», protestò lui. «E ho sentito davvero il fruscio e la voce, ho visto sul serio i muscoli di quella mano muoversi».

«Perché non provi a dormirci sopra?».

«Tutto qui? Non sai dirmi altro?».

Giulia scosse la testa, gli sorrise. «A volte non esistono spiegazioni logiche. Le cose succedono e basta e noi, prima o poi, ce ne dimentichiamo. Allora, vuoi che resti con te stanotte, o mi riporti a casa?».

Lui sorrise: indubbiamente preferiva la prima chance.

«Ho analizzato il biglietto, Alex», disse l’ispettore della scientifica quella mattina, non appena vide sopraggiungere il collega fotografo.

«Voglio che tu lo sappia prima della omicidi, visto che sei stato tu a trovarlo».

«Hai scoperto qualcosa d’interessante?».

«Direi proprio di sì. Sul biglietto c’era un solo tipo di impronte – quelle della vittima –, ma c’è dell’altro: quelle stesse impronte sono nel nostro archivio e appartengono ad un certo Maurizio Mancini».

«Quindi la vittima era un pregiudicato? Che reato aveva commesso?».

«Era stato dentro per adescamento di minore. Ma non è finita: la calligrafia del biglietto è la sua – così rivela il confronto d’archivio».

«Insomma si scrive un biglietto d’auguri firmandosi Anna, poi s’ammazza nel giorno del suo compleanno? Che senso ha?».

«Lascialo scoprire a Solina. T’ho avvertito perché lavori al caso».

Alex ringraziò il collega e s’allontanò pensieroso.

Sviluppò subito le foto scattate alla discarica, le osservò bene prima di portarle a Solina e s’avvide che sulla mano sinistra del cadavere – benché sporca di terra – non compariva alcun tatuaggio rosso...

A volte gli spiriti si prendono gioco di noi... Quelle parole gli rimbombarono nel cervello d’improvviso, come una pugnalata assestata a dovere. Poi la voce ovattata dello spirito di Laura che ripeteva: Forse è meglio se te ne vai. Perché voleva allontanarlo da quel caso? Che c’era da scoprire oltre l’evidenza? Chi o cosa si nascondeva dietro quella storia?

«Grazie per la celerità, Alex» disse Solina ricevendo le foto. «Stavolta alla scientifica avete fatto un ottimo lavoro: stamattina ho ricevuto anche i risultati delle analisi sul biglietto d’auguri».

«E cosa dicono?», ribatté il fotografo fingendo di non sapere. Così il poliziotto gli ripeté le novità, aggiungendo: «Mancini era una vecchia conoscenza della minorile: adescava minori con la scusa della magia televisiva e poi tentava di fare i suoi comodi. Ufficialmente era un mago – sai, quelli che ti fanno l’oroscopo in diretta tv. Ma c’è di più: Anna era il nome di sua moglie, morta tragicamente cinque anni fa in un incidente d’auto».

«Quindi s’era scritto da solo quel biglietto?».

«Così pare. E pare anche che si sia ammazzato».

«Come lo sai?».

«Moretti ha telefonato poco fa, anticipandomi i risultati dell’autopsia».

«Aspetta», l’interruppe Alex con foga. «Quando ha fatto l’autopsia?».

«Stamattina presto, perché?».

«Non ieri sera alle nove?».

«Il venerdì sera Moretti ha appuntamento fisso col poker. Perché?».

«Lascia stare... devo aver capito male. Che dice il medico legale?».

Solina scosse la testa, rinunciando a capire gli strani discorsi del giovane fotografo. «Dice che Mancini è morto per avvelenamento da barbiturici. Resta da scoprire chi l’abbia portato alla discarica e perché».

«Potrebbe esservisi recato di sua volontà».

«Senza documenti, né macchina, né chiavi di casa?».

«Forse era già sotto l’effetto dei narcotici».

«C’è qualcosa che non quadra, non posso ancora archiviare il caso».

Alex ci pensò alcuni istanti, poi mormorò: «Non quadra neanche a me. Guarda qua», disse e gli mostrò la foto che metteva in evidenza la mano sinistra del cadavere. «Noti qualcosa su questa mano?».

«Niente».

«Perché eri all’obitorio ieri sera?».

«Perché qualcuno – forse per farmi uno scherzo macabro – mi ha telefonato dicendomi di raggiungere Moretti, che avrebbe effettuato l’autopsia alle nove. Ma l’ho atteso invano, l’assistente mi è testimone».

«Chi, Barbara? Era lì anche lei?».

«Sì, almeno fino alle nove e mezzo».

«Non può essere: ha appena avuto un bambino, è in maternità».

«Cosa? Volete proprio farmi impazzire? Chi ho visto io ieri sera, un fantasma? Chi mi ha telefonato? Che diavolo succede?!».

«Calmati, Alex. Forse sei un po’ esaurito, hai bisogno di una bella vacanza. Perché non prenoti una settimana bianca e ci porti Giulia?».

«Solina, non prendermi in giro. Ultimamente qualcuno si sta prendendo gioco di me ed è una persona reale, non uno spirito. Ho parlato con una donna vera ieri sera, okay? Forse non era Barbara, forse, nella penombra, s’è fatta passare per lei, ma era vera. Come vero era il tatuaggio sulla mano del cadavere. Vuoi controllare, per favore? Telefona a Moretti e chiedigli conferma».

Solina obbedì, più per tenerlo buono che per reale interesse. Il medico legale però gli confermò la presenza del disegno rosso a forma di lupo con la testa staccata dal corpo al ché, una volta riagganciato, fu costretto ad ammettere: «È vero, qualcuno ci sta prendendo per scemi: al momento del ritrovamento del cadavere il tatuaggio non c’era, adesso invece c’è. Che ne pensi?».

«Tu non credi ad una sola delle mie parole, perciò penso questo: il caso è tuo, risolvilo. Buona giornata», ribatté Alex stizzito. Dopodiché se ne andò quasi correndo, insensibile ai reiterati richiami dell’ispettore.

Quella sera rifiutò qualsiasi compagnia, soprattutto Giulia. Voleva capire e per farlo doveva essere solo e concentrato.

Tutto quadrava, tranne il suicidio e il tatuaggio. Allora, chi aveva ucciso Maurizio Mancini e perché voleva farlo apparire un suicidio? Perché era andato in obitorio a tatuargli la mano sinistra e a spaventare a morte un fotografo della scientifica? Perché, soprattutto, aveva voluto che questi fosse presente e notasse il tatuaggio? Come aveva potuto far sì che i muscoli del cadavere – anche se solo per una frazione di secondo – si “risvegliassero”?

L’attenzione di Alex si indirizzò verso la donna incontrata in corridoio e che s’era fatta passare per Barbara – dando comunque informazioni giuste sul conto di Moretti e del poker del venerdì sera. Poteva essere lei l’assassino. Ma chi era quella donna?

Poi c’era il tatuaggio: cosa rappresentava? Forse dalla sua comprensione sarebbe giunto un indizio utile, o la chiarificazione del tutto.

Solina aveva detto che Mancini era un mago. Magari il simbolo del lupo con la testa staccata si riferiva alla magia, all’occultismo, o a quant’altro di simile. Incuriosito, si collegò ad Internet, perse un paio d’ore nella ricerca e alla fine trovò quello che cercava – e che forse, con un po’ di razionalità, avrebbe capito anche da solo. Il lupo, soprattutto nell’arcaico immaginario collettivo, è un simbolo negativo; gli è sempre stata affibbiata la parte del cattivo, dello sgozzatore di pecore e, nelle fiabe, di ladro di bambini (vedi Cappuccetto rosso)... Accidenti, «ladro di bambini»! Certo, Mancini era finito dentro per adescamento di minori: era lui il lupo cattivo, lui lo spettro da abbattere! E quel tatuaggio non poteva che indicare una cosa: vendetta. Il lupo cattivo non ha più la testa, è stato ucciso, vinto, abbattuto. È finita. Chi poteva aver voluto questo? L’assassino. Perché? Per uccidere il «lupo cattivo», colui che faceva del male ai bambini. Anzi, ad un bambino in particolare: il figlio della donna che aveva ucciso Mancini.

Alex balzò in piedi, incredulo ma soddisfatto di se stesso. Era chiaro: Mancini abusa di un bambino, viene condannato, esce di prigione e la madre del bambino si vendica somministrandogli barbiturici a volontà; poi lo porta alla discarica, abbandonandolo fra i rifiuti (solo lì può stare uno che abusa di minori), e lascia la sua firma, per spiegare il gesto fatto e tutto il resto: il lupo è morto.

Pensò che forse anche Solina sarebbe arrivato alla medesima conclusione, ma decise di non aiutarlo. Perché era d’accordo con quella donna, chiunque fosse e qualunque crimine avesse commesso. Non poteva condannarla. In fondo sperò che Solina non la scoprisse mai e archiviasse il caso come suicidio.

Spense il computer e ripensò a quelle parole, ora comprensibili: Forse è meglio se te ne vai. Non erano state dette da Laura, bensì da una madre disperata. Meglio andarsene e non capire, non sapere nulla.

S’affacciò al balcone, guardò il cielo stellato: senza il «lupo cattivo» il risveglio, domani, sarebbe stato migliore.

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