Collana di Penna d'Autore

 

Gran Premio Letterario Europeo Penna d'Autore
PREMIO SPECIALE IL SALOTTO DEGLI AUTORI

CERCHIAMO LA PACE

Ornella Lotti Venturini


Per me la prof va’ controcorrente con la sua mania di fare lezioni sulla pace.
Ce ne ha già parlato almeno tre volte, con voce grave, guardandoci profondamente negli occhi:
«C’è la guerra ovunque, nel mondo… E dappertutto, ove esiste la guerra, vediamo la tortura, la violenza, la miseria, le prigioni… Parliamo della pace… “Cerchiamo la pace”: è il tema che dovrete svolgere la prossima settimana».
Un fischio in fondo alla classe ha accolto le ultime parole. Poi Bertrand, col suo fare insolente, ha esclamato: «E dove dobbiamo cercarla, prof?».
Scoppi di risa, mormorii di approvazione.
L’insegnante di francese è diventata rossa. Di collera, di imbarazzo, di emozione?
Va’ a sapere…
È zitella la nostra prof, si vede da come si veste e dall’espressione triste della sua faccia, da bovino infelice. Deve aver avuto poche soddisfazioni nella vita: si capisce subito che gli uomini sono stati un miraggio per lei. D’inverno ha sempre il raffreddore e porta dei maglioni pesanti e larghi che nascondono il sedere piatto e un seno probabilmente avvizzito. Gli occhiali spessi, da miope, le rimpiccioliscono gli occhi che sembrano due olivette nere. Eppure il suo volto scialbo si illumina quando parla di un argomento che le sta a cuore.
«Ragazzi – ha replicato con fervore. – Ragazzi miei, ma guardatevi attorno! Già qui, in classe, ci applichiamo ogni giorno per mantenere la pace: col dialogo, con l’insegnamento, con la tolleranza… E poi cercate nelle vostre famiglie, tra i vostri amici, nella vostra città! Gli esempi di pace non devono mancare…».
Silenzio. Stiamo tutti cogitando su quali indirizzi orientare le nostre ricerche.
Micelle ha alzato la mano per parlare. È la più bella della classe, forse anche la più matura perché è ripetente. Si trucca gli occhi con una matita viola, ha le labbra sempre umide e due tette turgide sotto le magliette aderenti che le scoprono l’ombelico. Il suo ombelico e i suoi capezzoli mi turbano di notte e mi fanno… Ma non lo dico.
«Nelle nostre famiglie non sarà facile… – dice Micelle. – Mia madre è sola, lavora tutto il giorno e a volte anche di notte perché è cassiera in un bar… Mio padre se n’è andato quando avevo quattro anni… I miei due fratelli sono disoccupati e litigano sempre con mamma per i soldi… sa, i soldi per le sigarette, per i divertimenti… No, io in famiglia un esempio di pace non saprei trovarlo».
Jeannot, piccolo e grassoccio, ha alzato a sua volta la mano.
«Nel mio condominio tutti i vicini bisticciano fra di loro e non si salutano neppure! Uno ce l’ha col cane del terzo piano che abbaia a tutte le ore, un altro coi rumori, un altro con la sporcizia delle scale…».
Tutti, adesso, hanno qualcosa da dire. I commenti si accavallano, crepitano qua e là come piccoli razzi d’artificio. La prof cerca di intervenire, ma non ce la fa a canalizzare i discorsi dei ragazzi che ormai discutono a briglia sciolta senza tener conto del tema che era all’ordine del giorno. Ciascuno vuol dire la sua, ciascuno porta un esempio che è all’opposto dell’argomento «pace».
Cerco di inghiottire il groppo che ho in gola: vorrei esprimere anch’io il mio parere, ma so che se parlo tutti mi diranno di star zitto.
Mi chiamo Ahmed e i miei genitori sono algerini. Io però sono nato a Marsiglia e vado a scuola in Francia e mi sento uguale ai miei compagni. Dovrebbero lasciarmi “in pace”, i miei compagni, e invece no: sono il capro espiatorio di ogni litigio e siccome sono anche piccolo di statura, è facile per loro picchiarmi e incolparmi di qualsiasi cosa succeda in classe o durante gli intervalli di ricreazione.
Da quando poi le due torri di New York sono saltate in aria, gli arabi hanno la vita ancor più dura a Marsiglia.
Per ogni caso di prostituzione, di droga, di furto o di attentato, siamo sempre sospettati, accusati, tartassati. «Sono loro, sono quei maledetti bougnoules* che degradano la nostra città!». Questa frase ed altre dello stesso tipo le sentiamo spesso e le leggiamo anche sui giornali.
Eh già, è sempre colpa nostra! Come se i romeni, i russi, gli albanesi, gli italiani fossero tanto tranquilli e innocui! La “mafia”, per esempio, non l’abbiamo mica portata noi! Dicono anche che siamo “fanatici”. Ho cercato la parola sul dizionario e ho trovato: «Persona che dimostra uno zelo eccessivo per una religione».
Noi, in casa, non abbiamo una vera religione: tradizioni sì, ma che non disturbano nessuno. Le mie sorelle non portano il tchador e neppure mamma, anche se quasi tutte le sue amiche che incontra al mercato hanno il capo coperto dal famoso foulard.
La figlia di Youssef, il nostro vicino di Orano che vende olive e spezie al mercato, è stata espulsa dalla scuola perché suo padre voleva che portasse il tchador. Che male faceva col suo fazzolettone che le nascondeva la fronte e i capelli? Era una brava allieva di terza media, Amina, ed ora non si vede più… Se ne sta chiusa in casa… È un bell’esempio di pace e tolleranza, questo?
Quando parliamo la nostra lingua, i francesi del nostro rione dietro al porto ci guardano male.
«Foutez le camp! Fuori dai coglioni, arabi maledetti!».
Io sono bravo nel gioco del calcio. Ho i tiri precisi e sono più rapido di Bertrand et Philippe che sono grandi e grossi e che comandano la squadra del quartiere. Ma non mi accettano mai, mi lasciano sempre in disparte e una volta che insistevo per sostituire uno che si era fatto male, mi hanno anche picchiato. «Vattene, bougnoule, mandaci piuttosto le tue sorelle per una ch…!».
A volte sono così umiliato e pieno di rabbia che vorrei picchiarli anch’io. Ma non lo faccio… e non lo dico.
Le mie sorelle hanno sedici e diciotto anni: sono belle, slanciate, con una pelle color ambra, liscia come seta. Tutti gli uomini del quartiere le guardano con cupidigia: giovani e vecchi, francesi, arabi o ebrei. Alizée lavora in un negozio di parrucchiere di lusso alla Canebière. Lì ci vanno le donne piene di soldi, francesi o straniere, che lasciano delle mance cospicue. Alizée è sempre vestita bene, tutta in ordine e profumata, ma ciò non vuol dire che sia una puttana! Mio padre è molto severo, soprattutto con le figlie, e loro sanno come devono comportarsi.
Farah studia di sera perché di giorno è impiegata in un ufficio. Per ora fa solo dei lavoretti amministrativi, ma è ambiziosa, vuole imparare bene l’inglese e la contabilità per ottenere una promozione. Una sera, tornando dalla scuola serale, è stata aggredita da un gruppo di ragazzi che volevano violentarla. Si è difesa come poteva, ha urlato... Poi, per fortuna, una macchina si è fermata, i teppisti si sono dileguati e il conduttore l’ha accompagnata al commissariato. La polizia ha chiamato mio padre che quando ha visto la sua figliola malconcia, con la maglietta strappata e un livido in faccia, si è messo a urlare nella nostra lingua. Non l’avesse mai fatto! Per poco non lo mettevano in prigione e Farah, da vittima, è diventata colpevole. «Una ragazza che gira sola di notte… È una provocazione! Bell’educazione che dà lei ai suoi figli!».
Mio padre è tornato a casa piangendo e da allora va sempre ad aspettare mia sorella all’uscita del corso serale.
L’altra sera mentre andavo in cantina a riporre gli arnesi da pesca – io e papà andiamo a pescare il sabato e la domenica – ho visto il vicino del quinto piano, quello che è disoccupato e sempre ubriaco, che faceva vedere il suo coso enorme a una bimbetta terrorizzata. Quando sono arrivato all’improvviso e li ho scoperti nelle scale della cantina, si è messo a sbraitare e a trattarmi da ficcanaso. La bimba ne ha approfittato per scappare… E anch’io ho dovuto scappare, se no quel porco mi picchiava! È un porco francese… Vorrei gridarlo a tutti… Ma sto zitto e non lo dico.
Mamma dice che l’ebreo della drogheria sotto casa ruba sempre nel peso. Anch’io me ne sono accorto: dà un colpetto alla bilancia, poi incarta la merce rapidamente, con una carta spessa, pesante, guadagnandoci ad ogni pesata dai venti ai cinquanta grammi. E lo fa col sorriso, discutendo con la cliente, in modo che quella non si accorge dell’inganno. Bell’onestà, per uno che va sempre alla sinagoga! Ma se gli facessi un’osservazione, comincerebbe subito a strillare con la sua voce acuta che noi arabi ce l’abbiamo con gli ebrei… Così sto zitto e non lo dico.
Quest’inverno a scuola abbiamo parlato molto della guerra contro Saddam. Gli americani sono convinti di portare la pace nell’Irak e, per instaurarla, gettano bombe sulla popolazione innocente. Le immagini che vediamo in televisione sono orribili: pozzi di petrolio in fiamme, macerie, feriti agonizzanti… Manca l’acqua, manca il cibo e quei poveri diavoli non capiscono perché gli americani li odiano tanto, cercando poi l’approvazione di tutte le nazioni. Si sentono sbandierare dei gran discorsi sulla pace e sui diritti dell’uomo: vogliono prendere Saddam, vogliono eliminare Bin Laden… E intanto ammazzano i figli del dittatore, tanto per dare un esempio della loro efficienza.
Io, gli americani, non li posso vedere… Ma sto zitto e non lo dico.
Ogni fine settimana, da marzo in poi, vado a pescare con mio padre.
Prendiamo l’autobus che ci porta fino all’Estaque e da lì andiamo a piedi alle calanche.
L’Estaque è un villaggio della periferia di Marsiglia: un groviglio di tetti di tegole rosse che ruzzolano giù dalla collina fino al porto dei pescatori: minuscolo, ma pieno di vita. Nessuno fa attenzione a noi, anche se abbiamo la faccia da bougnoules. Ci sediamo al bar per bere una menta o un’aranciata, mentre agli altri tavoli gli uomini discutono ad alta voce con la loro cadenza marsigliese. Si sente un buon odore di anice: è il pastis, fresco e lattiginoso nei bicchieri alti. Alcuni mangiano delle fette enormi di pan bagnat, coperte di pomodori, cipolle, olive e tonno. E intanto parlano, parlano e ridono. Sono simpatici, i marsigliesi, quando non ce l’hanno con noi: un po’ spacconi, un po’ chiassosi, ma allegri e buontemponi.
Ecco, qui mi sento bene, mi sento “in pace”.
Poi imbocchiamo il sentiero tra la macchia odorante di lavanda e rosmarino: un’ora circa, a piedi, per raggiungere Callelongue. Papà sceglie una roccia isolata per la pesca, io mi metto un po’ più lontano con la mia lenza, ma se il pesce non abbocca me ne vado in un’altra insenatura per fare il bagno.
L’acqua è limpida, fresca, profonda.
Io so nuotare bene fin da quando ero piccolo. Da grande vorrei fare il sub, non per divertimento, ma immersioni da professionista per cercare dei relitti e dei tesori in fondo al mare. Hanno trovato delle grotte preistoriche nella calanca di Morgiou.
Forse da grande potrò andarci… Forse potrò comprarmi una tuta di gomma e un paio di pinne.
Mi tuffo e mi rituffo più volte. Posso stare sott’acqua più di due minuti in apnea e così osservo qualche pesce solitario, uno sciame argenteo di alici, le conchiglie attaccate alle rocce, una medusa trasparente che sembra una danzatrice mentre fa ondeggiare i suoi tentacoli.
Prof, io sott’acqua mi sento bene, mi sento in pace.
Nessuno mi tratta male, nessuno mi dice “maledetto bougnoule”.
Quando riemergo, papà da lontano mi fa cenno di avvicinarmi e mi mostra il suo bottino: sei pesci lunghi un palmo guizzano nel secchio. Mangiamo il pane col formaggio e le olive. Mamma ci ha dato pure due arance e dei datteri.
Sulle rocce bianche che precipitano a picco nel mare alcuni gabbiani ci osservano aspettando le briciole. Di fronte a noi l’isolotto Riou, disabitato ma popolato da conigli selvatici, spezza la liena dell’orizzonte: il blu del mare e l’azzurro rosato del cielo si confondono, si perdono laggiù… Lontano… Verso la mia terra. Che vive ore di guerriglia, di miseria, di confusione politica e religiosa.
E tu, prof, con la tua aria triste e rassegnata, dove l’hai trovata la pace?

* bougnoule: (gergo) appellativo per algerini, tunisini, marocchini

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