1° Premio Letterario Penna d'Autore - Sezione Racconti: Andrea Di Peco

 

PRIMO PREMIO - SEZIONE RACCONTI

ANDREA DI PECO di Francavilla al Mare (CH)

VALETUDO

A Rabat, avere in famiglia portatori di handicap è considerato un disonore, una vera e propria punizione divina. Le famiglie che si trovano ad avere un figlio disabile si nascondono come se dovessero celare una vergogna.
Quella che vi sto per raccontare è la storia mia e di mio fratello Karim, il grande Karim.
Io mi chiamo Said, Said Idharì, e sono nato in Marocco sedici anni fa e da sei vivo in Italia, a Milano. È stato Karim che mi ha dato l’opportunità di emigrare; quando gli hanno proposto di andare a lottare in Italia, Karim disse al mister Arcel: «O viene anche mio fratello, oppure rimango qui». Quando pronunciò quella frase, i miei occhi si illuminarono, luccicarono di grossi lacrimoni, la felicità mi gonfiò il petto ed il cuore, così come si gonfiano le vesciche degli agnelli per farle essiccare. Non piansi di contentezza, solo perché Karim, con il suo sguardo, me lo impedì. Karim, mio fratello, il Ragazzo Cattivo.
Oggi ripenso al Marocco, al sole rosso che brucia la terra e la fa ondulare all’orizzonte, all’odore della cannella, del curcuma e del coriandolo. Oggi ripenso alla mia casa vicino al fiume, ai miei genitori ed ai miei fratelli; mi vengono in mente le immagini di Karim che fa il pagliaccio per farmi divertire, e io rido a crepapelle. Solo oggi ripenso davvero al mio paese. Oggi che ricordo le mie mani sporche. Sporche di sangue. Del sangue di Karim.
Facciamo qualche passo indietro.

Karim.
Karim Idharì nacque ventisei anni fa ad Azergueka, un piccolo villaggio nel nord del Sahara. Quando raggiunse i sei anni, i miei genitori si trasferirono nella capitale Rabat. O meglio presso Rabat o, per essere ancora più precisi, in una bidonville intorno a Rabat. Lì, dopo quattro anni, nacqui io. La casa dove abitavamo io, i miei genitori, Karim, Rashid, nostro fratello più grande e Najat, la nostra sorellina più piccola, era fatta di tende e lamiere e aveva un solo grosso ambiente dove facevamo tutto. Mia madre era una donna silenziosa ma sempre sorridente, invece mio padre, che gran borbottone! A tavola, sempre la stessa storia: pollo con le mandorle e lui: «Detesto il pollo, quasi quanto odio le mandorle», gli si portava il burek algerino e lui: «Detesto il burek, quasi quanto odio gli algerini». Sempre così, odiava tutto e tutti ma la sua famiglia, almeno quella, era sacra.
Ma torniamo a Karim. Mio padre una volta mi disse che mio fratello aveva il corpo di bronzo e che, dentro quel metallo, c’era fuoco che bruciava. Solo quando divenni più grande percepii il vero significato di quelle parole. Karim non rideva mai, i suoi occhi erano piccoli ed il suo sguardo accigliato, aveva la pelle del colore delle olive mature ed i muscoli forti e ben delineati. Spesso, il pomeriggio, tornava a casa con gli occhi neri e le gambe e le braccia scorticate; ogni volta che mio padre lo vedeva rientrare così conciato, gli dava una bella dose di legnate per insegnargli che non doveva fare a pugni. L’unica cosa che ricordo di quei pomeriggi, è che Karim, quando mio padre lo menava, non piangeva mai. Una volta mio fratello mi disse che a quindici anni nostro padre non lo avrebbe più picchiato. Tornò a casa con un labbro spaccato, dopo l’ennesima zuffa per strada, e quando nostro padre gli si avvicinò per la solita lezione, gli saltò addosso per primo e lo riempì di pugni. Da allora nostro padre non lo toccò più. Loro due, comunque, si volevano bene. Solo che, per comunicare, usavano le mani.
E Karim le mani, anzi i pugni, li usava proprio bene; in una città che ti batteva forte la schiena quando ti dimostravi debole, mio fratello aveva imparato ad usare i suoi pugni come mezzi d’azione per andare avanti. Fu proprio la sua forza che cambiò la nostra vita.
Un giorno Karim, mentre andava al mercato per comperare del pesce per nostra madre, vide un gruppo di ragazzi della sua età che stavano schernendo Seddik, un ragazzo disabile che, nei giorni di mercato, andava in giro a chiedere qualche moneta o farsi lanciare qualche ritaglio di pollo. Quei ragazzi, quattro in tutto, stavano per malmenare Seddik con calci troppo forti per il suo esile scheletro. Karim, veduta la scena, lanciò in aria il cesto con i pesci, si scagliò all’assalto del gruppo e picchiò. Diamine se picchiò. Raccontò che il primo avversario era caduto al primo pugno ben assestato sulla mascella. Il secondo venne scaraventato su una bancarella da un poderoso calcio a mezza altezza. Il terzo ed il quarto tentarono di fuggire, ma mio fratello raggiunse quei poveri magrebini sfortunati e li picchiò per bene.
Quel giorno per caso, al mercato, ad assistere alla scena, c’era Idir Jelloun.
Ricordo che, il giorno dopo, il signor Jelloun si presentò a casa nostra dicendo che voleva incontrare Karim.
Disse ai nostri genitori che loro figlio aveva un dono, regalatogli da Allah, nella sua immensa generosità. Questo prodigio, Karim doveva sfruttarlo.
Idir Jelloun era stato un ex lottatore, aveva combattuto per molti anni ottenendo dei risultati discreti in ambito internazionale. Aveva iniziato con la boxe, in seguito era passato ad altre discipline per raggiungere infine i risultati più prestigiosi nella kickboxing. Ora aveva una palestra in città e faceva l’allenatore ed il manager. Quella mattina il signor Jelloun venne a casa nostra per prendere Karim nella sua squadra. Karim accettò.
In pochi mesi, mio fratello divenne la punta di diamante della squadra di kickboxing, si allenava per otto ore al giorno ed i primi risultanti non tardarono ad arrivare. A sedici anni divenne campione nazionale juniores, a diciotto era conosciuto in tutti gli ambienti della lotta del Marocco e la sua fama si diffuse anche al di là dei confini nazionali.
Il giorno che Karim compì vent’anni, Il signor Jelloun lo convocò nel suo ufficio. Mio fratello mi raccontò che il manager voleva farlo incontrare con un certo italoamericano di nome Arcel: era una specie di organizzatore di incontri e aveva sentito parlare della forza di Karim Idharì, il Ragazzo Cattivo, il Guerriero di Bronzo (così era stato soprannominato mio fratello), perciò voleva portarlo in Italia, dove avrebbe avuto un grande futuro, guadagnando molti soldi. Karim guardò il volto di Idir Jelloun, l’uomo che lo aveva scoperto, per capire cosa dovesse fare, ma Jelloun evitò il suo sguardo. In quel gesto Karim comprese che il signor Jelloun lo aveva abbandonato. Il suo manager aveva chiuso gli occhi come si chiude una porta in faccia a qualcuno. Karim percepì che questa decisione costava molto al signor Jelloun, ma capì pure che lo svuotamento del suo animo per la perdita del prediletto, era colmato dal peso delle sue tasche, riempite da Arcel con moneta europea.
Quando Arcel venne nella nostra casa per prelevare Karim, mio fratello pronunciò quelle inaspettate parole: «O viene anche mio fratello, oppure rimango qui». Arcel, seppur irritato, dovette acconsentire alla richiesta. Così insieme partimmo per l’Italia.

Milano.
Appena arrivati, Milano ci sembrò il paradiso: un salto nel futuro come in un immenso negozio dove tutti i sogni potevano essere realizzati. Questa vana illusione durò solamente qualche ora. Tutti quegli uomini ben abbigliati che passeggiavano sorridenti per le vie del centro erano solo esseri lontani ed irraggiungibili che, anche se ci camminavano a fianco, vivevano in un mondo dove non saremmo mai potuti entrare. Il signor Arcel ci sistemò in un piccolo appartamento di periferia che condividevamo con altri cinque marocchini. Io e Karim dormivamo insieme in una piccola stanza. Sin dal giorno dopo il nostro arrivo, Karim iniziò ad allenarsi: usciva la mattina alle cinque e rincasava alle sette di sera, con il volto gonfio e tumefatto; tornava talmente stanco che non aveva neanche la forza di mangiare. Devo dire che, anche per me, la situazione non era delle più felici. I connazionali che vivevano con noi non mi vedevano di buon occhio. Dai loro sguardi capii che nutrivano un’avversione viscerale nei miei confronti. Mi avevano affibbiato persino un soprannome, Merluzzo mi chiamavano; io non lo dissi mai a mio fratello perché sapevo che non l’avrebbe presa bene e che si sarebbe scagliato contro di loro, aggravando la nostra già scomoda situazione.
L’unico giorno che amavo era la domenica. In quei giorni Karim non si allenava, così ce ne stavamo nella nostra camera a parlare. Una di quelle domeniche, mio fratello mi parlò a lungo dei suoi combattimenti in Italia. Mi disse che l’avevano allenato duramente per un altro tipo di lotta, il valetudo. Un’arte marziale interstile che veniva dal Brasile e che riprendeva il concetto di lotta totale del pancrazio della Grecia antica. Era una lotta durissima e pericolosa: in sostanza era consentito qualsiasi tipo di colpo, in pratica non c’erano regole, come nella vita. Poi mi disse che tutte le leggi del mondo, da quelle religiose a quelle politiche, sono mere convenzioni create dall’uomo per far sì che le nostre vite seguano il corso che alcuni hanno pensato per tutti gli altri. Lo stato sociale, ovvero tutte le norme con cui lo Stato cerca di eliminare le diseguaglianze sociali ed economiche fra i cittadini, sono solo una panacea per farci stare buoni. La verità è che quegli uomini sono gli stessi che per primi sono pronti a violare i patti per affermare il loro potere. Perché la vita, mi disse, è senza regole, le uniche ammesse sono quelle che ci facciamo noi stessi. Come nel Valetudo.
Quel giorno mi confidò anche che il signor Arcel gli aveva proposto degli incontri clandestini, dei combattimenti che non rientravano in nessun circuito ufficiale, ma nei quali si potevano guadagnare molti soldi. Lui aveva dovuto accettare per toglierci al più presto da quella situazione. Non so per quale motivo, ma quando sentii di questi incontri, il mio cuore si afflisse ed una sensazione di inquietudine mi ammantò come un pesante vello di lana. Ora avevamo una grossa TV in camera e Karim mi comperava dei bei vestiti della Nike, ma questi oggetti non riuscirono mai a togliermi di dosso la paura con cui, da allora, dovetti imparare a convivere.
Un giorno, Karim rientrò a casa con il volto così gonfio che quasi non lo riconobbi. Gli chiesi cosa avesse fatto ma, senza rispondermi, andò a mettersi nel letto. Qualche giorno dopo mi svelarono che cosa gli era successo. Venne a casa un algerino, amico dei nostri coinquilini. Quando, per andare in bagno, dovetti uscire dalla camera, dove puntualmente mi rinchiudevo ogni qual volta i nostri coinquilini ospitavano qualche amico per ubriacarsi, vidi che, dalla cucina, i magrebini mi stavano squadrando con delle occhiate poco racco-mandabili. Uno disse all’algerino: «È lui» e quello, rivolgendosi a me chiese: «Sei tu il fratello di Karim? – io feci di sì con la testa – sei un mostriciattolo anche tu, in maniera differente siete due mostri – e rise insieme agli amici, poi continuò – tuo fratello è un feroce assassino, non è un uomo ma un animale».
Immagino che il mio volto dovette apparire quello di uno che cade dalle nuvole, poiché continuò dicendo: «Ah, non sai niente, non ti ha detto niente tuo fratello? Quel bastardo ha ucciso a mani nude un fratello musulmano. Lo conoscevo bene, era l’amico di uno che abita insieme a me. Lo ha ucciso in un incontro clandestino, senza pietà. Quell’animale si è venduto ai bianchi per pochi soldi e ora va uccidendo i nostri fratelli africani. Digli che non la passerà liscia. La dovrà pagare quell’assassino!». Rabbia e dolore mi invasero. Gridai che mio fratello non era un assassino, lo gridai forte, mi liberai di quella rabbia con un urlo e, senza accorgermene, mi liberai anche la vescica e me la feci sotto. Bella figura, volevo difendere mio fratello e finii per far ridere quel gruppo di ubriaconi che, oltre a sogghignare alle mie spalle, iniziarono anche a lanciarmi dei tozzi di pane, come si fa con le scimmie.
Karim non mi raccontò mai quel fatto, né io gliene chiesi mai conferma. Sapevo che mio fratello per gli altri era un uomo crudele, ma conoscevo anche il motivo per cui doveva esserlo. Era cresciuto per strada e mai nessuno gli aveva regalato niente. Tutto ciò che aveva guadagnato se lo era procurato lottando, nel senso stretto della parola. Il suo lavoro era l’estrema sintesi del mondo insensibile in cui eravamo cresciuti. Le sue attività consistevano in questo: guardare negli occhi il proprio avversario; non abbassare mai lo sguardo; trasformare la paura in un impulso aggressivo; sapere che ciò che si vuole sta dietro la sconfitta di un altro uomo; sapere che se si ha un attimo di esitazione, la persona che si ha di fronte non l’avrà e colpirà per primo e il più forte possibile; sapere che, per andare avanti, si può contare solo sulle proprie braccia, sulle proprie gambe, sui propri polmoni e sul proprio cervello, solo sulla propria vita. Non c’è altro, solo le armi primordiali, solo ciò che abbiamo fin dalla nascita, il nostro corpo e la nostra mente.
Nell’ultimo periodo Karim aveva iniziato ad accennarmi un progetto. Voleva far venire in Italia anche il resto della nostra famiglia; per realizzare il suo piano mancava poco, ancora qualche incontro e il nostro sogno, diceva, si sarebbe avverato. Io non sapevo bene di cosa parlasse, né quale fosse il suo sogno, anzi il nostro. Però credevo in lui e anche se non conoscevo il contenuto del sogno, lo desideravo ardentemente come se fosse il mio.
Intanto, incontro dopo incontro, anche nei circuiti ufficiali, la fama di Karim aumentava. Un giorno portò a casa una locandina che lo ritraeva: lui da una parte ed il suo avversario dall’altra. La locandina pubblicizzava il suo prossimo match. Avrebbe combattuto al MazdaPalace, davanti a diecimila persone. Mi disse che quell’incontro l’avrei visto anch’io.
Il giorno dell’incontro mi vennero a prendere, come una persona importante, per la prima volta nella mia vita mi chiamarono signore. Il pubblico andò in delirio, lo speaker annunciò Karim come una vera star: non lo dimenticherò mai per tutta la mia vita. Karim Idharì, il Ragazzo Cattivo, il Guerriero di Bronzo, disse. Che spettacolo diede mio fratello. Vinse alla terza ripresa per k.o. tecnico. Fu il giorno più bello della mia vita.

«Manca poco, Said», mi disse quella mattina, prima di partire. Doveva andare a combattere in Svizzera e sarebbe rimasto fuori per un paio di giorni. Prima di uscire mi svegliò, non l’aveva mai fatto fino ad allora, mi aiutò ad alzarmi sul letto e mi disse: «Manca poco, Said, e poi saremo di nuovo tutti insieme» e mi strinse forte tra le sue possenti braccia, sentii la sua pelle dura come la roccia; quella mattina quell’uomo di pietra pianse per la prima volta di fronte a me.
Quei due giorni non passavano mai. Per tutto il tempo ebbi stampato davanti agli occhi il volto di mio fratello che piangeva. Quella leggera debolezza, quel gesto così umano lo fece apparire ai miei occhi come un bambino: il Grande Karim, il campione del Valetudo, aveva cercato conforto in me, Said, Said il Merluzzo.
La sera del giorno dopo sentii la porta dell’appartamento aprirsi di scatto. Poi dei rumori che venivano verso la nostra stanza da letto. Poi la porta della camera si aprì all’improvviso. Due persone che non avevo mai visto riportarono Karim a casa. Lo avevano trasportato per le scale e trascinato fino in camera perché mio fratello non riusciva a reggersi in piedi da solo. I due lo sdraiarono sul letto e, senza dire una parola, se ne andarono. Karim aveva la faccia gonfia, Il suo volto era pallido come non l’avevo mai visto prima. Provai a parlargli, ma riuscì solo a farmi un mezzo sorriso e a dirmi che voleva riposare. Poi si addormentò.
Al mattino, quando mi svegliai, vidi Karim ancora nel letto, e non era domenica. Gli andai vicino per farmi raccontare cosa fosse successo, contro chi aveva combattuto; avevo cento domande da fargli, ma lui non rispose. Cercai di scrollarlo ed infine con tutte le mie forze lo voltai verso di me. Vidi che aveva perso sangue dalla bocca e che il cuscino ne era intriso. Vidi il suo volto rigido e grigio e capii che Karim non mi avrebbe più raccontato nulla.
Karim, il grande Karim era morto. Venni a sapere che gli avevano spappolato la milza e che una costola gli aveva perforato un polmone. Se quella sera lo avessero portato in ospedale avrebbe avuto qualche possibilità di salvarsi e invece lo avevano abbandonato sul suo letto, come un oggetto rotto.
In questo modo si sarebbe conclusa la nostra storia, quella mia e di Karim, se mio fratello fosse stato solo un bruto lottatore senza pietà, se fosse stato quello che gli altri pensavano che fosse.
Invece Karim era un grande. Il più grande di tutti. Si era sacrificato per me e per la mia famiglia. Lui era forte, Allah gli aveva donato un corpo perfetto, un’energia eccezionale. Karim, questi doni, non li ha tenuti per sé, ce li ha donati. Ha sacrificato la sua vita per me, per Said, il ragazzo storpio. Mi ha portato in Italia perché sapeva che in Marocco mi avrebbero rifiutato, sarei stato un peso per me ed un disagio per la mia famiglia. Lui così forte, io... un Merluzzo. I coinquilini mi chiamavano così per via della malformazione delle mie gambe; unite, infatti, sembravano la coda di un pesce; tetraparesi spastica degli arti inferiori, così la chiamavano i medici. Ed ora, se sono vivo ed ho un lavoro, è grazie a lui ed al suo sogno. Karim, con gli incontri, aveva guadagnato abbastanza per far venire i nostri genitori e gli altri fratelli in Italia e per rilevare una piccola gastronomia in una trafficata via di Milano. Io sto alla cassa mentre mia madre, mia sorella e mio fratello lavorano in cucina. Sto insegnando loro l’italiano. Del nostro lavoro non ci possiamo lamentare. Mio padre non si è ancora ripreso per la morte del figlio e brontola più di prima. Ho fatto tappezzare il nostro negozio con le foto e le locandine di Karim e, quando la gente entra, lo riconosce e il mio animo s’inorgoglisce. Mio fratello vince sempre. Ha vinto anche il suo ultimo incontro, quello più difficile, ha realizzato il suo sogno. Anzi, il nostro.

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