3° Premio Letterario Penna d'Autore - Sezione Racconti: Alfredo Caseri

 

TERZO PREMIO - SEZIONE RACCONTI

ALFREDO CASERI (Villa d'Adda - BG)

LO ZIO PARTIGIANO

«Olindo Pardini. Presente!»
Così si presentava sempre mio zio, o meglio il marito di mia zia, tutte le volte che qualcuno lo chiamava. Era uno cui piaceva scherzare, specialmente con noi ragazzi, e più diventava vecchio più gli piaceva parlare e intrattenerci sul suo passato in tempo di guerra. Anche perché del periodo post-bellico non aveva molto da raccontare, o meglio nulla che secondo lui potesse infiammare la nostra curiosità di ragazzi. Chissà se era poi tutto vero quello che ci raccontava. Noi lo chiamavamo lo “zio partigiano”, perché avevamo capito che gli faceva piacere essere chiamato così.
Di origine era toscano, veniva dalle parti della Versilia, e all’inizio noi ragazzi ci interrogavamo curiosi su come fosse riuscito ad arrivare nelle valli bergamasche e a sposare nostra zia, che da giovane doveva essere molto bella e già piena di spasimanti. Lui ci rispondeva a modo suo: «La guerra, ragazzi. La guerra porta tante cose brutte ma riserva anche qualche bel fiore come vostra zia Anita. E poi io ero bellissimo e per di più forestiero. Volete mettere a confronto un toscanaccio come me con i ragazzotti bergamaschi che ronzavano attorno all’Anita di allora? Volete mettere a confronto come parla bene e come sa far l’amore un toscanaccio come me rispetto ai contadini montanari delle vostre parti? Ovvìa, ragazzi, codesta è la domanda?»
Quando terminava con questa espressione, sempre la stessa, detta a proposito o a sproposito, voleva dire che aveva concluso il suo discorso e non c’era più verso di farlo proseguire. Era il suo modo categorico e originale di dirci: ragazzi, che domanda mi fate? questa è la vita e non ci si può fare niente.
Zio Olindo era arrivato dalle nostre parti prima dell’estate del ’44, non ancora ventenne, al seguito di un piccolo gruppo di partigiani, per costituire “una cellula di collegamento con la più esperta brigata partigiana della Toscana”, come sosteneva lui. Ci diceva sempre che era sfuggito, allora e per poco, ad un orrendo massacro perpetrato dai nazi-fascisti. E qui chiudeva il racconto con la solita frase, senza mai aggiungere altri particolari, tant’è che noi ragazzi ci credevamo sì e no, inconsapevoli di quello che era veramente successo sulle montagne dell’Appennino tosco-emiliano in quegli anni terribili. Pensavamo fosse una delle tante storie che zio Olindo sapeva raccontare così bene da farci restare sempre a bocca aperta. Poi qui conobbe mia zia e non se ne andò più. Legò in modo straordinario con tutta la parentela di taciturni bergamaschi che si trovò intorno, lui così loquace e ciarliero come pochi. Per me, poi, zio Olindo sembrava avesse una predilezione particolare.
Così, mi spiacque moltissimo quando anch’io come lui, un giorno, dovetti partire dalla mia terra, a causa del lavoro di mio padre, senza farvi ritorno per parecchi anni. Ma tutte le volte che lo rivedevo, zio Olindo mi abbracciava e mi baciava come fossi suo figlio, lui che di figli non ne aveva potuti avere a causa, credo, di qualche problema della zia. E più invecchiava, più sembrava affezionarsi a me. Poi il caso volle che, ormai laureato e specializzato, trovassi lavoro in un ospedale a pochi chilometri dal mio paese d’origine e così, dopo quasi vent’anni di sporadici rimpatri a Natale o d’estate, potei tornare a gustare con più assiduità le storie dello zio partigiano, che col tempo non avevano per nulla perduto di vivacità e fantasia e che sempre si concludevano allo stesso modo: «Ovvìa, ragazzo, codesta è la domanda?»
Sembrava che nulla fosse cambiato con gli anni, anche se io non ero più il ragazzo di allora e lui non era più lo scanzonato zio Olindo di un tempo. Io mi dedicavo troppo al lavoro e troppo poco a coltivare un amore che fosse definitivo. Lui si mostrava sereno ma intristiva sempre di più dopo la morte della moglie. Anche la salute lo stava abbandonando. Solo la saggezza sembrava aumentare in lui insieme con l’età. E non è una frase fatta.
Un giorno mi trasse in disparte e mi disse in tono serio: «Ragazzo, sento che mi resta poco da vivere e avrei un desiderio che ho rimandato per troppo tempo. Vorrei che fossi tu ad aiutarmi a realizzarlo. Tu sei medico, le capisci certe cose. E poi… tu sei tu. Ovvìa, codesta è la domanda!»
Era vero che aveva poco da vivere: da qualche mese gli avevano diagnosticato un tumore allo stomaco, giudicato oltre i limiti di operabilità per metastasi epatiche e carcinosi peritoneale. Si era anche deciso di non sottoporlo a chemioterapia, vista l’età e i problemi cardiaci di cui soffriva e visto lo scarso beneficio che ne avrebbe ricavato. Fui anch’io d’accordo col chirurgo e con l’oncologo che l’avevano seguito in ospedale. Ora era affidato alle ben poche cure possibili del suo medico di famiglia e mie ed alle ben più importanti attenzioni di tutta la famiglia allargata, della quale si era conquistato un affetto incondizionato e duraturo. Volle essere messo a conoscenza del suo vero stato di salute e ne parlava liberamente, riuscendo a volte anche a scherzarci sopra o ad imbastirci una storia delle sue, soprattutto quando riusciva a bere di nascosto un bicchiere del suo rosso toscano, cosa di cui tutti fingevamo di non accorgerci.
«Se questa è la domanda, zio Olindo, è già pronta la risposta: chiedimi tutto quello che vuoi.»
«Questa volta non scherzo, ragazzo. Vorrei portare un mazzo di rose ad una persona che sta a più di trecento chilometri da qui e vorrei che tu mi accompagnassi.»
«Ma, zio, nel tuo stato di salute…»
«Conosco benissimo il mio stato di salute e tu lo sai. Questo è uno dei motivi per cui vorrei tu venissi con me, ma il motivo vero è un altro: questo viaggio farà bene alla mia anima e spero un poco anche alla tua. Ovvìa, codesta è la domanda!»
Il tono delle sue parole era stranamente duro ma estremamente dolci e convincenti furono i suoi occhi e la carezza che mi fece sulla guancia con la sua mano rugosa. Ne fui commosso, appoggiai la mia mano sulla sua e risposi: «Certo, zio Olindo, dimmi solo quando e dove.»
«Fra qualche giorno, il prossimo Primo Maggio. A Sant’Anna di Stazzema.»

Fu un viaggio allucinante e straziante allo stesso tempo.
Partimmo solo lui ed io, non volle nessun altro al seguito. Partimmo presto. Ancora lo vedo già pronto sulla soglia di casa, col vestito scuro che gli ballava addosso: probabilmente erano anni che non lo indossava ed ora gli stava troppo largo, visto il suo recente dimagrimento dovuto alla malattia. Si appoggiava al bastone con la sinistra mentre teneva con la destra un mazzo di rose rosse bellissime appoggiato al petto. Mi fece tenerezza, sembrava stesse abbracciando una donna con una nuvola di capelli rossi in testa. Glielo dissi, scherzando, appena si fu sistemato con un po’ di fatica sul sedile anteriore dell’auto e lui rispose: «È così!» e non aggiunse altro. Anzi, per quasi un’ora di strada non proferì parola, se non per rispondere a monosillabi ai discorsi che inventavo sul momento, tanto per distoglierlo da quella specie di torpore che sembrava averlo assalito dall’inizio del viaggio. Non era da lui comportarsi così, non sembrava più lo zio partigiano di sempre.
Poi, all’improvviso, ruppe il silenzio: «Non mi hai ancora chiesto cosa ci andiamo a fare a Sant’Anna di Stazzema.»
«Aspettavo fossi tu a dirmelo, zio. Mi sono documentato su Sant’Anna, sai?, in particolare sull’eccidio che ci fu il 12 agosto del ’44. Ci furono 560 morti, se non ricordo male, in gran parte vecchi, donne e bambini, massacrati e bruciati dai tedeschi. Ho pensato che tu avessi qualche parente fra di loro, visto che sei originario di quei luoghi. Ho anche letto che la vittima più giovane, non ricordo bene se aveva 2 anni o addirittura 20 giorni, si chiamava Pardini di cognome, proprio come te, Anna Pardini. Ho supposto fosse una tua parente. Anche se, a dire il vero, mi è sembrato strano che tu non avessi mai accennato direttamente all’eccidio di Sant’Anna nelle storie che ci raccontavi da ragazzi.»
«No, non era mia parente.»
«Allora non capisco…»
«Ti spiegherò a suo tempo. Codesta è la domanda!»
E tornò col solito intercalare a chiudere ogni discorso sull’argomento. Ci fermammo a bere qualcosa in un autogrill sulla Cisa. Io presi un caffè, comprai La Repubblica e l’ultimo romanzo di Camilleri. Zio Olindo non volle nulla, solo un bicchiere d’acqua naturale, che sorseggiò lentamente, non risparmiando un commento sul mio acquisto. «Robaccia», disse. «Quello lì non sa neanche scrivere in italiano. Come fa ad avere successo e a piacerti?»
«Codesta è la domanda?» risposi io sorridendo e prendendolo sotto braccio per ritornare alla macchina. «In fondo voi due, intendo tu e Camilleri, siete fatti della stessa pasta: raccontate un sacco di storie che piacciono tanto a noi comuni mortali privi di fantasia. Con una differenza: tu lo fai con un bellissimo accento toscano e senza guadagnarci un euro, mentre lui le scrive in un siciliano tutto suo e si porta a casa un mucchio di soldi.»
«Non prendermi in giro, ragazzo. Sono ben più vecchio di te» concluse zio Olindo con malcelata soddisfazione.
Ripartimmo verso Sant’Anna in un clima più sereno. Lo zio divenne un po’ più loquace ma non nel senso che intendevo io. Quasi all’improvviso, cogliendomi di sorpresa, mi chiese: «Tu, piuttosto, ragazzo, quando pensi di mettere la testa a posto? Quando ti decidi a sposare la tua compagna? Questa Vanna mi sembra una ragazza per bene. E io me ne intendo di ’ste faccende. Ovvìa, codesta è la domanda!»
Non era in realtà la prima volta che zio Olindo mi provocava bonariamente su questo argomento. Io tergiversavo sempre e anche stavolta dribblai rispondendo: «Non sono mica tutte come la zia Anita, no? È vero, Vanna è una brava ragazza e meriterebbe anzi qualcuno migliore di me. Vedremo…»
Nel frattempo giungemmo all’uscita dell’autostrada e questo mi permise di cambiare argomento: «Ecco l’uscita di Versilia. Quasi siamo arrivati, zio. Come ti senti?»
«Fisicamente un po’ stanco ma sono felice di essere qui. Ci saranno ancora una decina di chilometri per Sant’Anna.»
Furono dieci chilometri di una strada di montagna tutta curve ma molto panoramica e bellissima, resa ancora più bella da una splendida giornata di sole. Di nuovo zio Olindo si chiuse in un assorto silenzio: di lui parlavano soltanto gli occhi fissi verso l’alto.
«Eccola!» disse indicandomi con mano tremante un vecchio campanile quadrato che spuntava in mezzo al verde degli alberi. «Quello è il campanile della chiesa di Sant’Anna di Stazzema.»
Parcheggiammo in uno spiazzo intitolato proprio ad Anna Pardini e ci avviammo a piedi verso la chiesetta davanti alla quale furono trucidati tanti innocenti in una calda mattina d’agosto del ’44.
Zio Olindo camminava con un certo sforzo, appoggiandosi al bastone, ma cercava di stare ritto sul busto. Volle che fossi io a prendere il mazzo di rose che aveva portato. C’era altra gente in giro, giovani coppiette e un gruppo di uomini e donne che portavano un vessillo dell’ANPI di non so quale paese e parlavano e discutevano a voce alta.
«Bestie», disse zio Olindo con una smorfia, «questo luogo merita rispetto e silenzio!» Attraversammo il prato antistante la chiesa ed entrammo. Lo zio, dopo un attimo di esitazione, si diresse subito alla parete di destra, dov’era appeso un cartellone con vecchie fotografie delle vittime di Sant’Anna e, subito dopo, un altro con un elenco di nomi. “Elenco incompleto”, dicevano i cartelloni. Zio Olindo sostò davanti alle foto per lunghissimi minuti, osservandole una per una e fermandosi in particolare sull’ultima fila in fondo. Poi si rivolse a me, sussurrando con un filo di voce: «Ragazzo, scegli la rosa più bella.» Gliene porsi una bellissima e lui si chinò piano piano a deporla per terra. Si rialzò a fatica e, senza dire una parola, si diresse lentamente all’uscita, con cent’anni di più sulle spalle e nelle gambe. Vidi una lacrima rigargli il volto e sparire all’angolo della bocca.
Si fermò sulla soglia, trasse un sospiro profondo e disse: «Andiamo al museo.» Mi appoggiò una mano sulla spalla e in silenzio ci avviammo verso la vecchia scuola elementare dov’è stato ricavato il Museo Storico della Resistenza toscana.
Zio Olindo si fermò un momento all’esterno, davanti alla riproduzione in bronzo di un particolare di “Guernica” di Picasso, lesse attentamente la lapide con le parole di Pietro Calamandrei “al camerata Kesselring”, annuendo di tanto in tanto in segno di approvazione, e ripeté: «Ora e sempre Resistenza. Codesta è la domanda!»
Entrammo e ripercorremmo insieme, attraverso le immagini e i documenti e le fotografie della mostra, tutte le fasi della Resistenza in Versilia e dintorni. Zio Olindo si soffermò in particolare sulle foto dei partigiani, forse ne riconobbe qualcuno ma non disse nulla. Alla fine lesse, una per una, anche se presumo le conoscesse già, tutte le storie e le testimonianze dei sopravvissuti, inquadrate in pannelli rossi e intercalate a gigantografie di volti di vecchi e vecchie che, ad un tratto, in una specie di sovrapposizione cinematografica di immagini, mi parvero tutti uguali tra loro e tutti tremendamente simili al volto di zio Olindo!
Uscimmo dal museo visibilmente stanchi e provati, quasi stravolti, io più di lui. Non c’eravamo neanche accorti che erano le due e non avevamo mangiato niente dal mattino. Lasciai lo zio seduto sul muricciolo davanti al prato della chiesa ed entrai in una piccola bottega d’altri tempi, dove non trovai di meglio che una focaccia toscana e una bottiglia di acqua naturale per rifocillarci un poco prima di ripartire. Zio Olindo si limitò ad assaggiare di malavoglia la focaccia (era da tempo che il suo stomaco malato rifiutava il cibo) e disse: «Voglio andare all’Ossario.»
Cercai invano di protestare. Ottenni soltanto di poterci andare in auto (ci voleva un permesso che ebbi facilmente), senza dover percorrere a piedi la stradina lastricata che, attraverso il bosco, porta lassù all’Ossario e che viene chiamata Via Crucis, perché accosta il calvario di Cristo al calvario di tante vittime innocenti di ogni guerra e di ogni violenza.
Fu l’ultima sosta di zio Olindo, davanti ad un’alta torre in pietra messa lì a proteggere un gruppo scultoreo adagiato su una grande urna, che rappresenta un uomo, una donna e un bambino avviluppati tra loro in un abbraccio mortale, con gli occhi e le bocche urlanti dal terrore, come in un’istantanea scattata un attimo prima di essere orrendamente trucidati.
Zio Olindo depose le sue rose sopra il monumento, tra la madre e il bambino. Poi si sedette su un gradino, allargando lo sguardo alle montagne e alle pianure intorno a noi, e iniziò a parlare, quasi a stento, a fatica, fermandosi spesso a riprendere fiato. Capivi che non era colpa del suo fisico malato, ma era l’emozione di un’anima, era il cuore di un uomo che ritrova se stesso dopo tanti anni e rivive i luoghi e le persone e i fatti che l’hanno drammaticamente colpito e maturato.
«Sono nato in questi posti e vi avevo trovato l’amore. La mia donna era una di quelle che hai visto in fotografia, laggiù nella chiesetta, dove ha trovato la morte. Una di quelle dell’ultima fila in fondo. Una di quelle uccise col bambino in grembo…»
Zio Olindo si interruppe per un tempo che mi parve infinito. Non osai guardarlo in viso, mi sedetti anch’io sul gradino accanto a lui, volgendo lo sguardo alle pianure e alle montagne, che sembrarono all’improvviso scomparire dietro un velo leggero di nebbia. O forse erano solo lacrime quelle che ci offuscavano la vista.
«Non l’ho mai detto né alla zia né a nessun altro. Non sono più ritornato qui se non una volta sola, di nascosto, subito dopo la guerra, per avere la certezza ch’eran tutti morti. Poi non ne ho più avuto il coraggio.»
Si fermò di nuovo, lo sguardo fisso all’infinito e le mani nervose sul pomo del bastone. «Non potevo non tornare a Sant’Anna almeno una volta ancora. Ora sono in pace con me stesso e con i miei morti. Ti ringrazio di tutto, ragazzo.»
Un petalo di rosa si staccò e planò lentamente ai suoi piedi.
«Non ho paura di morire, perché ho sempre avuto la morte vicina, fin da giovane.» Altra pausa. «Ora sono come questo petalo di rosa, mi manca poco a staccarmi dalla vita e a volare via…»
«Zio…» mormorai in un singhiozzo, «codesta è la domanda?»
«Già,» rispose, «codesta è la domanda! Ora sono pronto a rispondere anche a Dio, e a gridargli forte: Olindo Pardini? Presente!»

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