21° Premio Letterario Penna d'Autore - Sezione Racconti: Arianna Biavati, "Magari non a tutti"

 

QUINTO PREMIO - SEZIONE RACCONTI

ARIANNA BIAVATI (Imola - BO)

MAGARI NON A TUTTI

Lo fa da anni, ormai, questo mestiere, e non gli dà più fastidio niente. Non gli ha mai dato molto fastidio, a dire il vero. Forse qualcosa i primi giorni, poi si è abituato in fretta.
Ormai nemmeno quasi le sente più, le urla che arrivano soffocate da sopra. Non ci fa più caso, comunque. Non fa più caso ai lividi e al sangue, ai corpi trascinati di peso quando li riportano di sotto. Giusto la puzza, quella sì, continua a sentirla un po’; non riesce a smettere di avvertire il fetore acre di sangue, escrementi e sudore, mescolati. Non gli dà però tanto fastidio, anche a quello si è abituato abbastanza bene.
Questo non è neppure uno dei posti peggiori, da quanto ha sentito. In fin dei conti è un lavoro tranquillo. Quasi noioso. Non danno problemi. Quando li riportano giù, di solito sono talmente tramortiti che non hanno la forza di fare molto altro che rimanere a terra, bere e mangiare, quando lui passa a riempire le ciotole.
Se sono messi molto male, stanno un giorno o due senza mangiare, ma bere, non smettono. Quando gli porti dell’acqua, la finiscono in un attimo. Poi, appena si sentono meglio, ricominciano anche a mangiare.
La ragazza no.
Per tre giorni lui ha continuato a portare il cibo e l’acqua nella cella e a trovare ogni volta le ciotole piene.
Per tre giorni ha ignorato la cosa e ha ignorato la ragazza immobile, sdraiata su un fianco. Giusto una volta o due ha controllato che respirasse, per sicurezza.
Al quarto giorno non riesce più a ignorarla.
Si piega sulle ginocchia, senza sapere bene che fare, poi allunga la mano e la scuote un po’ su una spalla. Lei dischiude appena, in modo vacuo, gli occhi socchiusi. Non lo guarda. Continua a tenere lo sguardo su qualcosa lontano da lì.
Allora lui la scuote un po’ di nuovo: «Devi bere e mangiare – dice ruvido. – Forza. È tutto finito. Non ti portano più di sopra. Devi bere e mangiare».
Niente.
Lui rimane lì. Si gratta un attimo la testa. In fondo non sono affari suoi. A questo punto potrebbe fare molte cose diverse. Darle qualche calcio per smuoverla. Chiamare qualcuno da sopra. Chiamare il medico. Continuare a ignorarla e andarsene. Alla fine gli viene da farne solo una. Una sola gli sembra quella giusta.
La mette seduta di peso e la fa appoggiare con la schiena al muro.
Poi prende la ciotola dell’acqua e gliel’avvicina alle labbra. Lei sembra non vederla nemmeno. Lui prova ad accostarla, ma lei non fa alcun tentativo per bere.
Allora lui, rassegnato, intinge le dita nell’acqua e le bagna le labbra, con gesti un po’ impacciati ma decisi. Una, due, tre, quattro volte. Alla quinta, un po’ d’acqua entra in bocca dalle labbra socchiuse e lei deglutisce in modo involontario. Lui ci riprova, qualche goccia d’acqua in più in bocca. Funziona di nuovo. Per qualche minuto funziona solo così, finché qualcosa cambia, così lui riprova ad accostare la ciotola alle labbra.
Lei beve per un attimo.
Lui avverte una piccola contrazione al cuore, e si sente un po’ scemo.
Piano piano, poca alla volta, ma l’acqua va giù. Invece, quando le avvicina alla bocca un cucchiaio pieno di zuppa, lei serra di nuovo le labbra.
No. La zuppa non va proprio da nessuna parte. Cola giusto un po’ sul mento, quando lui prova ad insistere.
Lui abbassa lo sguardo sulla zuppa, e gli sembra di vederla per la prima volta. È acquosa, fredda e fa anche abbastanza schifo. Certo, se uno ha veramente fame mangia di tutto, ma in questo caso…
È un problema. Si gratta la testa.
Quando torna, qualche ora dopo, la trova di nuovo stesa, così deve risollevarla e appoggiarla al muro. Lei non fa alcun tentativo per aiutarlo. Ha gli occhi aperti, ma guarda oltre lui, o attraverso.
Lui si è procurato qualcosa di meglio. Senza esagerare, quello che è riuscito, ma il profumo e l’aspetto sono senza dubbio migliori. Deve insistere un po’ lo stesso, però il risultato finale vale la fatica.
Lei mastica quello che lui le porta alla bocca. In modo lento, assente e svogliato, ma mastica. Non molto a lungo, anche se abbastanza da farlo sentire inaspettatamente soddisfatto.
Si è sorpreso ad essere curioso, su di lei. A voler sapere qualcosa. Qualcosa di quanto è successo. Insomma, lui lo sa cosa succede lì, ma arriva giù gente ridotta cento volte peggio, e non fa così. In fondo, lei non è stata su molto, giusto un paio di volte.
Ha chiesto a uno di sopra. Ad un certo punto lei ha iniziato a piangere e non ha più smesso. Non a gridare. A piangere. Così forte da soffocarsi, quasi. Senza mai fermarsi. Una scena da vedere, gli ha detto quello di sopra. Hanno provato a farla smettere: se piange troppo non riesce a parlare e non serve. Un po’ con le buone, un po’ con le cattive. Niente. Ha pianto tutto il tempo che l’hanno tenuta su. Allora hanno fatto venire il medico a controllarla. È andata, ha detto il medico, non c’è più da cavarci niente.
L’hanno lasciata stare lì un po’ senza farle più nulla, e alla fine, dopo un pezzo, lei ha smesso, però poi non ha più aperto bocca. Così l’hanno rimandata di sotto.
Al pasto successivo lui le porta un altro paio di coperte. Gliele sistema dopo averle dato da mangiare, prima di lasciarla stendere di nuovo.
È così che si è accorto che il numero sette ha freddo. Lo sentiva sempre tremare, quando passava davanti alla sua cella, ma prima non ci faceva mai caso. Allora ha portato un’altra coperta anche a lui. Gliel’ha lasciata una volta che lui era di sopra, così l’ha trovata quando l’hanno riportato. Adesso non lo sente più tremare.
Da quando si occupa della ragazza, guarda anche gli altri in modo diverso. Non sa perché, ma è così, e non può far finta che non sia vero.
I secchi prima li svuotava una volta ogni tanto, quando erano belli pieni e davvero non si poteva più rimandare. Adesso li svuota ogni giorno, e ci dà pure una sciacquata giù negli scantinati, dove l’acqua scola nelle fogne.
Da qualche giorno gli è anche venuto in mente di portare un secchio d’acqua pulita la mattina, per lavarsi. Finché nessuno gli dice niente… Mal che vada, si prenderà una sgridata.
Lo hanno guardato tutti un po’ strano, quando gliel’ha appoggiato dentro la cella, con l’aria di non crederci. Qualcuno l’ha usata subito, qualcuno ci ha messo un po’, per superare la diffidenza. Qualcuno ora ha anche l’aria di volerlo ringraziare, con gli occhi, ma non si azzarda a parole.
Il pane, sta attento a scegliere quello meno stantio, dal mucchio della cucina, quando prepara il carrello per il suo settore. Cerca di versare la parte di zuppa più sostanziosa, nel pentolone da portare di là. Spesso, poi, quando riesce senza farsene accorgere, aggiun-ge in ogni ciotola qualcosa che si è procurato fuori: un pezzo di carne, di formaggio o altro.
Il numero quattro è un tipo duro. Troppo duro. Si farà ammazzare, se continua così. Non cede, non molla un secondo. Li costringerà ad andare troppo oltre, prima che si rendano conto di avere esagerato.
Gli ha messo una cosa nella zuppa, ieri sera. Uno di quei trucchi da militari, ma qui a chi vuoi che venga il dubbio, con tutto quello che gli fanno?
Si è sentito male da cani, e questa volta non ha potuto fare finta di resistere. Febbre alta e cuore a mille, roba da scoppiare. Hanno chiamato di corsa il medico e lo hanno spedito in infermeria. Ci resterà almeno una settimana e in una settimana… Cosa può succedere? Niente? Tutto? Magari si prende veramente paura e si decide a dire qualcosa. Oppure… Chi può saperlo? Altro non può fare. Magari non gli ho fatto un piacere, pensa. Magari lui vuole morire.
Come la ragazza.
Tutti, anche se ridotti male, mangiano da soli, senza farsi pregare. Alla ragazza, invece, continua a dover dare da mangiare e da bere lui.
Lei ha le forze per tirarsi su. Lui lo sa, perché lei si alza per usare il secchio, ma mangiare e bere sembra non valgano lo sforzo. Se lui non la tirasse su di peso, lei rimarrebbe sdraiata a terra, senza nemmeno guardare le ciotole.
Ha provato, un paio di volte, a lasciare lì la roba e ad andarsene. Quando è tornato, ha trovato tutto intatto, così si è rassegnato. Non c’è altro da fare.
Anche a lei porta sempre l’acqua per lavarsi, però lei non l’ha mai usata.
Fino ad oggi. Lui non commenta, ma se ne accorge subito.
Quando entra lei è seduta, non sdraiata. Non che si possa fare molto, con un secchio d’acqua e basta, ma l’aspetto è più ordinato e lo sguardo più vigile.
Sta per iniziare a darle da mangiare, poi si ferma. Qualcosa è cambiato. Ora lei è in grado di farlo, lui lo sente. Allora le mette il cucchiaio in mano e aspetta. Lei sembra pensarci qualche secondo, infine porta il cucchiaio dalla ciotola alla bocca. È incerta, come se non ricordasse bene come si fa.
Lui la guarda mangiare per un minuto, mentre un’assurda corrente di felicità e di sollievo gli scorre nel sangue. D’un tratto si rende conto che forse è un po’ stupido stare lì senza fare niente e si alza per andarsene.
Lei smette di mangiare e rimette il cucchiaio nella ciotola.
Lui aveva già fatto un passo verso la porta. Si ferma, torna indietro e si siede di nuovo di fronte a lei.
Lei ricomincia a mangiare.
Ogni volta lui si siede, ogni volta lei mangia. Funziona, ma funziona solo così, e così non può continuare. Gli fa male, la decisione. Gli torce il cuore in modo doloroso. Per motivi confusi che non vale la pena capire.
Sa solo che gli fa male, ma che è necessario.
Entra, depone la ciotola a terra e si alza: «Questa volta ce la devi fare tutta da sola. Io non ci sarò sempre».
Esce e fa il giro dagli altri, però continua a pensare a lei, a cosa starà facendo, e prova, anche se sa che è impossibile, a sentire i suoni che vengono dalla sua cella.
Dovrebbe ritirare la ciotola solo a sera, ma non riesce a resistere, e passa un’ora dopo. Lei è di nuovo sdraiata su un fianco, immobile, con gli occhi chiusi, ma la ciotola è vuota.
«Hanno finito con lei, la portano via» lo informa infine uno di sopra.
Via può voler dire due cose diverse.
Lui è lì fuori, quando la vengono a prendere.
La incappucciano, prima di farla uscire.
Lui tira un sospiro di sollievo.
Torna al suo lavoro, che è sempre lo stesso, ma a lui sembra di non avere più l’abitudine, e avverte un certo fastidio.
Un suo cugino gliel’ha offerto, un altro lavoro, e lui ci ha fatto un pensiero serio. Qui non ce la fa più. O meglio, ce la fa, ma non più come prima. È preoccupato, però: se lui se ne va, chi ci mettono al suo posto? Uno come era lui? O peggio?
Allora si è sorpreso a fare pensieri diversi.
Non è detto che tutto debba sempre andare avanti così. Non qui, almeno.
Là fuori, forse, non sanno o non vogliono sapere o non possono sapere cosa succede qui dentro. E lui, magari, può trovare qualcuno interessato ad ascoltare cosa ha da raccontare. Non ci farebbe una bella figura, è vero, ma…
Esistono persone diverse, là fuori, posti diversi, e magari non a tutti va bene quello che succede qui dentro.
Forse sì, a tanti; magari non a tutti.

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