21° Premio Letterario Penna d'Autore - Sezione Racconti: Mario Scotto, "Gazzella scura"

 

PRIMO PREMIO - SEZIONE RACCONTI

MARIO SCOTTO (Cuneo)

GAZZELLA SCURA

In questo anno per voi molto particolare, mi avete invitato affinché vi parli di me e del mio tempo; questo m’intimidisce, mi pare insolito. È molto raro che avvenga.
Sono nata povera e semianalfabeta ed ho sempre posseduto soltanto la veste che indossavo e un paio di scarpe, quando le avevo. E un cavallo, certo, perché se di qualcosa posso vantarmi è di essere stata sempre una buona amazzone, superiore a molti uomini.
Ora voi mi chiedete di quegli anni appassionanti e drammatici che ho vissuto con il mio Josè, l’uomo della mia vita. Ben altri uomini e donne potrebbero parlarvene, ma giacché è me che avete invitato questa sera, ci proverò. Qui non ho più problemi con la vostra lingua, come con nessun’altra lingua. Qui tutto è più chiaro e molte domande hanno finalmente risposta.
Mi chiamo Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva e dalla mia ho sempre avuto la bellezza e l’agilità. Josè mi chiamava la sua gazzella scura e ammirava il mio grande coraggio. Quello che mi consentì di cavalcargli a fianco nelle battaglie di Laguna, Santa Vittoria, San Antonio e molte altre. Cavalcare… sì andare a cavallo lui lo faceva, nel senso che stava in sella, ma per me cavalcare era un’altra cosa. Glielo insegnai poco a poco, sera dopo sera, durante le nostre galoppate lungo la spiaggia, dove restavamo per ore a far l’amore abbracciati sotto la luna. La prima volta che lo vidi fu in chiesa, con alcuni comandanti di quella disperata impresa che fu chiamata “repubblica giuliana”. Per non deluderlo però, gli feci sempre credere che mi avesse visto lui per primo, col binocolo e dalla tolda del suo lancione. Era una calda e sfolgorante giornata di luglio, che dalle nostre parti non è molto comune in quella stagione; il cielo era terso e la brezza portava l’odore del mare, quello da cui lui proveniva. Fu il destino che lo condusse dentro casa, anche se l’invito a entrare per un caffè era di mio marito; a volte la vita è così, ci fa credere che siamo noi a costruire la nostra rovina. Nell’istante in cui lui ed io ci guardammo, restammo entrambi pietrificati. Come se «cercassimo nei nostri lineamenti, un tratto che ci ricordasse una reminescenza, un sogno. Come se non ci vedessimo per la prima volta».
Portava in capo un cappellaccio malridotto, che nascondeva a malapena i lunghi capelli biondi. Più tardi quelli che l’odiavano scrissero che portava i capelli lunghi per nascondere un orecchio in parte mozzato, ma non riuscirono nemmeno a mettersi d’accordo sul motivo. Chi l’attribuiva ad una punizione come ladro di cavalli, chi come violentatore di donne. È falso, perché dalle mie parti i ladri li impiccano ed i violentatori li castrano. E lui non lo era, ve lo assicuro. Gli agiografi invece, scrissero dei suoi occhi di un azzurro tendente al viola, del suo corpo ben costruito, con larghe spalle e petto quadrato. In realtà soffriva d’insopportabili reumatismi, era alquanto basso ed i suoi occhi erano castani. Ma a me piacque subito, dal momento in cui posò su di me il suo primo sguardo; aveva qualcosa di magnetico, d’irresistibile. Fu così sfrontato da dirmi «Tu devi essere mia» davanti a mio marito, ma non conosceva la nostra lingua e lo disse nella sua, per fortuna. Io però lo compresi e lo fui sua, da subito. Lasciai mio marito e la vita da schiava che con lui conducevo, dall’età di sedici anni. Da quel giorno fui per Josè compagna, amica, amante e infine moglie, per tutta la mia breve vita. Gli diedi quattro figli e l’amore che nessun’altra, né prima, né dopo, seppe dargli.
Aveva attraversato gli oceani per anni, aveva visto luoghi meravigliosi e infine il destino lo aveva portato sino a me. Io gli mostrai la bandiera verde, bianco e giallo oro della repubblica giuliana, quella che mi aveva regalato mio zio Antonio, quando era entrato con i rivoluzionari a Laguna. Josè mi sorrise, perché era anche lui un rivoluzionario. Aveva occhi intensi, acuti, che sapevano incitare gli uomini alla battaglia e nel contempo rivolgersi a me con tenerezza. Sognai di vivere con lui in una piccola casa affacciata sul porto, in modo che non gli mancasse la vista di quel mare che amava tanto, ma non fu possibile. Dopo le notti sulla spiaggia piene di passione, ci avvisarono che la flotta governativa si era riorganizzata e voleva riprendere la città. Da quel momento fu un turbinare di azioni, nelle quali io stessa faticavo a riconoscermi. Quell’amazzone che impugnando la pistola, incitava gli uomini a far fuoco, ancora più fuoco, quella donna che sparava il primo colpo di cannone contro la flotta imperiale, ero proprio io? Oppure era la presenza di lui, del mio Josè, che m’infondeva quell’ardore, che non mi faceva nemmeno sentire il dolore delle ferite quando, assordata dall’esplosione, emersi da un mucchio di cadaveri? Lui mi guardava stupito e per togliermi dal pericolo mi ordinò di mandare un portaordini a chiedere rinforzi; stavamo subendo la preponderanza della flotta governativa. Non c’era tempo e saltai a cavallo, percorrendo a rotta di collo la baia, sotto il fuoco nemico. Più tardi nel letto, mentre mi prendeva, mi chiamò «figlia del fuoco, spirito del fuoco, addensamento del sangue, vapore rosso…».
In seguito fummo costretti ad affondare le nostre navi e continuare a combattere a cavallo, patendo la sete, la fame e la fatica; ci nutrivamo di ciò che trovavamo, persino bacche e radici. Esausti, affamati e distrutti dal tormento, in 500 riuscimmo comunque a sconfiggere 2000 governativi. Poi non potemmo far altro che ritirarci ed io restai indietro, il mio cavallo fu abbattuto e fui fatta prigioniera. Incinta di sette mesi ero come pazza, credevo che me l’avessero ucciso, che non l’avrei più rivisto. Il comandante nemico, vedendomi in quello stato, mi diede due uomini di scorta e mi lasciò cercare il suo cadavere. Fu terribile aggirarmi tra tutti quei volti sfigurati, che parevano rivolgere una muta protesta contro il destino che li aveva colpiti. Per fortuna lui non c’era e la speranza tornò a farsi sentire, a spingermi a liberarmi delle due guardie e a fuggire guadando un fiume in piena, afferrata alla coda del cavallo.
Dopo quattro giorni lo ritrovai e quando me lo vidi davanti scoppiai in lacrime; pochi giorni dopo nacque il nostro primo figlio. Quando lo prese in braccio si spaventò, perché aveva un’ammaccatura sulla testa, dovuta ad una mia caduta da cavallo. Ci rifugiammo in una fattoria abbandonata e priva di tutto e per procurarci il cibo, lui decise di andare in un paese che distava un centinaio di chilometri. Mi lasciava sola per la prima volta da quando ci conoscevamo e avevo il petto oppresso da un presentimento. Temevo per lui e invece era per me e per il mio figlio di dodici giorni che dovevo temere. Prima di sera il podere venne circondato dai governativi ed io, per non farmi catturare, dovetti montare a cavallo senza sella, seminuda e con il figlio in braccio. Furono giorni terribili. Rifugiata in un bosco, avevo solo i rami e le foglie per ripararci dal freddo e bacche e frutti selvatici per nutrirmi. Per fortuna non persi il latte ed il piccolo poté essere nu-trito.
Il destino volle ancora che ci ritrovassimo, stremati, abbrutiti dalla fatica, ma insieme. Intorno a noi gli uomini fuggivano, senza alcuna speranza e voglia di battersi. Josè fu costretto a sopprimere i nostri amati cavalli per sfamarci. La rivoluzione era finita, ma prima di spegnere ogni resistenza, i governativi impiegarono altri quattro anni. Quella fu la prima delle tante delusioni che patimmo nei dieci anni che ci videro insieme. Nello sfacelo generale, scoprii ciò che più volte accadde anche in seguito. Josè ed io avevamo il potere di raccogliere intorno a noi uomini meravigliosi, che si mantenevano fedeli sino all’ultimo istante. Una quarantina di questi ci seguirono nello stato vicino, ma ormai non c’era più scopo a stare insieme e per giunta era pericoloso.
Ci dicemmo arrivederci sotto un cielo illuminato da un tiepido sole d’aprile, già un anticipo di calda primavera, e partimmo per raggiungere il comando repubblicano. In cambio di tutte le battaglie vinte, delle città conquistate, insomma di tutto quanto avevamo fatto per la repubblica, non ricevemmo in paga né oro, né denaro, ma solo 900 capi di bestiame. Una paga ridicola, che per poterne ricavare di che vivere ci costringeva a trasformarci ancora una volta. Con la perdita delle navi avevamo dovuto trasformarci da corsari in guerriglieri ed ora dovevamo trasformarci in mandriani. Quando giungemmo finalmente a destinazione non ci restavano che le pelli di 200 animali, con le quali Josè mi comprò un vestito a fiori. C’era di che scoraggiarsi e disperare, ma né lui né io eravamo persone da farlo. Josè, guardandomi negli occhi mi disse: «Io marcio a cavallo con la donna del mio cuore, che tutto il mondo m’invidia e ammira. Che m’importa di non avere altro che quello che indosso e di servire una povera repubblica che non può nemmeno pagarci? Ho la sciabola, la carabina ed una donna che è un tesoro, che condivide il mio ideale».
Era davvero così, condividevo davvero il suo ideale? Più volte me lo chiesi nei giorni e negli anni che seguirono, ma non seppi darmi risposta. Non riuscii mai a capire come potesse battersi per il riscatto di popoli che nemmeno conosceva, come riuscisse addirittura ad amarli senza chiedere nulla per sé e per noi, che eravamo la sua famiglia. Nelle notti in cui stavamo a parlare per ore, dopo aver fatto l’amore, mi diceva che l’incontro con un filosofo francese gli aveva cambiato la vita. Gli aveva fatto scoprire che chi va ad offrire la sua spada ed il suo sangue a ogni popolo che lotta contro la tirannia, è un eroe più che un soldato. E lui voleva essere un eroe. Potevo capire la lotta per la libertà, ma questo non lo comprendevo, come non capivo altre cose, troppo grandi per me. I suoi incontri segreti con un gruppo di massoni – di cui faceva parte – e quelli con il console inglese, in cui si parlava del destino di popoli di cui non avevo mai sentito e che non sapevo nemmeno dove vivessero. Forse la mia ignoranza m’impediva di comprenderlo, ma non m’impedì mai di amarlo fino in fondo, fino all’ultimo istante. Perché era lui il mio ideale, il mio uomo. Perché quando mi baciava, quando passava le mani sul mio corpo, sentivo di essere sua, ancor prima che entrasse in me. «In piena notte, quando scendi dal letto, la tua camicia di luna è un lungo strascico azzurro» mi disse in un attimo pieno di passione.
Di quegli anni il ricordo si è offuscato. I giorni passavano lenti e monotoni, lui a cercar di guadagnare qualcosa come ambulante e poi come insegnante, io a fare la lavandaia. Vita dura, mancava tutto, ma non l’amore, che ci regalò una figlia e portò Josè a sposarmi in una chiesa che aveva il nome di un grande santo del suo paese. Io non ci tenevo, mi bastava averlo accanto, ma lui lo fece per i nostri figli, perché avessero un padre riconosciuto dalla legge. Io ero felice, il mio sogno si stava avverando e le privazioni non mi pesavano, perché avevano sempre fatto parte della mia vita. In alcuni momenti però, scorgevo in lui segni d’irrequietezza, un gesto nervoso, uno scatto d’insofferenza verso il figlio, che pure amava tanto. Il corsaro, il condottiero, l’aspirante eroe, tutti i personaggi che aveva impersonato e che ora erano riposti in qualche angolo del suo animo, reclamavano forse di riprendere la scena, di tornare a vivere? Non ho mai avuto rivali tra le donne, anche se di molte sono stata gelosa, pazzamente gelosa. Un giorno, sospettando di una inglese, lo costrinsi a tagliarsi barba e capelli per farlo diventare meno affascinante. Poi dato che non bastava, andai da lui con due pistole cariche e gli dissi; una è per te e l’altra è per lei, decidi tu.
Potevo competere con qualsiasi donna ma non con la sua amante preferita, quella che non riusciva a dimenticare: la guerra. «Josè – gli dissi un giorno – ora io non sono più una guerrigliera, ora sono sposa e madre. Con due figli ed un altro in arrivo, non potrei seguirti se tu tornassi a combattere». Purtroppo non servì a molto e attraverso il consolato inglese riuscì ad avere il grado di colonnello e il comando di quattro navi malandate, ciò che restava della flotta. In quella guerra c’era tutto quel che ci voleva per attirarlo; un dittatore da abbattere ed un assedio da spezzare. Il suo insigne avversario scrisse più tardi che la fama di Josè come uomo retto e coraggioso, era fondata e che il vederlo al posto di comando sulla poppa della sua nave, gli aveva dato l’impressione che uomini e navi obbedissero solo alla sua volontà. Si era persuaso che fosse un vero eroe in carne e ossa destinato a grandi cose. Ed ecco ancora quella parola, "eroe", pronunciata addirittura dal nemico. Mentre gli altri nemici meno importanti e la stampa conservatrice del suo paese lo descrivevano come pirata, ladro, bandito. Combatté per due anni mentre io badavo ai bambini e tentavo in tutti i modi di allevarli senza troppe privazioni; purtroppo non potevo prevedere l’epidemia di scarlattina che colpì la città e uccise la mia piccola.
Sarei stata capace di sopportare tutto, sacrifici, sofferenze fisiche e delusioni, ma quel dolore sconfinato, che bruciava nel petto come fuoco, no, quello non potei accettarlo e impazzii, letteralmente. Lui lasciò la nave, venne da me e mi trovò che deliravo, chiamando disperatamente la mia piccola. Mi prese con sé e mi portò sul campo di battaglia. Il dolore dei feriti che curavo come infermiera, lentamente lenì il mio e Josè poté tornare alle sue imprese eroiche, sbaragliando con 190 uomini, 1200 regolari nemici.
Il Presidente della Repubblica, riconoscente, ci offrì un grande appezzamento di terra con case e mandrie di bestiame; poteva essere la nostra occasione, visto che la famiglia nel frattempo era cresciuta. In lui però ardeva sempre quella fiamma, che qualcuno chiamerebbe demone e altri sacro fuoco. Avrei voluto che accettasse, l’avrei voluto con tutto il cuore, ma io e le nostre creature eravamo una sola cosa con lui. Eravamo «amore, spiga, fuoco, e un solo sangue ci scorreva nelle vene ed era come un fiume». Volle tornare nel suo paese, dove era in corso una rivoluzione, facendoci partire prima di lui e accompagnati da un suo luogotenente. L’incontro con sua madre, religiosa e bigotta, fu carico di tensione, perché mi vedeva più come una donna divorziata, che vedova. Stavo quasi per tornare indietro quando lui arrivò. Appena il tempo di salutarci e ripartì, rapito da quella mia rivale, più potente di qualunque fascino io potessi avere. Questa volta però parve che fosse quella buona, che la rivoluzione andasse a buon fine. Nella capitale si era instaurata una repubblica e quando lui vi giunse con i suoi, che a molti parvero più banditi che soldati, non ebbe rivali. Tuttavia venni a sapere d’improvviso che stava male, i reumatismi lo stavano uccidendo ed era costretto a farsi issare a cavallo da due uomini.
Combattuta tra l’amore di madre e quello per il mio uomo, ancora una volta corsi da lui. Lo curai, gli ridiedi la fiducia in se stesso e la memoria del mio corpo, che pareva aver dimenticato. Quando seppe che ero ancora una volta incinta, m’impose di ritornare ai miei figli e di riposare, pensando al nuovo essere che portavo dentro. Ora che tutto mi è chiaro, ora che il velo che copre i vostri occhi per me non esiste più, è facile pensare a quanto potevo fare e non ho fatto. In quei momenti invece, tutto era caotico e concitato intorno a me, le buone notizie si alternavano a quelle tremende e intorno a noi cadevano amici che ci avevano seguito per anni. Sembrava che la morte prediligesse i più giovani e più belli, quasi fosse una vecchia bagascia assetata di gioventù.
Erano passati appena pochi mesi e già il sogno repubblicano si stava infrangendo contro la spietatezza della realtà, quella che lui non aveva mai saputo vedere, accecato com’era dai sogni di eroismo e di libertà. In breve tempo la situazione si rovesciò e la città si trovò accerchiata da truppe straniere di molto superiori. Josè e i suoi, quelli che erano rimasti dalla guerra d’oltreoceano, non cedettero mai, nemmeno di fronte all’artiglieria; ma tutto precipitava irrimediabilmente. Non mi sentii più di avere notizie di lui dai giornali o dai pochi messaggi che m’inviava. Dovevo raggiungerlo e lo feci, incinta di quattro mesi. Qualunque cosa fosse accaduta da quel momento in poi, giurai di non lasciarlo mai più. Questa volta gli tenni testa e non accettai i suoi ordini, non volli fuggire da sola. Mi vestii da soldato, tagliai i capelli e partii insieme a lui. Mi pareva di essere tornata indietro nel tempo, quando cavalcavo al suo fianco su quella spiaggia dove ci eravamo amati per la prima volta. Tornavo ad essere la gazzella scura, la sua amazzone, nascondendo a fatica la febbre e le sofferenze che quella fuga precipitosa e senza tregua mi causavano. Lui che mi conosceva così bene però se ne accorse e mi chiese ancora una volta di fermarmi in una di quelle fattorie che mi avrebbero offerto rifugio. Voleva forse lasciarmi sola – gli chiesi - tra estranei di cui non parlavo la lingua? Ripartimmo per strade deserte, con la febbre e la sete che mi divoravano e un solo breve sprazzo di sollievo: il succo meraviglioso di un melone. Intorno a me le cose apparivano offuscate e cadevo sempre più spesso nell’incoscienza. Sentivo solo attraverso i pochi sensi rimastimi. Il lento dondolio di un birroccio, un trasporto a braccia, le sue ne sono certa, il beccheggio di un barcone e l’odore del pesce. Eravamo tra pescatori. D’improvviso, due colpi di cannone ruppero il silenzio e sentii la sua voce autoritaria che ordinava ai suoi di sbarcare per non mettere in pericolo la vita di quei poveri pescatori che avevano tentato di salvarci. Tutto si faceva più lento e lontano, come se stessi scivolando verso un mare di oscurità e silenzio. Anche la sua voce era divenuta distante. «Voi non potete neppure lontanamente immaginare – lo sentii dire a chi gli stava vicino – quali servigi mi abbia reso questa donna… la tenerezza che nutre per me! Io ho verso di lei un immenso debito di riconoscenza e d’amore… Lasciate che mi segua!».
In questo luogo in cui i ricordi sono l’unica forma di vita, non sono le battaglie al suo fianco o il mio cavalcare indomito con i capelli al vento e la sciabola sguainata che ricordo, no. Quella è l’immagine che a voi è rimasta di me, dipinta o scolpita nell’alabastro, immota e immutabile per sempre. Io qui vivo solamente per la memoria di tutte le parole che mi rivolse in quell’estate indimenticabile:
«Tu splendida amazzone, i miei occhi ti scoprono nuda, tu sei il mio ideale, il mio sogno, pensiero che si fa donna, il mondo vero, la mia vita e la mia morte».
Che m’importa ora se per lui lasciai il mio paese, la mia casa e lo seguii, straniera in terra straniera. Che m’importa se in dieci anni provai delusioni e privazioni. Sapevo ciò che mi aspettava. Lui l’aveva detto più volte ai suoi uomini: «Io non offro né paga, né quattrini, né provvigioni. Offro fame, sete, marce forzate e morte». Io le provai tutte queste cose, seguendolo anche nel suo ultimo sogno infranto e durante la fuga tra sentieri impervi e canneti. Terre che mi ricordavano le lagune in cui sono nata.
Che m’importa se mentre morivo, sentivo morire anche la creatura che mi portavo dentro… Io lo rivedo come in quel momento, rivedo il suo amato volto chinarsi su di me e mormorarmi: «Anita, anima mia, non abbandonarmi».

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