Racconti di
      
    Silvio Minieri
      
    Pagine: 29
       Prezzo: 4,00 euro
       E-mail: silviominieri@libero.it
       Tel.: 06 5033632

     

    INTRODUZIONE

    Le poesie della raccolta "Addio alla città imperiale" hanno un unico motivo ispiratore, che il presente commento tende ad illustrare. Il termine "poema" sta qui a significare proprio l’unitarietà del tema della raccolta poetica; ma questo commento, scendendo nella profondità del poema, finirà per incontrare un senso diverso da quello messo in luce in questa prima parte, intitolata "Il fiume sacro" e l’unitarietà del poema apparirà percorsa come da un suo doppio in ombra, corrispondente ad un più occulto o malcelato senso. Questo altro senso nascosto sarà meglio ricercato nella seconda parte del commento, intitolata "La donna di Londra"; non è però detto se questo significato sommerso, che pure ogni tanto affiora, sarà poi messo pienamente in luce.
    Devo inoltre dire che soltanto apparentemente parlo senza modestia di poesia riferendomi alle mie composizioni in versi e di poeta riferendomi a me stesso; ma non avevo altra scelta nell’uso dei termini, che pertanto vanno presi in considerazione con la dovuta cautela e la consueta riserva di giudizio sul grado d’ispirazione e sulle capacità espressive di un esordiente.

    Silvio Minieri

     

    1. Francesca Romana
    Il poema di “Addio alla città imperiale” è la storia dell’amore di Silvius, un nome che il poema non nomina, per Francesca Romana. Chi è questa donna? Se per donna intendiamo la signora delle cose e del mondo ovvero la realtà rischiarata dalla luce dell’intelletto, che la realtà rispecchia illuminandosi, allora Francesca Romana è il simbolo della saggezza dell’Universo, la luce delle cose sensibili. Queste si manifestano nella realtà, come insieme o complesso del sensibile, che riflette la luce dell’intelletto di una donna, la dòmina che dominando protegge il reale e lo simbolizza, cioè lo riunisce nel mondo. Il mondo di Francesca Romana è l’Impero in cui Silvius si aggira e può aggirarsi in ragione dell’amore di Francesca Romana, che nell’Impero lo attira e lo trattiene nella sospensione dell’attimo eterno.
    Nella poesia “Senza mai declino è il giorno” è detto: “E senza mai declino è il giorno / con te, Francesca Romana, / il giorno infinito dell’arte / e della vita scolpita in pietre / maestose e fisse nel tempo.” Il giorno della vita del mondo non s’inclina (“senza mai declino”) come l’asse del sole sull’orizzonte, quando incomincia la sua parabola discendente dallo zenit del cielo azzurro, andando a coricarsi sulla linea di terra dell’occidente. Il giorno della vita del mondo è “il giorno infinito dell’arte”, dove la vita rimane eternamente scolpita nella maestosità delle pietre imperiali.
    Ma chi è l’autore della sospensione infinita dell’attimo, chi regge l’infinito nell’eternità? L’artista? “Sull’antico selciato dei templi / il coraggioso artista è intento / a disegnare il curvilineo echino / del frammento di colonna spezzata / che giace sul marmo coricata. / La luce, la linea, l’attimo / il colore del giorno sospende / e trattiene nella fuga dell’ora / le vestigia dell’Impero incise / in luoghi immortali da secoli.”
    Interpretando alla lettera questi versi, l’artista appare come il demiurgo alle soglie del destino dell’eterna verità del “cerchio senza mai declino”, che tenta di salvaguardarne lo spettacolo. E se la demiurgia, arte artigianale del copiare e creare e creare copiando, si rivela nell’artista come la funzione creativa in lotta contro il flusso inarrestabile del tempo, non è l’opera dell’artista un tentativo disperante nell’immanità e inanità della sfida? Non necessitano allora fede, amore o coraggio quando la fuga dell’ora (“ruit hora”) genera la nostalgia del presente che passa, presagendo lo sgomento della resa? Se così pensiamo e diciamo, capiamo perché egli è definito nella poesia come il “coraggioso artista”. Il suo coraggio raccoglie nell’attualità dell’opera il presente della “… luce, la linea, l’attimo / il colore del giorno…”
    Ma per quanto attuale, rovesciando il presente nell’atto e così attirando l’arte tra “le vestigia dell’Impero incise / in luoghi immortali da secoli”, l’opera dell’artista è ispirata da un soffio divino. L’ispirazione è il respiro della “acqua verde del fiume sacro”, che è sacro proprio perché specchio della divinità, riflesso nel cerchio infinito del destino, il “cerchio senza mai declino”. Ma la divinità del cerchio che traluce nella indeclinabilità del giorno senza fine è la luce dello splendore imperiale. La sovranità dell’immagine imperiale, che rispecchia questa luce, è il destino, il destino sovrano di Francesca Romana.
    Silvius canta questo destino imperiale e canta la grandiosità solenne e l’immortalità nei secoli della città imperiale nel ritmo nostalgico dell’addio. Perché? L’annuncio del canto di addio è già nel titolo del poema. Perché dunque il poema è intitolato: “Addio alla città imperiale”? Perché il poeta dice addio alla città imperiale e quale è questa città?
    La città imperiale è Roma: così è detto in epigrafe. Quale Roma? La Roma indubbiamente imperiale, caput mundi, la Roma eterna, dove eternamente e divinamente abita Francesca Romana. L’amore di Silvius per Francesca Romana è l’amore del poeta per la città imperiale; amando Francesca Romana, Silvius ama la città, di cui è dòmina Francesca Romana; e la città che Silvius ama splende di luce imperiale, perché il suo splendore imperiale è la luce della divina figura di donna che la città imperiale “racchiude”, “dischiude” e “domina”.
    Dico prima “racchiude”, perché Francesca Romana, la luce divina della donna, comprende nello splendore della sua bellezza ogni cosa divinamente bella e divinamente esistente, proprio in ragione della divinità di quella luce. Ma ogni cosa divinamente bella e divinamente esistente non è separata né nel suo insieme né da un mondo altro al di fuori dell’insieme delle cose sensibili, tutte ricomprese nella gloria di luce del dominio della donna dominante; questa luce costituisce l’ordine delle cose, il cosmo, l’armonia dell’universo, che nell’apparente varietà delle cose tende all’unità e per questo converge verso l’uno, l’uni-verso. Ma che cosa voglio dire, quando dico: ogni cosa non è separata nel suo insieme? Dico che le cose nel loro apparire si presentano molteplici, ma nella divina luce del dominio della donna esse si raccolgono in unità ed in questa unitarietà di luce vengono racchiuse; ecco perché dico: “racchiude”; ma dico anche: “schiude”. Schiudere è il fiorire, il germogliare, lo sbocciare, familiare nel “fiore” per eccellenza: la “rosa”. Ogni sapere che nasce, fiorisce è un sapere che nasce e fiorisce nello sbocciare della rosa. Dice Hillman che ogni filosofia viene dopo la rosa. La meraviglia della rosa è la meraviglia, lo stupore, la nascita, l’incanto del mondo, dalla cui contemplazione nasce il desiderio di sapere (filosofia).
    Ma dove si generano la rosa, la meraviglia ed il mondo? La rosa, la meraviglia ed il mondo sono la generazione dell’intelletto divino della donna che si dischiude e dischiude la luce delle cose del mondo. Il germogliare del dominio del mondo è lo sbocciare della rosa, il fiorire. Lo schiudersi è luce.
    Più sopra avevo detto che le cose sono ricomprese nel dominio della donna dominante. Che cosa è questo “dominante”? Il dominante non è una cosa separata dall’insieme delle cose, ma il suo risplendere nel dominio, è la sua luce. Quindi “dominante” non vuol dire “predominante”, ma racchiudente e nel racchiudere aprirsi e germogliare come dominio della donna. La dominanza del dominio della donna è la gloria della luce, la domus originante della luce riflessa da e nella gloria.
    Il “racchiudere che schiude” della donna è il dominare. Pertanto la divina figura della donna che racchiude, schiude e domina riflette nella sua luce, nella sua divinità di donna, che è intelletto divino, l’Impero. Simbolo e sinolo dell’Impero è la città imperiale. È il simbolo perché domina su tutte le province anche più lontane dell’Impero e le raccoglie nel suo centro di città capitale dell’impero sul mondo, come caput mundi; ed è il sinolo (singolarità) dell’Impero, perché ne sostanzia in concreto l’anima nella maestosità delle sue pietre e della sua arte, del suo fiume sacro e delle sue antiche vestigia, quali sono le colonne, i ponti, le mura, gli archi, i templi, le secolari rovine.

    continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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