Romanzo
di Tommaso Ferri
Pagine: 123
Prezzo: 10 euro
ISBN 978-88-6170-015-4
 

Opera 3ª classificata alla 13ª edizione del
Premio Letterario Internazionale
«Trofeo Penna d'Autore»
 

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PREFAZIONE

Tommaso Ferri è nato e cresciuto sulla costa Tirrenica che ha visto lo sviluppo di un’importantissima civiltà superiore come quella etrusca.
Sin da piccolo le sue mete preferite risultavano essere le spiagge del mare di Baratti sulle quali ancora luccicano i resti del metallo ferroso lavorato dai fabbri etruschi e le sepolture svettano come castelli del tempo.
In quel luogo magico ricco di tradizioni e di storia il giovane Tommaso è riuscito ad entrare in empatia con il passato e ad amarlo. La cosa traspare tra le righe del suo racconto ricche di flash back e rimandi a un mondo lontano ma ancora presente e riconoscibile nei suoi occhi di ragazzo. Fantasia, realtà, desiderio di poter accedere al sogno, rimandi storici, un insieme di componenti che stanno ad indicare competenze e creatività. Il racconto "Battaglia in mare a Pupluna" parte da un titolo iniziale che farebbe supporre un racconto basato sulla realtà ma che poi si fa prendere dalla voglia di sognare, di inventare lì per lì quello che veramente si desidera. Tommaso Ferri desidera raccontare nel passato ciò che lui vorrebbe che si avverasse nel presente. Vorrebbe che tra gli esseri umani non ci fossero competizioni, che l’uomo iniziasse nuovamente ad amare la natura facendosene componente. Il suo amore per il passato si interseca con il suo amore per gli animali e per la famiglia. Setlans diviene suo compagno di giochi e nello stesso tempo è simbolo supremo di ferinità e natura, è la trasposizione dell’autore verso una vita vera, libera da orpelli e imposizioni. Cheroneo e Sikania incarnano le colonne stabili che sorreggono la sua vita, quei genitori uniti e perfetti che preferiscono morire purché lui possa vivere. Il racconto rappresenta il cerchio perfetto della famiglia che contraddistingueva anche le civiltà primitive riconoscibile in quel laccio di cuoio che compare nel racconto dall’inizio alla fine.
"Battaglia in mare a Pupluna" racconta mirabilmente una battaglia tra greci ed etruschi che si svolse di fronte alla costa tirrenica. La battaglia, commentata riga per riga con considerazioni personali dell’autore, è la metafora dell’inutilità della guerra, l’uomo guerreggiando si autoannulla e non riesce a creare niente altro che vuoto e distruzione. Quando si guerreggia si crea morte, sofferenza, tutto si trasforma, persino la natura, che rinascerà dopo ogni distruzione, sembra meravigliarsi che gli uomini creino la morte. Dopo la battaglia sul terreno si conteranno i cadaveri degli uomini che non avranno un’altra possibilità di vivere e mentre le fasi naturali si esplicheranno nuovamente, l’uomo non potrà mai più vedere il sorgere del sole.
Nonostante ciò, dopo secoli, sembra che niente sia cambiato e l’uomo continua a guerreggiare con i suoi simili senza capire che la guerra è soltanto morte.
"Battaglia in mare a Pupluna" scorre via veloce, come il tempo reale, ci sono continui colpi di scena e lo stato d’animo del giovane lettore, a cui è dedicato il racconto, percepisce emozioni e commozione. Davanti agli occhi sembra di veder scorrere le immagini di un film storico ricco di colori, sul mare dell’antica Pupluna i vessilli strappati dal vento galleggiano nel mare tempestoso, fumo e vento svolazzano intorno a chi legge, per un attimo ci rendiamo conto che siamo stati catapultati indietro nel tempo, un tempo mitico colmo di dei, di divinità di eroi e di fantasia che sono legati tra di loro da un legame che non si distruggerà mai, simbolo di quei valori eterni che accomunano tutti gli esseri viventi.

Giuliana Valisneri
Critico Letterario

 

 

BATTAGLIA IN MARE A PUPLUNA

Capitolo I

I miei genitori erano nomadi, non stavano mai fermi in un posto a lungo, quando arrivava la sera piantavano dei pali e costruivano un giaciglio per la notte, al centro della tenda delimitavano un cerchio fatto di pietra per accendere il fuoco.
Mia madre tirava fuori da un tascapane di cervo delle ciotole di argilla e cucinava qualcosa per noi due mentre mio padre andava nel bosco in cerca di lepri e conigli selvatici. Tornava sempre con il canestro pieno, era un bravo cacciatore. Dopo aver scuoiato gli animali e teso le pelli ad asciugare, tagliava la cacciagione in strisce e metteva la carne a seccare.
Una preda veniva usata come cibo fresco. Prima di infilarla in uno spiedo mio padre la ringraziava per avergli impedito di morire di fame, faceva strani segni e si inginocchiava ripetendo più volte uno strano rito.
Dopo la cottura la selvaggina veniva divisa in tre parti, mio padre dava sempre la parte più grande a me perché dovevo crescere sano e forte.
Quando la carne era secca e le pelli pronte per diventare cappelli, guanti e mantelli caldi per l’inverno, la famiglia era pronta a ripartire.
Si radunavano i pochi oggetti, spegnevamo il fuoco per evitare incendi, guardavamo il posto per l’ultima volta, poi mio padre diceva una frase che io conoscevo ormai a memoria.
"Grazie natura, mi sei stata utile, mi hai permesso di nutrire la mia famiglia regalandomi i tuoi figli, ti sono debitore".
Partivamo subito dopo, in fila indiana, non una parola veniva pronunciata, ogni volta era triste abbandonare un posto dove eravamo era stati bene, spesso un luogo bellissimo dove a tutti e tre avrebbe fatto piacere vivere.
Spesso mi chiedevo perché i miei fossero nomadi ma non avevo il coraggio di chiederlo perché con loro non parlavo mai di queste cose, ero piccolo, non era compito mio interferire sul nostro modo di vivere. Spesso però mi sembrava di capire che anche a loro sarebbe piaciuto fermarsi per sempre!
Mia madre era molto dolce con me, quando ero più piccolo mi lavava con acqua tiepida che aveva scaldato sul fuoco, mi asciugava con la pelle di daino e dopo mi spalmava sulla pelle un’essenza profumata che faceva lei stessa con fiori selvatici.
Mi teneva in braccio accarezzandomi i capelli, cantava antiche nenie che si erano tramandate nella sua famiglia di generazione in generazione. Mimmi non era una gran chiacchierona, si limitava a dire le cose essenziali, comunicavano molto con lo sguardo e spesso mio padre diceva per scherzo di esserne geloso.
Mio padre era un uomo molto bello e robusto, aveva muscoli scolpiti, era alto con spalle quadrate. Portava i capelli lunghi, legati dietro con un laccio di cuoio annerito. Era pulitissimo, si lavava anche in pieno inverno, o nel mare o nei fiumi, quando entrava nell’acqua lanciava un grido fortissimo, io trasalivo poi guardavo mia madre che sorrideva e scuoteva la testa e capivo che era uno scherzo:
"Mimmi perché fa così?"
"Per sconfiggere il freddo!"
Ridevamo poi aggiungevamo legna al fuoco per riscaldarlo al suo ritorno. Lui usciva dall’acqua solo dopo essersi strusciato il corpo con la sabbia, ne prendeva a manciate e se la passava sulla pelle più volte, poi usciva dall’acqua correndo verso la riva. Io e mia madre lo frizionavamo con la pelle di daino, dopo essersi rivestito diceva, con aria minacciosa, che ci avrebbe buttati in mare vestiti, ci rincorreva intorno al fuoco e tutto si trasformava in un gioco divertente.
Mio padre era un gran cacciatore, un bravo viaggiatore, sapeva orientarsi sempre, non si era mai perso neppure quando finimmo in quel bosco intricatissimo sulla cima di una collina.
Ricordavo bene quella volta…
Eravamo arrivati in una radura verdeggiante, di fronte a noi si estendeva un bellissimo bosco di querce e lecci secolari. Le piante alte e imponenti dalle chiome verde scuro, mettevano soggezione a chi si trovava sotto le loro fronde, i loro tronchi erano così grandi che dieci uomini non sarebbero bastati a circondarle!
Mio padre disse che quel bosco poteva essere attraversato perché non c’erano rovi o macchia bassa, inoltre il sottobosco doveva essere sicuramente ricco di funghi, corbezzole e selvaggina.
Con lui ci infilammo dentro la boscaglia senza paura, avevamo piena fiducia nel suo senso di orientamento. Stavamo camminando da un po’ di tempo quando sotto alcune piante di felci mio padre scorse dei funghi e si fermò per raccoglierli.
"Non farlo, disse mia madre, sai bene che alcuni componenti della nostra famiglia sono morti dopo averne mangiati!"
"Donna sei diffidente e fai bene, anche se sono sicuro che questi funghi non sono malefici so che, in caso contrario, mangiarli vorrebbe dire morire tra atroci dolori!"
"Io non li mangio da quando il vecchio indovino raccontava che alcuni di questi vegetali sono preda dei demoni della terra e che sono stati messi qui per punire gli uomini e portare le loro anime a loro!!"
"Forse la tua diffidenza ci evita di morire, fai bene ad esserlo, la terra ricca di frutti buoni e nutrienti è stata contaminata dagli dei del male, è saggio non fidarsi anche se a malincuore, questi vegetali sono squisiti!!"
"Lo so bene, proprio per questo i demoni li hanno scelti!!"
Proseguimmo nel cammino fino a quando il bosco cominciò a farsi intricatissimo, i rovi graffiavano le mani e si attaccavano ai vestiti come se volessero impedirci di proseguire, le piante si erano fatte basse e fitte così fummo costretti a camminare in ginocchio. Mio padre si era sbagliato.
Non si vedeva più niente se non rovi e saggina, poi sentimmo un rumore lontano che si faceva sempre più insistente e più vicino.
"Cinghiali, un branco di cinghiali stanno arrivando qui, corriamo o ci schiacceranno!"disse mio padre.
Cominciammo a correre ma le piante ci sferzavano il viso, si attaccavano ai capelli, ci trattenevano come se gli spiriti maligni volessero costringerci a rimanere nel bosco, forse volevano far morire il nostro corpo per rubarci l’anima! Mi sembrava che ogni creatura fosse divenuta nemica, non mi sentivo più in sintonia con la natura e iniziai a spaventarmi.
Mentre camminavamo carponi sentimmo, non molto distante da noi, un lamento straziante. Capimmo che si trattava di un animale ferito a morte.
Deviammo il percorso, anche se il lamento proveniva dalla direzione opposta da dove eravamo diretti. Mio padre affermò che aveva il compito di soccorrere l’animale ferito, come componente della natura era solidale con ogni essere che la componeva e la legge di natura andava rispettata.
Tutti e tre cercavamo di avvicinarci al luogo dal quale proveniva il lamento ma non riuscivamo a raggiungerlo a causa dei rovi taglienti e dei rami che ci sbattevano sulla pelle. Mentre tentavamo di farci largo nel folto del bosco mio padre ad un certo punto si bloccò e noi andammo a sbattergli contro, ci fece cenno di tacere, rimanemmo immobili e sentimmo un fruscio sulle foglie inconfondibile e preoccupante!!!
Un serpente si stava muovendo vicinissimo a noi, lo scorgemmo proprio al nostro fianco.
Era una vipera grigiastra, corta e tozza, non era il periodo di riproduzione perciò il rigonfiamento che aveva sul ventre stava a significare che aveva mangiato un topo o un roditore, il veleno probabilmente era stato impiegato per uccidere loro ma anche il poco che rimaneva nei suoi denti per noi sarebbe stato letale! Ci fermammo per lasciarla passare, non avrebbe attaccato se noi non l’avessimo provocata, le creature del bosco attaccavano l’uomo soltanto per difendersi e questo ormai lo sapevamo bene. Iniziammo di nuovo a camminare, sentimmo che il lamento della creatura ferita stava diventando più tenue anche se ora lo sentivamo molto vicino a noi. La vegetazione sembrava diradarsi, i rovi erano spariti lasciando il posto a cespugli di saggina e agrifoglio. Evidentemente eravamo saliti molto in alto ed eravamo arrivati in un bosco di faggi.

continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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