Marta Folcia e Franca Giovanna Rossi

Racconti di Marta Folcia e Franca Giovanna Rossi
Pagine: 94
Prezzo: 8,00 euro

 


 

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PROFILO DELLE AUTRICI

MARTA FOLCIA è nata e vive a Milano, dove lavora come imprenditrice nel settore siderurgico. Diplomata alla Scuola di Alto Interpretariato di Milano, ha collaborato per diversi anni con la Redazione Periodici della Rizzoli Editore, come traduttrice per la Stampa Estera di testi e articoli di importanti nomi del giornalismo italiano quali Oriana Fallaci, Guido Gerosa, Alberto Ongaro ed Enzo Magrì. La raccolta di racconti «Il vestito color lilla» del 2006 è stata la sua prima pubblicazione, con la casa editrice Il Filo.

FRANCA GIOVANNA ROSSI da molti anni risiede a Milano dove esercita la professione di Consulente del Lavoro, ma porta nel cuore il mare della nativa Liguria dove, bambina, ha vissuto gli ultimi anni della guerra. È appassionata di musica e di pittura, riservando un particolare amore a Masaccio. Ama circondarsi di amici che costituiscono il suo grande patrimonio e volentieri cucina per loro.
È nuova all'esperienza letteraria.

PREFAZIONE

In una prosa lieve, dal ritmo pacato, senza intoppi sintattici o preziosismi lessicali, le autrici riescono a esprimere con maestria la loro autentica anima lombarda e ligure, laboriosa, costruttiva, concreta quando c’è da esserlo. Con poche pennellate paesaggistiche, ci evocano case di ringhiera e prati verdi che si affacciano sull’ultima periferia milanese e luoghi e ambienti che profumano di mare, dove le donne sono eroine dal semplice comune buon senso, che partecipano alla guerra accanto ai loro uomini e diventano poi le protagoniste di una lenta e travagliata ricostruzione. Tra le righe si snodano ricordi di guerra il cui amaro sfuma nel tempo; si è persa l’aggressività ed il pathos del vissuto immediato, grazie al filtro riparatore del trascorrere degli anni.
Col passare del tempo i fatti si spogliano della crudezza della cronaca, intrisa di dolore e sangue e rabbia e vendetta, per assumere quella serenità di giudizio, che è il quid di Tucidide, quell’essenziale “possesso perenne” dal significato metastorico e metaspaziale.
La linearità del costrutto linguistico si traduce in una grammatica del pensiero che consente una comprensione immediata ed inequivocabile del messaggio delle autrici: essere grati alla vita qualunque cosa essa ci riservi, comprendere e metabolizzare ogni sua lezione. È l’ottimismo della Provvida Sventura di manzoniana memoria.

                                                                                                           Professoressa Graziella Petoletti
                                                                                                           Docente di Lettere Classiche

 


GLI STRANIERI

In quei giorni Nina trascorreva buona parte delle sue giornate in compagnia della mamma, spesso in cucina, giocando con la sua bambola. Da parte sua, da quando il marito era partito per la guerra, Elvira preferiva tenersela vicino, quasi che la sua presenza la confortasse della profonda solitudine in cui versava la sua vita e delle preoccupazioni che l’assillavano. Solo al pomeriggio, se tutto intorno era quieto, le concedeva di scendere in cortile a giocare, ma ormai anche i bambini presenti erano pochi, perché molti erano sfollati fuori Milano con le loro famiglie. Qui Nina poteva sgranchirsi le gambe saltando la corda, o giocare a palla con Lisetta, la figlia dei vicini, ma questa a volte si mostrava dispettosa con lei, non permettendole neppure per un istante di prendere in braccio la sua bellissima bambola, la più bella che Nina avesse mai visto, una principessa, una gran dama con un magnifico vestito di tulle azzurro.
Nina e la mamma vivevano in una delle zone ancora rurali della periferia di Milano, con piccole case ad un piano che circondavano un vasto cortile, al quale si accedeva attraverso un portone ad arco.
Ma da qualche tempo, c’era come un’atmosfera di attesa in casa ed Elvira appariva tesa e più preoccupata del solito, dopo una telefonata con zia Clotilde, una suora che viveva in un convento a Firenze, fatta alla vicina trattoria, unico posto nelle vicinanze fornito di telefono. Nina non sapeva che cosa la zia avesse comunicato alla mamma, aveva solo udito le sue brevi risposte.
«Preferirei evitare, zia, potrebbe essere rischioso.»
Altre parole della suora e poi:
«Io ho una figlia, lei è piccola, la devo proteggere…Va bene, aspetto. Farò come desideri.» Fece un grande sospiro al momento di riattaccare.
Poi un giorno una macchina scura si fermò davanti al portone, scesero cinque persone: un uomo, una donna, due bambini; c’era anche un’altra donna con loro e questa attirò particolarmente l’attenzione di Nina, perché indossava un vestito nero e lungo fino alle caviglie e portava uno strano cappello rotondo, anch’esso nero. Il gruppo parlava una lingua che Nina non capiva; seppe più tardi che parlavano francese. Gli stranieri parvero a Nina belli ed eleganti, diversi dalle persone che era solita incontrare. I bambini si osservarono incuriositi: la bambina le sorrise e Nina le mostrò subito la bambola che teneva nascosta dietro la schiena; l’altra ne estrasse a sua volta una dalla tasca del vestito.
«Suo nome è Ruth», disse in un italiano un po’ stentato la donna con il cappello, indicando la bimba. «Tu, come chiamare?»
«Nina.»
«Bene Nina, voi amiche e giocare insieme…»
Elvira appariva nervosa e impaziente e disse alla figlia di andare subito a casa. Una fitta di infelicità attraversò il cuore di Nina, che pensava, col suo allontanamento, di perdersi un momento importante.
La famiglia venne alloggiata in un appartamento che era appartenuto alla nonna, dirimpetto al loro.
Per alcuni giorni nessuno si vide, ma, passando davanti alla loro porta, e Dio sa quante volte al giorno Nina lo faceva per curiosità verso i nuovi venuti, si sentivano i rumori provenienti dalla casa, tintinnio di stoviglie mosse, voci che sussurravano appena; solo i bambini a volte parlavano a voce più alta o piagnucolavano, subito azzittiti da qualcuno degli adulti. Elvira portava loro tutti i giorni qualcosa delle poche derrate che otteneva con la tessera, ma la signora in nero riusciva a sua volta a procurarsi un po’ di cibo alla vicina trattoria, che divideva poi con Elvira.
Un giorno la bimba che si chiamava Ruth apparve in cortile e Nina si girò a guardarla, lei le fece un cenno di saluto con la mano e le mostrò un’altra bambola, diversa da quella del primo giorno. Nina la raggiunse e cominciarono a giocare insieme, ognuno parlava la sua lingua, ma il soggetto che interpretavano era quello di due mamme con le figlie neonate, che loro dovevano accudire, nutrire e portare a spasso. Le bambole erano simili e le bimbe poterono scambiare gli abiti. Poi Ruth venne chiamata dalla signora in nero e scappò via, ma lanciò uno sguardo complice a Nina, facendole capire che sarebbe tornata il giorno seguente. E così fu, e il giorno dopo, e quell’altro ancora, a volte accompagnata dal fratellino piccolo, che rivestiva il ruolo del papà, non si sapeva bene di quale delle due bambole. Giocavano con facilità e si comprendevano, malgrado parlassero due lingue differenti, perché erano accomunati dal linguaggio universale del gioco infantile. Ma ogni volta, dopo poco tempo, la signora li richiamava e, nonostante le loro proteste, era irremovibile sul fatto che i bambini dovessero rientrare in casa.
Un giorno Nina sorprese la signora in nero che mostrava alla mamma l’orlo del suo vestito; erano sedute in cucina; sua madre appariva imbarazzata e sbalordita; la signora ripeteva:
«Gioielli… preziosi… se qualcosa succede a noi… non dimenticare…»
Un’altra volta, vide all’interno della casa, mentre la porta era socchiusa, la donna che leggeva ad altra voce un grosso volume a tutta la famiglia seduta al tavolo e al centro c’era un candelabro a sette braccia. L’arrivo di queste persone aveva molto colpito la fantasia di Nina, la bambina ne era affascinata, ma temeva che, come esse erano venute, se ne andassero improvvisamente, a sua insaputa, magari di notte come fuggiaschi, senza che lei avesse modo di sollevare quel velo di mistero che incombeva sulle loro presenze nella casa. E così dormiva poco, per stare sempre all’erta e, come la luce del giorno cominciava a filtrare dalle persiane, apriva piano la porta e sgattaiolava sul pianerottolo, per sentire se ancora si udivano i rumori provenienti dalle stanze, dove gli stranieri alloggiavano. Poi un giorno la mamma fu chiamata al telefono e, tempo di cambiarsi d’abito, prese Nina per mano e, dopo un cammino abbastanza lungo a piedi, in cui lei trotterellava accanto alla madre per stare al suo passo veloce, entrarono in una casa parrocchiale, dove un prete le aspettava. Nina venne fatta accomodare in un corridoio, mentre sua madre parlò a lungo con il sacerdote nel suo studio; poi vide Elvira mettere dei documenti nella borsa e se ne andarono.
Passarono altri giorni senza che nulla di nuovo accadesse, ma l’amicizia con Ruth divenne sempre più stretta e un giorno la bimba fece a Nina un lungo discorso tenendole forte la mano e questa, malgrado nulla avesse compreso, si considerò depositaria delle confidenze dell’amica e ne fu oltremodo orgogliosa.
Un giorno la mamma l’abbracciò forte e le disse:
«Tesoro, domani andiamo a fare un viaggio in treno, ma ritorniamo per sera. Verranno con noi i signori stranieri, ma tu non dovrai rivolgere loro la parola durante tutto il tragitto, come se non li conoscessi. I bambini invece staranno con noi e, se qualcuno dovesse chiederti chi sono, tu risponderai che sono fratellini tuoi, hai capito bene? È importante Nina!»
«Sì, mamma ho capito, ma come possono essere fratelli miei se il loro modo di parlare è diverso dal mio?» La mamma ebbe un’espressione di sconforto e guardò altrove per un istante, pensierosa, ma si riprese e proseguì:
«Loro non parleranno, Nina, staranno zitti. Vedrai, andrà tutto bene.»
«Mamma, questi stranieri chi sono? Dove stanno andando? Stanno scappando? Hanno fatto qualcosa di male?»
«No tesoro, non hanno fatto nulla di male, è per questo che dobbiamo aiutarli. Quando sarai grande capirai.»
Era una bella mattina di maggio, quando il gruppo si avviò a piedi alla stazione. La donna in nero era questa volta vestita normalmente, anzi, Nina s’avvide che portava un abito identico ad uno che aveva sua madre nell’armadio della camera. Ma prima di uscire dal portone, l’uomo, con cui mai neppure una parola era stata scambiata in tutto il tempo della loro permanenza, disse delle parole accorate e baciò la mano ad Elvira; poi fece una carezza affettuosa a Nina; sembrava stesse per piangere. Anche l’altra donna, la più giovane e carina, di cui mai si era udita la voce, sembrava commossa. In treno fecero come la mamma aveva detto. Elvira e i tre bambini si sedettero vicini, le due donne e l’uomo sparpagliati, come se non si conoscessero. Nina guardava spesso sua madre che sembrava tesa e agitata. Ruth e il fratello se ne stavano zitti e fermi ai loro posti; ogni tanto scambiavano con Nina delle occhiate di simpatia e di complicità, ma nessuno sembrava capire il perché di tutta quella finzione.
Dopo poco, il treno si fermò e salì un gruppo di soldati tedeschi; scandagliarono tutta la carrozza con decisione e poi si soffermarono a lungo con lo straniero, guardando i suoi documenti e facendogli delle domande, e consultandosi ogni tanto tra di loro. La mamma appariva ancora più pallida e si mordicchiava le mani, cosa che faceva quando era nervosa. Poi finalmente riconsegnarono all’uomo i documenti e si allontanarono; passarono vicini ad Elvira, indugiando qualche istante con lo sguardo; lei sorrise disinvolta ad un soldato, facendo un gesto che significava che i bambini erano con lei e questo non disse nulla e tirò dritto. Poi, quando il treno ripartì, Nina vide la donna che i giorni addietro vestiva di nero, alzarsi, versare del liquido da una minuscola bottiglia che aveva nella borsa e portare da bere all’uomo, che appariva smunto e sudato, come se si sentisse male.

continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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