Racconto di Antonelliani
ANTONELLIANI 

Un giorno d'estate, una svolta

«Scusi, ha da accendere?».
«Ma... quanti anni hai, figliolo?» chiese la donna di mezza età.
«Tredici il prossimo settembre» rispose con un pizzico di orgoglio il ragazzo.
«Ma lo sai che non dovresti fumare alla tua età? Lo sai che è pericoloso...».
«...ma lo sa che lei dovrebbe farsi un po' i cavoli suoi?» proseguì il ragazzo e voltandosi corse verso l'uscita della stazione.
«Attento: è vietato attraversare i binari! Giovane...».
Ma ormai il “giovane” aveva sceso gli scalini che portavano alla piazza davanti alla stazione e, ottenuto da accendere, stava fumandosi in santa pace la sua sigaretta.
Intanto dall'altoparlante annunciarono la partenza del treno regionale per Genova e lei, avviandosi con passo veloce, vi salì. Il treno era deserto e la donna trovò posto a sedere nel secondo scompartimento dove un giovane militare stava sistemando il proprio bagaglio.
«Posso?» chiese lei accennando un sorriso.
Il marinaio annuì e senza aggiungere una parola ripose sugli appositi sostegni anche la valigia della signora.
«Lei si chiama come mia zia: Agnese».
«Scusi, ma come fa a conoscere il mio nome?» chiese lei in parte sorpresa e in parte spaventata.
«...il cartellino sulla valigia... Non volevo essere maleducato; io mi chiamo Matteo» e i due si strinsero la mano.
Il treno cominciò la sua monotona corsa facendosi breccia nella calura estiva, dai finestrini non entrava un alito di vento e ai lati della ferrovia file di alberi silenziosi si frapponevano tra il grigio dei convogli e l'azzurro intenso del mare.
Agnese e Matteo scambiarono brevi frasi tanto per aiutare il tempo a trascorrere e lasciare che vicendevolmente si conoscessero meglio: lei tornava a Torino dopo aver partecipato al matrimonio di un nipote e lui, marinaio di leva, si apprestava a trascorrere un permesso di ventiquattro ore in famiglia a Genova.
Il treno rallentò e alla stazione successiva, quella di Levanto, salirono una ventina di persone. Nel corridoio la gente cominciò a sfilare curiosando negli scompartimenti quanto all'improvviso si udì un tonfo fragoroso; un viso tenero e sorridente contornato da lunghi capelli neri arruffati fece capolino davanti allo scompartimento di Agnese e Matteo.
«C'è posto per me?» chiese la ragazza timidamente.
«Credo di sì, ma questo vagone è per non fumatori» rispose subito Agnese.
«Va bene, va bene... Io non fumo!».
Matteo rimase in silenzio, anzi in contemplazione: la ragazza indossava una minigonna vertiginosa che lasciava scoperte gambe lunghe e abbronzate.
«Ma non la aiuta a sistemare la valigia?» chiese Agnese al giovane marinaio quasi con complicità.
«Oh sì, subito...» rispose Matteo diventando rosso in viso e riponendo una pesante borsa aggiunse: «Ma guarda, ti chiami come mia cugina Giulia».
«No, vuoi scherzare?» disse la ragazza.
«Giuro!» rispose Matteo seriamente e posando la mano destra sul petto.
«Ma attacchi bottone sempre in questo modo, con la scusa dell'etichetta sulla valigia?» chiese Agnese sottovoce.
«Veramente mia zia si chiama davvero come lei!» rispose lui.
Nello scompartimento si cominciò a respirare un'aria diversa; il caldo appiccicoso di luglio svanì, il fresco profumo di Giulia si espanse e mentre i due giovani seduti uno di fronte all'altra si guardavano insistentemente, Agnese prese dalla borsetta un vecchio diario e si mise a leggere alcune pagine; come d'incanto un velo di malinconia leggero e impalpabile calò sul suo viso e sospirando fissò il mare.
Matteo, nella sua divisa linda, prese ad accarezzarsi nervosamente i corti capelli biondi e a lanciare sguardi d'intesa a Giulia. La ragazza, senza farsi pregare, andò a sedersi vicino a lui e cominciò a parlare di sé e della settimana trascorsa al mare in compagnia di una cara amica, il tutto accavallando con sapienza le gambe affusolate e rassettandosi con ampi gesti della mano destra la camicetta bianca generosamente aperta sul décolletté.
Agnese d'un tratto si riprese dal torpore che l'aveva colta e fu sorpresa nel vedere quanto velocemente i due giovani sapessero dimostrare reciproco interesse. Senza neanche rendersene conto la lancetta della sua memoria riandò a 30 anni prima, quando poco più che ventenne proprio come Giulia su un treno conobbe un marinaio.
Alberto (questo il suo nome) e Agnese si ritrovarono una sera per puro caso a Torino e decisero di cenare insieme in un ristorante che si trovava in una piazzetta pittoresca e un po' dimenticata della città. Mangiarono funghi e “vermi” e bevvero del porto. Nella penombra di quel tavolo ad angolo l'uomo le parlò della madre, vecchia contessa un po' mascolina, solida quercia, eppure tanto dolce con quel figlio speciale e romantico, ormai quarantenne ma fuori dal tempo, un po' Amleto e un po' Superman, che sapeva far apparire magica ogni cosa.
Attraverso le sue parole Agnese conobbe l'infanzia di Alberto vissuta nella grande casa di via Garibaldi a fianco di quella madre malata unica amica, il loro mondo fatto di intese, di parole dette e non, di dolore che giorno dopo giorno scavava piccoli solchi sui loro visi stanchi.
Agnese non poté fare a meno di considerare quanto fosse diversa da Giulia alla sua età. Non si chiedeva cosa fosse meglio o giusto, rifletteva semplicemente sul cambiamento e vedendo la ragazza ora seduta sulle gambe di Matteo provò solo tenerezza.
«Scendiamo alla prossima» propose con entusiasmo il ragazzo a Giulia.
«Qual è la prossima stazione?» chiese lei pacatamente.
«Rapallo. Un mio amico possiede una pensioncina tranquilla sul lungomare, potremmo passare lì la notte e ripartire domani mattina presto» disse Matteo sottovoce. «Romantico... Ti amo!» e lo baciò sul collo. Agnese, fragrante nel suo abito di fresco cotone e col cappellino di paglia di Firenze un po' fuori moda, fece finta di non aver sentito nulla, continuò a guardare fuori dal finestrino e intanto il cielo si coprì di nuvole minacciose.
«Buonasera signora».
«Oh ragazzi, scendete già?» chiese Agnese in tono quasi materno.
«Sì, buon proseguimento e... grazie di tutto» disse Giulia sorridendo.
«Arrivederci e auguri» aggiunse la donna.
E così il treno si fermò a Rapallo, i due giovani scesero e tenendosi per mano si avviarono verso l'uscita della stazione mentre cominciava a piovere. Agnese li seguì con lo sguardo, ma quasi subito dovette chiudere il finestrino perché l'acqua entrava nello scompartimento e un attimo dopo il treno ripartì alla volta di Camogli.
Non sapeva perché, ma si sentiva vicina a quei ragazzi, era come se li avesse già conosciuti eppure aveva scambiato solo poche parole con loro. Prese nuovamente il vecchio diario e, aperto nel mese di luglio appuntò: «Alberto, Agnese... nel tempo... Matteo, Giulia».
Sfogliando le ultime pagine Agnese ritrovò la trascrizione di un sogno avuto tre anni prima. Cominciò a leggere...
«...Alberto è davanti al mare.
«I lunghi capelli gli battono sul collo e nella mano tiene un piccolo sasso. Cammina adagio sulla sabbia trascinando il passo con languore felino, mentre ai suoi occhi calano già le tenebre. Il mare gli è amico col suo profumo forte e salato che egli assapora con pienezza, perché sa che domani non sarò più uguale. Tutto si rifà con la luce del giorno, ogni cosa cambia aspetto, noi stessi cambiamo interiormente, ma siano incapaci di raccogliere le uguali sfumature per uno stato d'animo diverso.
«Con gesto patetico Alberto butta il sasso in acqua, lo contempla smarrito roteare in aria, poi un piccolo tonfo e l'acqua si richiude su di esso. Cade in ginocchio sulla sabbia fredda e umida. Così, visto da lontano, affiora come uno scoglio indifeso. Piange e affonda il viso nella sabbia. Ora dorme e il mare lancia un boato, l'acqua lambisce i suoi fianchi, le onde gli fan da corona.
«Sparisce per un attimo, riaffiora e infine il mare amico lo accoglie nelle sue braccia. Lì ritrova il suo sasso... Nessuno bada al piccolo scoglio che il mare si riprende».
Agnese chiuse il diario e fu felice per un momento perché aveva ritrovato il “suo” marinaio: era da tempo che non pensava più a lui.
Guardò fuori: aveva smesso di piovere e nel giro di pochi minuti il treno arrivò a Genova.
«Mi scusi, da quale binario parte il diretto per Torino».
«Dal binario sette» rispose un controllore ad Agnese.
La donna si avviò al treno quando le si avvicinò un bambino.
«Signora, ha una sigaretta, per cortesia?».
«Cosa? Ma quanti anni hai, caro?» chiese inorridita Agnese.
«...dieci» rispose il ragazzino intimidito.
«Ma lo sai che non dovresti fumare alla tua età? Lo sai che è...».
«Ma non è per me, è per il mio papà!» si giustificò il bambino indicando un uomo sulla cinquantina poco distante che sorridendo guardava verso di loro.
«Oh scusami... Mi spiace...» farfugliò Agnese senza riuscire a finire la frase e ridendo salì sul treno alla ricerca di un posto a sedere.
Fuori da uno scompartimento un signore di mezza età con lunghi baffi neri e un modo di fare simpatico fece segno ad Agnese che lì avrebbe trovato posto e la donna, ringraziando, entrò.
Ripensando a quanto era appena successo riprese a ridere e le guance si colorarono di un rosso vivo che le conferì un aspetto buffo in contrasto col suo modo così austero di vestire. Guardandosi intorno si accorse che il tipo incontrato prima nel corridoio la stava osservando in modo inequivocabilmente interessato, ma ugualmente non riuscì a domare la sua ilarità e così si ritrovarono a ridere come vecchi amici: lei pensando alla figura fatta col bambino alla stazione di Genova e lui solo perché trovava contagioso il suo modo di ridere.
I due si presentarono ma, proprio mentre lui stava per sedersi accanto ad Agnese, il treno rallentò di colpo, Gino le cadde in grembo e invece di alzarsi subito, indugiò una mano...
Agnese sorrise. Si sentiva incredibilmente bene, più leggera e anche un po' desiderabile. Buttò sotto il sedile il cappello di paglia, aspettò il buio della galleria e si slacciò un paio di bottoni della camicetta troppo accollata, si tirò la gonna sopra il ginocchio, si ravvivò i capelli con le mani, accavallò le gambe con fare provocatorio e quando la luce del sole tornò nello scompartimento sembrò un'altra persona.
Gino, sorpreso e felice, sfoderò un grande sorriso, le lanciò sguardi di intesa e le propose di scendere alla stazione successiva.
Agnese venne colta dal panico, ripensò a Matteo e Giulia che forse in quello stesso istante si trovavano in una camera d'albergo e solo in quel momento realizzò cosa stava per succedere, ma trovato il coraggio necessario decise di relegare in soffitta i ricordi polverosi fuori da ogni logica di tempo che per anni avevano influenzato le sue scelte.
Nell'atrio della stazione si presero per mano e si avviarono senza fretta, ognuno con la sua valigia, verso un vicolo colorato pieno di bancarelle al fondo del quale trovarono un locale chiamato “L'antica locanda”. Entrarono e una donna grassa vestita in modo pacchiano li accolse.
«Volete subito una camera o preferite cenare prima?».
«Un tavolo per due» rispose deciso Gino.
Si accomodarono ad un tavolo vicino alla finestra e in silenzio mangiarono. In televisione trasmettevano Brasile-Italia e prima di salire in camera, mentre lui guardava la partita, Agnese andò a sedersi su un vecchio divano poco distante e cominciò a sfogliare un giornale; era di qualche anno prima e fra gli altri l'attrasse un articolo che parlava di uno sconosciuto rinvenuto su una spiaggia a 30 chilometri da quel paese.
Tutto le dimostrava che potesse trattarsi di Alberto, il “suo” marinaio: l'età presunta, la descrizione fisica... ma la cosa che più la impressionò fu che nella mano di quest'uomo venne trovato un piccolo sasso, proprio come nel sogno che Agnese ebbe tre anni prima.
Un'onda di emozioni indecifrabili la travolse e calde lacrime scesero sul suo viso, ma subito le asciugò col dorso della mano.
Ritrovando all'improvviso un po' di serenità si voltò verso Gino, lo guardò a lungo e poi posò nuovamente gli occhi sull'articolo che parlava di Alberto.
Buttò il giornale sul tavolino accanto al divano e andò a sedersi vicino al suo nuovo e inaspettato compagno di viaggio: Alberto aveva deciso di morire, Agnese no, voleva vivere!

Copyright © 1994

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