Racconto di Fiorella Borin
FIORELLA BORIN

Per puro caso

«È di una desolatezza tonificante - come un mattino invernale - patire un'ingiustizia (...). Mentre, soffrire per un puro caso, per una disgrazia, è avvilente».
(Cesare Pavese, «Il mestiere di vivere»)

Esistono libri che, cadendo, si aprono alla pagina sbagliata. Intendiamoci: per chi scrive non esistono pagine sbagliate - sono tutte, dalla prima all'ultima, necessariamente e irrinunciabilmente giuste. Ma diventano sbagliate per chi legge. Per chi, in un mattino qualsiasi, si dirige verso la libreria, fa scorrere sguardo e dito sui dorsi, allunga la mano riconsiderando titolo e autore e... ecco, succede. Succede che per un impercettibile errore, un'infinitesimale disattenzione, il libro che immediatamente precedeva o seguiva quello adocchiato, si animi di vita propria, e quella vita esprima in un sussulto, un'impennata ribelle, un tonfo sul pavimento. (Hanno orgoglio, le parole di carta.) Copertina bianca e blu, rilegatura sgangherata, diario di un uomo e di uno scrittore a mille lire - ma erano altri tempi, altra vita, altri sogni negli occhi - mille lire per quattrocento pagine che da venticinque anni Lorenzo non aveva più osato sfogliare. (Pigrizia? O, invece, paura?) E adesso, il destino.
Quando vuole, gioca duro, il destino.
Ma Lorenzo potrebbe salvarsi. Potrebbe chinarsi e raccattare quel libro senza soffermare lo sguardo su quella pagina, senza impietrirsi su quelle righe offerte alla platea di una stanza ingrigita dalla polvere e da interminabili silenzi. Potrebbe sottrarsi alla maledizione che lo porta a leggere due righe a caso - appena due, però quelle, le sole capaci di ferire come una stilettata. (Fuori, la luce di marzo è livida come una smorfia triste, incancellabile).
«22 marzo 1950. Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe esser morta. Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale».
Esistono parole messe in fila da un profeta crudele, o da un perfido stregone: formule magiche e pozioni affatturate, geroglifici d'inchiosto che sulla carta ballano e si ricompongono a sottolineare il batticuore, la gola secca, l'affanno. Emozioni ricacciate giù con rabbia, deglutite come un boccone amaro o una bestemmia (quanti anni? Cinque? Sette. O già otto, invece, ma sì: otto.), Lorenzo annaspa, alza gli occhi al soffitto, ma tra le ombre e le crepe e gli sfarfallii luminosi sono rimaste impigliate proprio quelle parole, così abbassa lo sguardo un'altra volta su quella pagina beffardamente giusta e intollerabilmente sbagliata. Otto anni lontano da lei, Grazia, la donna incontrata e perduta senza una ragione. Grazia: amore prodigo di baci e avaro di parole. Amore d'alberghetti di periferia e lenzuola stropicciate, amore d'ultima fila nei cinema frequentati da servette e militari; vecchie pellicole sottolineate da applausi, battutacce e crepitìo di scorze di castagne sotto i piedi; amore senza promesse di un domani, amore sciupato, gettato via con gl'incarti delle caramelle e la tracotanza di chi è convinto che la giovinezza non finirà mai.
Grazia. D'improvviso, il miracolo delle sue labbra palpitanti d'allegria, il suo rossetto chiaro, il suo odore di cipria e di donna. Si erano lasciati in un mattino di marzo, otto anni prima; pareva una giornata appena un po' più triste, solo un po' più buia di altre mille uggiose mattine di marzo. Stazione, binario, treno con le sue brave porte spalancate. Lui regge la valigia, ma sarà lei a partire. «Mi scriverai?» domanda lui; e lei, i gomiti sul finestrino abbassato, le mani intrecciate a sostenere il mento piccolo, appuntito, ancora da bambina, lei s'accalora: «Ma certo! Sarò la prima cosa che farò non appena arrivata alla pensione». «Ricordati di mettere l'indirizzo, altrimenti non saprò come rintracciarti». «Mi credi dunque così sciocca? Lo scriverò per bene, in stampatello, così non ti potrai sbagliare». «Promesso?» s'intenerisce lui, e allunga una mano verso di lei, le portiere scattano, e lei impallidisce, s'alza in punta di piedi, si sporge fuori del finestrino, il semaforo è verde, il capostazione impugna la bandiera, ha già in bocca il fischietto, lei sta per piangere: «Ti scriverò stanotte stessa!» dice, e lo dice piano, le due mani si stringono e lui sorride, sì sorride, lui che non sa, non immagina, non capisce.
Di nuovo quelle due righe.
«22 marzo 1950. Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe esser morta. Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale».
Otto anni così. Grazia. Una lettera mai giunta a destinazione. Succede così, alle lettere mai imbucate perché mai scritte. Il treno partiva e le mani si staccarono, lui zitto lei zitta, lei ritrasse piano piano il braccio e soffiò sulle dita l'ultimo saluto. Il pendente a forma di conchiglia che portava legato al polso dondolò sul vetro, fu un timido bussare a un uscio sbarrato, tin tin, tin tin, era il solo regalo che lui le avesse mai fatto, un ciondolo d'argento a rammentare la malìa di chissà quali spiagge, chissà quali canzoni di sirene e marinai. Il treno partiva, sonoro, arrogante, e si portava via, nel suo cuore segreto, colei che non avrebbe mai scritto e non sarebbe tornata mai più.
Lorenzo ha voglia di chiudere il libro e di sputare in faccia alla vita. Ma legge ancora due righe, altre due, nella stessa pagina, due righe a caso, altre due righe sbagliate.
«(...) perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla».
Nulla, ripete Lorenzo. E rimette il libro al suo posto, giurando a se stesso che non lo riaprirà mai più, perché c'è troppa sofferenza, là dentro, e troppo amore, e se la sofferenza e l'amore avessero un volto, sarebbe quello di Grazia.

Esistono treni che partono tutti i giorni. Stesso orario, stesso binario, stesso itinerario. Ciascuno di loro potrebbe essere il monumento all'eterna immutabilità della vita. Ordine e ripetitività, ovvero: assenza di sorprese, negazione di storie. Ma non è così. Ogni treno contiene, nel suo ventre di ferro, il seme della meraviglia. Basta saperlo riconoscere. Scegliere il vagone giusto, il posto giusto, il giusto compagno di viaggio. Scelta del tutto casuale, all'apparenza; eppure stabilita con matematica precisione dal mai sonnacchioso destino.
Ci sono mille motivi per decidere di prendere un treno. Un impegno di lavoro, la voglia di uno svago, il desiderio di fuggire da qualcosa che ci è venuta a noia senza prefigurarci gli oggetti che ci annoieranno una volta giunti a destinazione. E il treno si fa contenitore di sogni, di attese, di nulla.
Esistono mille motivi per perdere un treno. Un tassì che non arriva, una scarpa che si slaccia, un orologio che si guasta, una donna troppo bella, un bigliettaio troppo lento. Ma Lorenzo è già lì, accanto alla porta del suo treno. Ha il biglietto in tasca, l'orologio perfettamente funzionante, la valigia in mano e le scarpe puntigliosamente allacciate.
Basterebbe tirare il fiato e salire di slancio quei pochi gradini. Questione di un attimo. Ma non lo fa. Rimane lì, a guardare quel treno, quei viaggiatori che si cercano il posto, sistemano il bagaglio, spalancano i loro giornali, addentano i loro panini: uomini e donne dalle esistenze inimmaginabili.
Lorenzo resta lì, col suo biglietto in tasca e la valigia in mano.
E il semaforo diventa verde, il capostazione fischia e il treno parte.
«Prenderò quello di domani. Oggi no», dice fra sè Lorenzo, e s'inventa scuse, arzigogola giustificazioni, troppa nebbia, troppa gente, troppa stanchezza, troppo di tutto, insomma.
Esistono treni giusti e treni sbagliati.
Se Lorenzo fosse salito sulla carrozza numero sette, avesse davvero occupato il posto 36 non-fumatori (come da prenotazione), avrebbe capito la differenza che c'è fra il caso e il destino. Avrebbe riconosciuto, a dispetto degli anni e delle smemoratezze, le labbra - quelle labbra - che sapevano d'allegria e di baci; avrebbe riconosciuto quegli occhi che non assomigliavano agli occhi di nessun'altra donna; e soprattutto avrebbe riconosciuto quel braccialetto, quel ciondolo a forma di conchiglia che da otto anni teneva compagnia a Grazia, che per otto anni aveva atteso invano la risposta di Lorenzo a quella lettera imbucata con il cuore in gola e tanti sogni addosso. Quella lettera che s'era perduta chissà dove, perché, quando vuole, gioca duro, il destino.

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