Racconto di Fiorella Borin
FIORELLA BORIN

Ometto

Me ne stavo pacifico e beato in cucina, inzuppando biscotti nel caffelatte, quando entrò papà. Era vestito bene, in giacca e cravatta, benché facesse caldo - era estate, la fabbrica chiusa (e la scuola pure).
«Non hai ancora finito di fare colazione, Tonino?» mi domandò con la faccia seria.
«Che fretta c'è?» risposi continuando a masticare quella prelibatezza; le vacanze servono a fare tutto con calma e, meglio ancora, a non fare niente. Giocare, mangiare e dormire: nient'altro.
«Spicciati, Tonino. Fra mezz'ora comincia la manifestazione, e vorrei portarti con me. Sei o non sei un ometto? Non è forse vero che sei stato promosso in seconda elementare? E allora! Dacci sotto, con quella tazza; tutto in un sorso, dai!».
Lo fissai diritto negli occhi. Quando si rivolgeva a me dandomi dell'«ometto», bisognava stare in guardia: tutto ciò che comincia con un complimento, va a finire con una fregatura. Gli ometti devono subire programmi culturali dannatamente noiosi, oppure devono impegnarsi in lavori faticosissimi, e sopportare le iniezioni senza piangere. Sbarrai gli occhi: «Quale manifestazione?» balbettai.
Papà gonfiò il petto. «Il comizio e il corteo pacifista, figlio mio».
Tirai un sospiro di sollievo. «Ah, meno male!».
«Perché meno male?».
«Beh, vedi... Per un attimo avevo temuto che... Tutto dipende dal fatto che a scuola c'insegnano tutte quelle poesie, e così...».
«Tonino! Si può sapere perché mi fai perdere tempo? Finisci il latte, concludi il discorso e vatti a lavare. Obbedisci a tuo padre, che vuole essere orgoglioso del suo ometto», esclamò radioso; poi corrucciò la fronte: «Scusami, ma cosa intendevi dire con quell'accenno alla scuola e alla poesia?».
«Il fatto è che manifestazione fa rima con iniezione e allora...».
Persi il controllo del biscotto, che piombò nella tazza; lo schizzo mi lavò la faccia e rese molto più interessante la cravatta di papà.

La piazza era gremita. Vedevo tante scarpe e tanti pantaloni e tante borsette i cui spigoli erano inspiegabilmente attratti dal mio naso; doveva certamente trattarsi della famosa «selva oscura che la diritta via era smarrita» di cui avevo sentito parlare alla tivù. Di tanto in tanto papà mi sollevava afferrandomi sotto le ascelle, in modo da farmi lanciare un'occhiata all'uomo sul palco che parlava dentro una specie di trombone grigio; il trombone gli faceva venire una voce più potente di quella del parroco durante la messa, e tutta la gente stava zitta un minuto e poi batteva le mani, poi si rimetteva zitta e composta e dopo un minuto ricominciava a strillare «bene! bravo! giusto! lui sì che ha ragione!».
In quei momenti tutti si agitavano e io dovevo stare attento a schivare non solo le borsette, ma anche i gomiti e gli ombrelli che i miei vicini levavano in alto e poi facevano atterrare in basso, bersagliandomi i piedi. Così, non appena si scatenava l'entusiasmo popolare, io attaccavo a girare la testa per evitare le borsettate, a saltellare per non essere centrato dai puntali, a roteare il busto per non soccombere data la soverchiante superiorità numerica di gomiti e corpi contundenti vari.
«Insomma, Tonino! Stà un po' fermo, perbacco!» era l'incoraggiamento che mi proveniva da papà. E non appena provavo ad aprire bocca per esporgli i miei problemi, subito i commendatori e le befane si giravano verso di me, facevano la bocca truce e: «Ssst! Sta' zitto, bambino, ché non ci fai capire niente!». «Lo scusino, signori», interveniva papà «ma ha solo sette anni, non potete pretendere...». «E taccia anche lei! Dia l'esempio, no?» lo rimbeccavano subito i cavalieri pacifisti, e via così, per una mezz'ora buona.
Cosa ricordo, di tutto quel parlare nel trombone? Beh, non tanto, ad essere sinceri. Qualche frase però riesco a riferirla bene: «...e che sia unanime la scelta di dire no alla violenza e a qualsiasi intervento che richieda l'uso della forza... dobbiamo dire sì alla vita, oggi domani e sempre sì alla vita e BASTA alla guerra, BASTA alle percosse, alle torture, BASTA alla sopraffazione dell'uomo sull'uomo, BASTA alla prepotenza dei molti sui pochi... perché non è mai legittimo, MAI ribadisco MAI, il ricorso allo scontro fisico: non c'è motivo al mondo che possa autorizzarlo, né oggi né domani né mai... Armiamoci di ragionevolezza e di parole: siano queste le nostre corazze e le nostre spade, sì queste e nient'altro che queste: parole di PACE!».
S'intende che tra una frase e l'altra, al posto dei puntini andavano messi gli applausi e le espressioni d'entusiasmo che debordavano incontenibili dai convenuti tutti.
«Quando finisce la manifestazione, papà?».
«Abbi ancora un po' di pazienza, Tonino...».
«Siamo noi che dobbiamo avere pazienza, sa?! Suo figlio è stato un vero tormento: mai fermo un istante!». «Una tarantola, un indemoniato!». «Certo che è una bella disgrazia avere un figlio maleducato come il suo!» rincaravano la dose i miei soavi vicini, mentre io riflettevo preoccupato sul mio futuro di ometto.
In quel preciso momento, all'oratore balenò la Grande Idea. Non un'ideuzza o un pensierino, no. Proprio la Grande Idea.
«... E ora, per concludere degnamente questa giornata di festa dedicata ai valori più sublimi dell'Uomo che sono l'amicizia universale e la tolleranza reciproca, vorrei proporvi un'azione altamente dimostrativa...».
«Sì!». «E quale?». «Diccela!». «Tu parla e noi fermo!».
«Ebbene!». L'oratore si schiarì la voce nel trombone, ne uscì un barrito a cui seguì l'esposizione della Grande Idea: «Che ne direste d'attaccare sul portale della chiesa lo striscione con la scritta “SIAMO IL PARTITO DELLA PACE?”. Gridatelo tutti il vostro sì».
Mi tappai le orecchie, e feci bene. La selva oscura fece più baccano di qualsiasi «curva sud» all'ultimo campionato. Un boato, un finimondo, un centrifugare di borsette, un girandolare di ombrelli, una raffica di gomitate e un parapiglia di pestoni sui miei alluci di ometto.
«Andiamo!». «Sì! Alla chiesa! Alla chiesa!». «Al campanile!». «Sì! E anche alla canonica!». «Siamo il partito della pace!». «Tutti per la pace!».
Così, nostro malgrado, senza camminare, senza neanche provarci, io e papà ci trovammo ad essere trasportati dalla folla smaniosa di pace, giusto sul sagrato della chiesa. Il parroco non c'era. «A colloquio dal vescovo», spiegò qualcuno. «Al capezzale di un ammalato», delucidò un altro. «In gita in bicicletta», malignò un altro ancora. «Abbiamo campo libero», dedussero tutti, e i più atletici presero la rincorsa e sferrarono l'attacco alpinistico alle colonne che abbellivano la facciata. Con entusiasmo e perizia, scrissero i giornali l'indomani; con molti scivoloni e parolacce, notai io, e ritenni fosse la parte migliore dell'intera manifestazione pacifista.
Lo striscione fra i denti, le corde arrotolate sotto le ascelle, gli improvvisati scalatori salivano, salivano, inarrestabili continuavano a salire, avvinghiati alle colonne, quando...
«Fermi là!».
Silenzio. Improvviso, glaciale, un silenzio di tomba. Mi accucciai, e a quattro zampe superai zigzagando la barriera nemica di pantaloni, ombrelli, bastoni da passeggio e borsette dagli spigoli feroci.
«Ho detto: fermi là».
Era lo zio Peppino, il sacrestano. Ero in prima fila, adesso. Gli sorrisi, gli feci «ciao» con la mia mano di ometto. Ma lui non si accorse di me. Puntò il dito contro gli arrampicatori prossimi alla meta e: «Scendete giù subito. Appiccicate dove vi pare i vostri stracci, ma non su questa chiesa. Avete capito?», disse tirando fuori tutta la voce che aveva tra le costole e nel cuore. Tremava di rabbia. O forse era paura, invece. Rabbia e paura, sì. Ma anche tutto il coraggio dei suoi settantadue anni, il coraggio del piede perduto nella guerra in Russia, il coraggio dell'artrite alle mani, il coraggio di essere solo davanti a tutti.
«Torna a casa, Peppino, e lasciaci fare!. «Vattene, scemo!». «Non ti immischiare, vecchio rimbambito!» «Cosa vuoi saperne, tu, del pacifismo?».
Le voci si erano alzate, stridule, torve, minacciose. Gli scalatori fecero spallucce e ripresero ad attaccare l'ardua parete, certi della vittoria.
«Il parroco non c'è - continuò lo zio - e dunque sono io, adesso, il custode di questo edificio, che è - per quanti se lo fossero scordati - la casa di Dio. E a Dio interessano le anime, non i partiti».
«Ma è una scritta pacifista, idiota!», strillò l'oratore dentro il suo trombone.
Ma anche senza trombone, tutti udirono la voce dello zio Peppino: «A Dio interessano le opere, non le parole. Le parole che contano, sono già tutte scritte nei libri che leggiamo in chiesa. Bastano quelle. Non c'è bisogno delle vostre».
Abbassai il capo, chiusi gli occhi. E feci bene, perché mi fu risparmiata la vista della scena che seguì. Udii un gran trambusto, passi concitati, spinte, strattoni e, da ultimo, un gemito a stento soffocato.
E poi, di nuovo, quel silenzio che mi faceva venire voglia di piangere.
Riaprii gli occhi.
Lo zio Peppino barcollava sulle sue gambe secche, e si premeva una mano sul naso. Qualcuno doveva avergli dato un pugno. Con l'altra mano brancicava la tasca dei calzoni, in cerca del fazzoletto. Tremava tutto, ma non era paura. E neanche rabbia. Solo stupore: dignitoso, antico, muto.
Fu allora che mi decisi. Un passo, un altro, un altro ancora. Arrivai sino a lui. Gli porsi il mio fazzoletto: «C'è una caramella, lì dentro. Puoi mangiarla tu, se vuoi. E alla fragola, spero che ti piaccia». Dissi solo questo, nient'altro che questo. Non mi parve un gran che, come discorso. Ma bastò a fare scendere gli scalatori, a fare andare via tutta quella gente, compreso l'uomo col trombone. Lo zio si appoggiò alla mia spalla, il mio fazzoletto premuto sul viso, e: «Accompagnami a casa, Tonino», mormorò. Mi strinsi a lui e sorrisi: la sua bocca aveva il profumo dolce delle fragole. «Sei davvero un bravo ometto», aggiunse, rovinando tutto.

Copyright © 1995

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