Racconto di Bernardo Bovis
BERNARDO BOVIS

Vacanza nella Valle delle Fate

Per anni, forse per il timore di andar incontro a un'amara delusione, avevo sempre rinviato il mio ritorno alla valle natia, chiusa fra monti impervi e colline, dove, in una radura di bosco, fra alberi secolari, si diceva che dormisse la Primavera, vegliata da un corteo di gnomi e fate, in attesa che giungesse, a ridestarla, il primo conto del cuculo. A decidermi finalmente a trascorrervi un periodo di vacanza, allo scoccare dei 70 anni, fu un incontro imprevisto avvenuto sul lungofiume, nell'ora, in cui, al mio paese natio, le lucciole accendono i loro fanalini sui prati falciati di fresco e qui, in città, altre «lucciole» vanno incontro alla notte, lanciando i loro richiami.
Me ne stavo seduto su una panchina, intento a veder scorrere ahimè intorno la vita, quando avvertii la strana sensazione che si prova, quando ci si sente osservati. Poco lontano, una passeggiatrice, truccatissima in volto, mi stava fissando, facendo ondeggiare la borsetta, le labbra increspate in un ironico sorriso: «Non mi riconosce? No, eh! Non può certo riconoscere in me la mocciosa d'un tempo, quell'Amarilli, che tremava quando doveva venir interrogata e le faceva trovare sulla cattedra mazzolini di bucaneve o di narcisi».
Quanto la rivelazione m'avesse sconvolto dovette apparire in me così evidente che la mia interlocutrice ghignò: «Così va la vita, caro professore. Quell'Amarilli, che arrossiva per un nonnulla, non c'è più. Kaputt! È morta e sepolta, da quando ho lasciato quel mortorio di paese e sono venuta in città. O forse l'Amarilli, che lei conosceva, l'ho lasciata lassù e, se mai ci tornasse, le può accadere d'incontrarla. In tal caso, me la saluti».
Mentre la ragazza se ne andava portando con sé nel buio l'eco affievolita delle sue risate, io rividi come in un baleno la soave creatura che era stata, dai capelli aureolati di sole, dagli occhi di cielo, che sgambettava, strillando, come una piccola selvaggia, dietro un volo di anatre selvatiche.
Così l'ho presa in parola e sono tornato nella valle dell'infanzia e della prima giovinezza, alla ricerca del mio tempo perduto. Ho ripercorso i sentieri fra il verde, di cui da bambino conoscevo ogni segreto, ho ritrovato il muretto aprico, dove si potevano cogliere le prime fragoline selvatiche e la proda fiorita di giunchiglie, dove, ai piedi d'un altro pioppo, compitai per la prima volta le magiche parole della prima declinazione latina: rosa-rosae... puella-puellae, quando già ben conoscevo le rose, ma non ancora le fanciulle. Ma non ho più ritrovato quello che era stato il luogo più incantato della mia infanzia: la radura delle fate, dove si diceva che giacesse addormentata la Primavera, come la bella principessa della fiaba omonima.
Quella radura odorosa di muschio e frusciante di felci non esiste più, come più non esistono che le rovine del mulino dei nonni di Amarilli. Provo una fitta al cuore sostando accanto alla sua ruota immobile e corrosa dalla ruggine e accanto a quella che era stata una gora dall'acqua limpida, dove, fra voli di anatre e guizzare di trote, la mia alunna mi apparve come una piccola ninfa delle sorgenti ed ora non è più che una grande buca fangosa e viscida. Ho invece riscoperto, a metà collina, là dove le chiome degli alberi rivelano il cielo, il luogo che fu teatro di tanti miei giochi e in cui, un indimenticabile pomeriggio, ruzzolando coi compagni fra i cespugli, avvertii con un turbamento fortissimo il sentore e l'afrore del corpo di Anna, colei che mi avrebbe dischiuso l'accesso a un mondo dolcissimo e inquietante sin allora a me precluso. Il ricordo di lei, della sua bellezza prorompente, di Anna, inafferrabile e irraggiungibile, poiché chiusa in una sua dimensione segreta, di cui non potei mai varcare la soglia, non mi dà pace... Ho visitato, nel piccolo cimitero, le due tombe, vicine, di Anna e di Germano, i due innamorati rimasti vittime - a quanto avevo appreso da una scarna notizia di cronaca - di una sciagura in montagna, che presentava non pochi lati oscuri, negli ultimi giorni di guerra. Di fronte ai due volti, che sembrano fissarmi dalle lastre di marmo, l'interrogativo su quanto di misterioso avvertivo celarsi in quelle morti, riemerge in me più forte che mai. La gente, da me interrogata sull'argomento, è estremamente evasiva e le sue risposte non vanno al di là della formula di rito, con cui liquidano ogni mia ulteriore domanda: «Che terribile disgrazia fu quella!».
Sarà il becchino, il quale è sempre lo stesso, che dava sepoltura ai morti negli anni della mia giovinezza, anche se, ormai vecchio cadente, è coadiuvato da un ragazzo, a fornirmi un utile consiglio, abbordandomi una sera sul cancello, che delimita il suo “regno”: «Perché, invece di far tante domande in giro, non fa una scappata sino alla Baita Grande? Lassù vive ancora il nonno di Anna, Zaccaria. Ci vada, ma non dimentichi di portargli un goccetto, il che servirà a sciogliergli la lingua. E me lo saluti, quel povero vecchio!».
E mi fornisce le indicazioni necessarie a raggiungere la località, dal che arguisco che non mi ha riconosciuto: «Si trova lassù - e mi indica un punto della montagna di fronte - nella conca del Padur, dopo il grande crocifisso di legno, subito al di sopra della “Parete degli amanti”, come da allora viene chiamato lo sciagurato spuntone roccioso, ai piedi del quale i corpi dei due sono stati raccolti».
Ed eccomi, un bel mattino, affrontare la mulattiera, che taglia il paesaggio delle mie dolci colline, verdi di prati, i quali sono tutto un frinire di grilli, per addentrarsi in un'abetaia, dove, dalle pigne croscianti sotto i passi, emana un acuto sentore di resina, e sboccare infine nella conca del Padur risonante il tintinnio dei campani delle mandrie. Non mi sarà possibile scordare, nei ritagli di vita che mi restano, l'accoglienza che mi fu tributata alla baita, dal vecchio Zaccaria, il quale mi riconobbe immediatamente e, tra una sorsata e l'altra, finì per rivelarmi l'atroce verità sulla morte di Anna e di Germano, il suo promesso sposo. Rivivo la scena. Sulla montagna, nera come la pece, si sta scatenando un furioso acquazzone e il rombare dei tuoni fa sussultare la baita, mentre il bagliore dei lampi mette a nudo il volto del mio ospite, che si direbbe intagliato nel legno di uno degli alberi del bosco. Tenendomi le mani, l'uomo esplode, come se attendesse da tanto quel momento.
«È giusto che anche lei sappia quello che in paese conoscono anche le pietre, anche se in proposito sono tutti muti come sassi».
Zaccaria si nasconde il viso fra le mani, riattizza il fuoco, proseguendo poi con voce piena d'angoscia: «Erano tempi tristi quelli, tempi terribili. Quanti morti insanguinarono i nostri monti in quegli anni feroci! Il paese era spaccato a mezzo: da una parte c'erano i partigiani, alla macchia, tra le cui file si trovava la maggior parte dei compagni e degli amici di Anna, compreso Germano, e dall'altra stavano quelli che avevano aderito alla repubblica di Salò, fra cui non mancavano antichi compagni di quella mia povera creatura, la quale sembrava ignorare la triste realtà, sorda ad ogni invito alla prudenza».
Le parole del vecchio mi rivelano un'Anna ben diversa da quella da me conosciuta, timida e riservata, tanto da vedersi attribuire dai compagni di liceo il nomignolo di “Gelsomino notturno”. Quella che emerge dalla rievocazione è lontana anni luce dalla fanciulla che io avevo amato, una creatura estroversa, solare, impulsiva, ardente, fiduciosa, che, come divorata da una febbre di vita, sembrava divertirsi a sfidare il pericolo e la morte. Benché fosse la fidanzata di Germano, il quale si era buttato anima e corpo nella Resistenza, Anna aveva continuato a intrattenere rapporti cordiali con un suo antico compagno, arruolato nella Guardia Nazionale Repubblicana.
Il vecchio ora tace, assorto nei suoi ricordi, poi, con voce rotta dai singhiozzi, racconta: «Ci fu uno scontro terribile proprio quasi nella conca del Padur. I repubblichini avevano individuato la zona dove si trovava la formazione di Germano, e lui solo e pochi altri, riuscirono a salvarsi. Qualcuno venne poi a riferirmi giù in paese che la mia Anna, che non vedevo da due giorni, era stata prelevata da tre partigiani ed era stata condannata a morte come colpevole di tradimento. Unico indizio contro di lei, che aveva continuato a proclamarsi innocente, era stato l'essere stata veduta, nei giorni precedenti lo scontro, intenta a parlare, sulla piazza, con un milite, il quale era stato un suo antico spasimante. Era un particolare irrilevante, ma in quei tempi da lupo si dava corpo anche alle ombre. Seppi che Germano stesso, benché fosse certo della sua innocenza, non riuscì ad evitare l'assurda sentenza. E chi avrebbe potuto e dovuto far riconoscere l'innocenza della ragazza, scagionandola, col rivelare la vera fonte dell'informazione, tacque, rendendosi così complice di quell'orrore. Ecco perché ho preso ad odiare il mio paese, quella tana di vipere, e ad evitare anche quei miei cosiddetti amici, che non mi informarono della cosa che a tragedia ormai avvenuta».
L'uomo mi indica l'uscio squassato dalle folate di vento, che sembrano portare sino a noi i gemiti di anime senza pace e sussurra: «Ha sentito? Quelli - dice la gente - sarebbero i lamenti di Anna e di Germano, che, non potendo vivere uniti, hanno deciso di morire insieme. A raccontarmi com'erano andate esattamente le cose fu Lupo, un partigiano amico di Germano. La ragazza, giunto il momento dell'esecuzione, aveva chiesto e ottenuto che fosse il suo uomo ad eseguire la sentenza e Lupo, a cui era stato ordinato di seguire i due, li aveva visti salire verso la sommità della parete e, là giunti, sparire, tenendosi per mano, oltre il ciglio, come inghiottiti dall'azzurro».
Quella fu un'estate di temporali frequenti. Anche quando, a bordo dell'autobus, feci ritorno in città, una pioggia scrosciante tamburellava sull'automezzo e il cielo delle mie dolci colline era solcato da giganteschi lampi, nei quali rividi per un istante le “lepri di fuoco” delle mie fantasie infantili. Nell'andarmene da quella che era stata per me la valle delle fate, sapevo che ci avrei fatto ritorno, poiché una zolla di terra benedetta mi attendeva, per il mio ultimo sonno. E sapevo che, in sogno, avrei rivisto il mio caro “Gelsomino notturno” al centro della radura delle fate, nella parte della Primavera addormentata.
Ma le fate dal viso luminoso di sole dei miei sogni infantili non le avrei più riviste, da quando, toltasi la maschera ridente, quell'estate, mi avevano rivelato il loro vero volto: il ghigno spaventoso di Medusa, il viso agghiacciante del fato.

Copyright © 1995

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