Racconto di Nica Vidotti
NICA VIDOTTI - Nota sull'autrice

Riassunto da:
«Il mio compagno non c'è più»

Domenica, 13 maggio 1951. Era una bella giornata di sole primaverile, che ti metteva addosso una voglia di correre e di cantare. A me, carattere socievole e sbarazzino, una tal giornata non poteva che accrescere il buonumore.
Stavo andando con zia Endi e zio Rino a casa di altri zii (Lia e Lino), che davano una festa per la prima comunione dei loro due figli. Dopo i vari saluti e i convenevoli d'uso, mi venne presentato un ragazzo che avevo già notato entrando. Era figlio di compaesani di zia Lia che, come lei, erano arrivati dalla Carnia molti anni addietro.
«Voi due stareste proprio bene assieme! Siete alti, una bionda, l'altro bruno...».
Era la voce di zia Endi, che unendo i fatti alle parole, mi spingeva vicino a Zeno per dimostrare che aveva ragione. Sì, eravamo tutti e due alti, però l'altezza non giustificava la buona intenzione della zia, e dopo un momento di imbarazzo, fingendo di non aver raccolto, io mi volsi a parlare con altri parenti e Zeno con i suoi amici. Forse opera di quella mia zia? A tavola ci ritrovammo seduti vicini e capii che a lui non dispiaceva. Prima del pranzo, in mezzo a tutta quella confusione di gente, io non avevo più pensato all'accostamento fatto da zia Endi, ma ora mi dicevo: “Meglio lui di qualche altro parente”, che di giovani eravamo in minoranza.
Mangiando e chiacchierando ci riuscì facile socializzare. Zeno era schietto e nello stesso tempo arguto, aveva un ricciolo ribelle che non riusciva a stare con gli altri e che gli dava un'aria simpaticamente birichina. E poi scoprivo che era anche un bel ragazzo, e quei suoi occhi grandi e scuri mi dicevano che doveva essere di animo buono. Cominciava a piacermi ed anch'io non dovevo essergli indifferente, visto che per tutto il giorno non si allontanò più da me.
Alla sera avvisai zia Endi e zio Rino, che non sarei tornata a casa con loro, mi avrebbe accompagnata Zeno. Con lui mi trovai subito a mio agio. Era piacevole camminargli accanto, né mi ritrassi quando mi passò un braccio attorno alle spalle. Avevamo deciso di fare un po' di strada a piedi prima di prendere il tram che ci avrebbe portati verso casa. Così, strada facendo, ci trovammo in un angolino buio, nascosto e galeotto. Un bacio? Due? Non li contammo, ma furono quelli che ci legarono per sempre.
Benché abitassimo distanti, riuscivamo a vederci quasi tutti i giorni. Era l'amore con la A maiuscola, e la cosa più bella era l'essere sicuri che tutti e due desideravamo una sola ed unica felicità.
Il 5 ottobre del 1953 coronammo il nostro meraviglioso amore unendoci in matrimonio, ma ancor più uniti ci trovammo con la nascita della nostra prima figlia avvenuta il 5 ottobre del 1956. Lui dice che è bella, che gli piace; so che desiderava un maschietto, ma il suo non era un pregiudizio, va bene così.
Padre e figlia si adorano. Quando si fa grandicella la bimba lo aspetta in cima alle scale al suo rientro dal lavoro. Lo vedo salire i gradini, con quelle sue gambe lunghe, a tre a tre, per abbracciare più presto quel cosino che lo chiama pà.
Poi il suo lavoro lo porta ad andare all'estero, e per noi comincia una lunga separazione destinata a durare per una ventina d'anni; in questo lungo lasso di tempo riusciamo a stare insieme solamente due o tre mesi all'anno e questo non giova ad alcuno dei tre. La bambina non sopporta più di essere influenzata da un padre che vede poco, e io vivo con la speranza di non vederlo andar più via. Ma poi, vedendolo entusiasta della propria carriera, mi manca il coraggio di fermarlo. Anche Zeno, ad un certo punto, sente la necessità di dire basta a quella vita, di starci più vicini. E lo sente ancor più ora, che è in arrivo un altro bimbo.

23 gennaio 1967. Questa volta è un maschietto. Siamo un po' maturi, sulla quarantina, ma non per questo meno entusiasti. Che cosa ci manca di più? Gli alti e i bassi della vita, come capita in tutte le famiglie, le malattie dei bimbi e le loro esigenze, qualche screzio fra marito e moglie (e chi non ne ha avuti col proprio partner?). Sì, tutto questo è successo anche per noi e lo abbiamo condiviso nel bene e nel male. E la vita scorre via veloce, i figli si fanno grandi, a noi si fanno i capelli grigi, ed è ora di fermarci, di tirare un respiro di sollievo dopo tanto lavoro, di assaporare gli anni della pensione.
Settembre 1987. Siamo in Spagna. Due sessantenni ancora pieni di vitalità che vogliono godersi una bella vacanza. Zeno ha scelto il nord della Spagna perché vi sono dei paesi bellissimi e delle spiagge enormi e incontaminate, proprio come le ricordava quando vi era stato vent'anni prima. È la vacanza più bella della mia vita! I figli sono oramai sistemati e noi due siamo di nuovo soli per noi stessi. È una cosa bella e dolce. Ci ritroviamo dopo tanti anni più uniti che mai. Scopriamo quasi di non esserci conosciuti abbastanza. È la vacanza che ricorderò con tenerezza e con rimpianto. Luglio 1988. Zeno non sta bene. A parte un po' di diabete, che teniamo a bada con le pastiglie prima del pranzo, gli è venuto un fastidioso dolore alla gamba destra che lo fa camminare male. Sciatica, ha detto la dottoressa. Iniezioni e pomate sembrano avere effetto sul male ed a settembre ripartiamo per un'altra vacanza. Zeno ha intenzione di attraversare la Francia e di condurmi in Irlanda. Dice che vi sono dei prati verdissimi e dove, vent'anni prima, la gente del posto non chiudeva a chiave l'uscio di casa e si offendeva se gli stranieri chiudevano le porte delle loro macchine.
Là, sulle bianche scogliere, lui aveva intavolato una burrascosa chiacchierata coi gabbiani, padroni assoluti del luogo. Purtroppo la stagione non era favorevole e, poiché viaggiavamo sotto a delle piogge torrenziali, decidemmo di fermarci a visitare la Savoia.
Pensavamo di avere ancora qualche anno per realizzare ciò che non eravamo riusciti a fare in quel momento, ma al rientro a casa il dolore alla gamba di Zeno si fa di nuovo forte. Facciamo delle radiografie. La quarta e la quinta vertebra sono danneggiate. Un altro medico ci dice che sono ernie del disco e la stessa prognosi ci viene confermata da un altro professore. Bisogna operare, non c'è altro mezzo, e lui ormai cammina con le grucce. Anche la vista e l'udito si sono indeboliti.
Siamo ai primi di gennaio del 1989. All'ospedale C.T.O. di Torino ci dicono che l'operazione è urgente, ma che bisogna aspettare che si liberi un letto. Dopo aver aspettato vanamente per un mese quel posto, tentiamo in un altro ospedale. Al Maria Adelaide ci sentiamo dire che non avremmo dovuto aspettare che si arrivasse a quel punto, e lo ricoverano d'urgenza per l'operazione.
Zeno entrò in ospedale con tanta paura addosso: era la prima volta che vi entrava come ammalato. Paura per l'operazione, paura di rimanere menomato, paura che non gli stessi vicino. Un male così doloroso e tanto inaspettato, che lui di rado aveva avuto bisogno del dottore. Lui, che era sempre stato un uomo robusto e pieno di forza, ora era diventato l'ombra di se stesso.
La mia montagna, come lo chiamavo scherzosamente, pareva crollare. E questo era per lui un vero trauma.
Le analisi necessarie per l'operazione e per abbattere il diabete durarono circa quindici giorni, finché i medici gli dissero, che per poterlo operare, bisognava fargli prima delle cure per delle ombre che avevano riscontrato nella schiena. Quando Zeno me lo disse mi allarmai, ma cercai di non farglielo capire vedendo che lui aveva tanta fiducia nei dottori che lo curavano. Speravo che le mie paure fossero infondate, ma poi un medico mi chiese se non avevo ancora capito quale era veramente la malattia di mio marito. Non so come trovai la forza di rispondere che senza conferma la speranza era che non fosse vero.
«Cristo! - quasi gridai a quel medico. - Mio marito ha solo sessant'anni e tanta voglia di guarire!».
Mi si consigliò di non farlo capire. Al Maria Adelaide sarebbe rimasto ancora qualche giorno poi lo avrebbero portato alle Molinette per ulteriori esami.
Il 21 marzo entravamo alle Molinette nel reparto polmotoracico. Se il tumore fosse stato benigno, con un intervento si sarebbe potuto estirpare, altrimenti avrebbero deciso quegli altri medici cosa si poteva fare. Tutta la comprensione e la gentilezza riscontrata al Maria Adelaide, alle Molinette non esisteva. Dottori scontrosi e personale carente. Si aveva la sensazione che i problemi degli ammalati fossero delle utopie da non tenere in considerazione.
Nell'avvicinarsi della Pasqua i dottori cercavano di sfoltire il numero degli ammalati che, secondo loro, non necessitavano di cure, e il venerdì santo la caposala mi avverte che il professore mi vuole parlare. Vado nella sala riservata ai medici, il professore è lì, ma non mi degna di uno sguardo. Dopo circa dieci minuti di imbarazzo e di tensione, un medico mi si avvicina e senza preamboli mi dice che mio marito viene dimesso quel giorno stesso. «Se lo porti pure a casa che per lui non c'è più niente da fare».
Dal tumore al polmone destro, con un'altra tac, erano risaliti alla testa già piena di metastasi. Mi prescrive delle fleboclisi e due applicazioni al cobalto per fermare le metastasi.
Ero annientata a tal punto che uscii da quella camera senza la pur minima reazione, senza chiedermi come avrei fatto ad assisterlo, lui che peggiorava di giorno in giorno, e questo lo avevano visto anche i medici se ora gli prescrivevano le flebo.
A Zeno dissero che non aveva bisogno di essere operato e che poteva curarsi da casa propria. Si rivelò subito difficile trovare un dottore che venisse a casa per iniettare l'ago per la flebo e peggio ancora il trovare il medicinale prescritto (confezioni apposite per ospedali).
Tra degenze in ospedali, esami, prelievi e ansie, Zeno continuava a peggiorare. In lui rimaneva solo la speranza di guarire, ma non la forza per aiutarsi. Il male gli toglieva la voglia di nutrirsi. Tramite ambulanza lo feci portare alle Molinette per la prima applicazione di cobalto. Lo prelevarono direttamente con la barella, le gambe non lo reggevano più. Al ritorno sembrava aver ricevuto un po' di energia ma nel pomeriggio ebbe un collasso. Telefonai al dottore temendo che non sarebbe arrivato in tempo per aiutarlo.
Si riprese, ma rimase completamente senza forze. La flebo giornaliera non bastava da sola a sopperire al fabbisogno di cibo e di acqua. Ormai lui era talmente debole, che il suo stomaco rifiutava persino i liquidi. Spiaceva riportarlo in qualche ospedale ma anche il dottore convenne che non si poteva lasciarlo deperire oltre e si interessò per il ricovero.
Verso metà aprile entravamo al San Giovanni Bosco. Con l'ago per le flebo Zeno ci stette un mese e mezzo senza mai lamentarsi, tanta era la fiducia che riponeva in tutti quelli che si prodigavano per aiutarlo a guarire. E poi c'ero io che gli stavo vicino giorno e notte e che gli facevo tutto quanto aveva bisogno. La gamba destra era ormai inerte ma continuava a fargli male. Lo portarono alle Molinette per la seconda applicazione di cobalto. Questa volta ne risentì meno grazie alla somministrazione di calmanti prima della partenza, ma dopo pochi giorni i capelli divennero color cenere e cominciarono a staccarsi a ciocche.
«Ma poi mi ricresceranno?», mi chiedeva lui. «Certo! Ma anche così sei mica brutto!», rispondevo io pensando che mai più avrei passato le mani fra quei riccioli che tante volte avevo accarezzato. Quante bugie dovevo dire e anche col sorriso fra le labbra.
Un giorno mi assentai per un paio d'ore e quando tornai mi avvertirono che i dottori avevano parlato di mandare a casa mio marito. Lo avrei voluto a casa, ma non con le flebo ancora da somministrare, e lo dissi chiaramente ai dottori. Zeno poi era spaventato, temeva di tornare a casa troppo presto, senza essere curato per quelle macchie che i medici gli dicevano sarebbero andate via, ma che era una cosa piuttosto lunga.
«Pazienza - diceva - purché queste macchie se ne vadano e poi possano operarmi delle ernie».
Venne rassicurato, e questo lo aiutò a migliorare. Senza più la cannuccia delle flebo Zeno riusciva a gustare il cibo come mai aveva fatto. I dottori poi lo incoraggiavano perché cercasse di muoversi e io tutte le mattine gli massaggiavo le gambe quasi sperando in un miracolo.
Sì, perché vi erano dei momenti in cui lo sconforto mi prendeva allo stomaco. Quasi mi stupivo di quanto riuscivo a resistere con le forze, perché, naturalmente, dormivo sulla sedia e mangiavo qualche panino quando andava giù. Tale sconforto mi prendeva quando Zeno si addormentava e lo vedevo tanto inerme, vulnerabile e fiducioso. Allora uscivo dalla camera e andavo in bagno per dar libero sfogo alle lacrime.
Ora che Zeno si era alquanto ripreso, i medici gli chiesero se voleva andare a casa. Lui, vedendo il miglioramento fatto con il loro aiuto, temette che tutto ciò gli venisse a mancare e non sarebbe mai più guarito. Di colpo riprese a regredire. Il cibo non andava gli andava più e le forze lo riabbandonarono. Si dovette riattaccare la cannuccia per le flebo e, come se non bastasse, il dolore alla schiena si riacutizzò senza che i medici potessero somministrargli dei calmanti.
Un giorno mi chiese se per caso non avesse un brutto male. Per allontanare quel sospetto fecero venire un professore del reparto ortopedico per sentire se gli si poteva alleviare il dolore. Questi propose delle iniezioni lombari. Cosa che venne fatta ma che purtroppo si rivelò inutile e Zeno, che aveva ripreso un po' di coraggio, ora provava una nuova delusione. I dottori richiamarono l'ortopedico, che questa volta propose un'operazione, ma prima ci andava il mio consenso.
Ero titubante. Esternai i miei dubbi al professore e gli dissi pure che, sapendo quanta poca vita gli rimaneva, se era proprio necessario fargli subire altro male ed un'ulteriore delusione. Mi venne risposto, che se quell'operazione fosse servita a calmargli il dolore, sarebbe valsa la pena anche se dopo fosse vissuto solo dieci giorni. Al ché diedi il mio consenso.
Eravamo verso la fine di giugno. Quando portarono Zeno al quinto piano per l'operazione, io lo seguii aspettando poi nel corridoio, e quando finalmente lo portarono fuori dalla sala operatoria mi precipitai vicino. Non era sveglio e gli avevano inserito una flebo. Lo portavano in rianimazione e mi si disse di andare pure a casa che tanto non lo avrei più visto.
Rimasi impietrita. Qualcosa era andato storto. Quel pensiero atroce mi fece reagire. Scesi anch'io al primo piano e aspettai davanti a quella porta chiusa nella speranza che ne uscisse qualcuno per avere notizie. Finalmente una dottoressa mi fece entrare, indossare un camice e dei calzari accompagnandomi poi da Zeno. Era steso su un lettino corto e stretto in cui ci stava a malapena. Un lenzuolo lo copriva fino alla vita. Sul petto nudo aveva delle piccole ventose collegate agli apparecchi dietro alla sua testa. Se non fosse stato per i segnali che apparivano su quegli schermi avrei detto che la sua vita non esisteva più.
Mi sedetti percependo solo la speranza che non se ne andasse ancora. Era notte inoltrata quando Zeno aprì gli occhi e mi chiese dove eravamo. Verso mattino arrivarono dei medici per disinfettare la ferita, mi dissero. Il terzo giorno, dopo avergli tolto le ventose e la flebo, i dottori mi fecero rimanere ad assistere alla medicazione. Vidi un taglio che partiva dal fianco destro e finiva a metà schiena. Oltre alla medicazione, con una siringa con ago piccolissimo, iniettavano del liquido nel fianco destro dove cominciava la ferita.
Era stata inserita una specie di scatoletta che tratteneva la morfina iniettata venendo così assorbita lentamente. Non ci fu nessuno che mi spiegasse perché facevano tutto questo, ma lo capii da sola. Era troppo tardi per fare quel che avevano tentato e non restava ormai altro che la morfina.
Dopo il quinto giorno lo riportarono in medicina. Il letto che Zeno occupava prima dell'operazione era stato naturalmente dato a un altro paziente, e così lo sistemarono in una nuova camera con altri medici di servizio. Con loro mi trovai più a mio agio, e riuscii a parlare con maggior franchezza. Questi, più aperti e sensibili, mi dissero che gli avrebbero fatto fare un esame approfondito alla schiena per vedere se le metastasi avessero intaccato il midollo, e di fronte a questa proposta mi venne spontaneo chiedere se un esame del genere non fosse stato meglio farlo fare prima dell'intervento. Non lo confermarono, ma neppure lo negarono.
Le condizioni di Zeno subivano dei continui alti e bassi. Ogni tanto, per qualche giorno, gli facevano delle flebo e lui si riprendeva, e quando stava un po' meglio si preoccupava per me, della mia salute, ma poi, dettato dal male, avrebbe voluto che non mi allontanassi neanche un attimo.
Verso metà settembre Zeno venne spostato in una camera più grande, che a detta dei medici, si sarebbe trovato meglio, invece le sue condizioni peggiorarono più in fretta del previsto. Ebbe parecchie crisi dalle quali lo salvarono con del plasma e si dovette pure aumentare la dose di morfina. Zeno era quasi sempre lucido e cosciente. Per i medici era sempre l'ammalato educato e tranquillo che si lasciava curare soffrendo in silenzio, mentre loro erano sempre la speranza che gli avevano dato sin dal principio.
Di tutti quei mesi trascorsi nell'angoscia mi sembravano nulla in confronto a quelle ultime settimane. Quando mi assentavo dall'ospedale, vi tornavo più in fretta che potevo, mi assillava il timore di non trovarlo più.
La notte del 27 settembre fu terribile per tutti e due. Zeno era agitato e mi chiedeva continuamente di spostarlo. Le gambe erano gelate, lui non le sentiva più e non sopportava altre coperte, diceva che lo schiacciavano. Non ci fu alcun calmante che riuscisse a fargli effetto per più di un quarto d'ora.
Il medico che passò quel mattino, mi disse che mio marito era agli sgoccioli. L'espressione non era molto simpatica, ma non dissi nulla. Ebbi la sensazione che proprio quel medico evitasse di avvicinarsi a Zeno. Forse non avrebbe più avuto il coraggio di dirgli che sarebbe guarito. Anche le infermiere desistettero dal cambiarlo. Era troppo vicino alla fine.
Io no! Io lo sapevo, lo vedeva, ma dentro di me non lo accettavo. Era un secolo che me lo curavo, rassegnata, pur di poterlo vedere, stargli vicino, sentire la sua voce. Non mi pareva vero che tutto questo mi dovesse mancare. Lui era lì e ci sarebbe stato ancora per tutto il giorno, e poi ancora.
Zeno si era tranquillizzato, non si lamentava più e mi guardava. Gli tenevo una mano come facevo sovente. Alle dieci alzò quella mano cercando di attirarmi verso di lui. Mi chinai per sentire se voleva qualcosa, ma lui alzò la testa e mi baciò, poi si adagiò sempre guardandomi. Lo accarezzai piano, frenando le lacrime che mi facevano bruciare gli occhi e la morsa che mi prendeva allo stomaco. Zeno non parlò più. Se lo chiamavo ero sicura che mi sentisse perché volgeva gli occhi a guardarmi, ma il suo corpo già non esisteva più.
Alle tredici e quaranta, dopo qualche lieve rantolo, Zeno spirò.
Il cinque di ottobre avremmo fatto trentasei anni di matrimonio. Ne erano passati trent'otto da quel tredici di maggio.
Sono passati quasi due anni ed il dolore si è attenuato in un ricordo vivo e costante. È il rimpianto per ciò che è stato. È un'ombra silenziosa che mi accompagna ovunque. È la sua presenza, viva, tangibile, nei figli che ha creato e nelle mille cose che mi circondano. È lui che viene a trovarmi in sogno. È lui che mi aspetta dietro l'angolo della vita.
Sulla rivista “Selezione del Readers Digest” ho trovato un pensiero bellissimo, mi è sembrato fosse stato scritto apposta per me e mi ha dato tanto conforto. Ora nel mio cuore vi è la certezza che camminerò ancora accanto a lui. Vorrei che tutte le persone di questo mondo, che piangono il proprio compagno, potessero leggere quelle frasi ricevendone lo stesso conforto che hanno dato a me:
“La morte è nulla. Sono solo passato in silenzio nella camera accanto. Continuiamo ad essere ciò che eravamo l'uno per l'altra. Ridi, come sempre abbiamo riso delle piccole cose buffe che ci divertivano. Scherza, sorridi, pensa a me, prega per me. Fa del mio nome un suono di uso quotidiano, come sempre. Ti sto aspettando, qui vicino, dietro l'angolo”.

Copyright © 1996

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