Racconto di Andrea Caietti

PROFUMO DI RICORDI
di Andrea Caietti
Un tramonto estivo. La frase è di per sé una poesia.
Ma visto con gli occhi di una bambina, visto dall'altezza di una finestra di una casa colonica, un tramonto estivo assume un'aria magica. E diventa un arcobaleno.
Un arcobaleno. Ecco la giusta parola per definire la casa della nonna. Lo voglio ripetere ancora una volta: un arcobaleno. Le mie estati erano piene di colori e di nuove meraviglie impossibili da descrivere; per una bambina costretta a vivere in una città grigia, caotica e pressante, l'arrivo dell'estate era l'avvenimento più importante dell'anno. Perché estate significava andare a casa della nonna. Era sufficiente camminare nell'assolata aia davanti la casa per sentir fiorire la mia anima. Volevo che il profumo dell'erba e del grano spazzasse via tutto l'inverno e tutta la noia della città. Volevo credere di essere stata sempre lì. E se guardavo le nuvole correre nel cielo, riuscivo ad esserne sicura. Ero felice. Ero felice e non me ne rendevo conto. è assurdo; siamo così impegnati a cercare la felicità che quando ci passa accanto non ce ne rendiamo conto.
è successo anche a me. Mi è sempre mancato qualcosa per essere davvero felice. Avrei desiderato andare in paese con la bici, magari pedalando sotto il sole. Ma il babbo non voleva e la nonna stava molto attenta. Avrei tanto voluto esser capace di dire alla nonna che odiavo andare a letto dopo pranzo.
Ma soprattutto mi mancava la forza di essere come Silvia. Silvia... Era lei la vera ragione delle mie vacanze. Silvia era capace di dire e fare tutto. Lei poteva uscire dopo cena. Lei rideva sempre, anche se le cose andavano male. Lei era tutto quello che io avrei voluto essere nei miei sogni infantili. Poi le estati passarono. I sette anni divennero nove, poi dodici, poi tredici... Mi accorsi che lei era più bella di me. E non solo; anche di tutte quelle ragazze di città che vedevo durante l'inverno a scuola o nelle strade.
Silvia, con i suoi modi selvaggi e il suo sorriso sincero era la migliore di tutte. Era stata lei a insegnarmi tutti i grandi segreti della vita. Era stata lei a spiegarmi perché ultimamente i ragazzi ci guardavano con sguardi diversi da quelli delle precedenti estati. Io ero una di città e lei una semplice campagnola, ma era come se in lei scorresse la saggezza dell'umanità. Ogni giorno scopriva qualcosa di nuovo da fare, qualcosa di nuovo di cui discutere e qualcosa su cui sognare. E io, durante quei caldi pomeriggi estivi, quando il sole rintanava tutti i rumori della campagna e il cielo era di un azzurro abbagliante, la seguivo. E dentro di me la invidiavo. Speravo di poter essere un giorno come lei.
E intanto luglio diventava agosto.
Andavo sempre al mare con i miei, ma le spiagge bianche, gli azzurri mari e le nuove conoscenze non riuscivano a divertirmi come Silvia. Lei aveva qualcosa in più.
Quando tornavo a casa della nonna ero felice perché finalmente potevo stare con lei e confidarle tutte le mie speranze segrete e i miei sogni di bambina. Lei faceva lo stesso con me; era come se parlassimo a uno specchio tanto era forte il filo che ci legava.
E io non sono mai riuscita a capire quant'ero felice.
Poi, come ogni anno, i giorni passarono e le calde serate d'agosto divennero, inevitabilmente, prima calde serate di settembre e poi fresche notti di fine estate.
Quelli erano i momenti più tristi. L'ora della mia partenza si avvicinava con l'avvicinarsi dell'inizio di una nuova stagione scolastica. E Silvia rideva sempre di me, delle mie espressioni tristi quando le parlavo della città e della mia solitudine... Rideva e mi diceva che ben presto avrei dimenticato tutto fino alla prossima primavera. «Te ne andrai in letargo – mi diceva – te ne andrai in letargo e ti sveglierai quando le sere si faranno più brevi e le giornate più calde. E ti scorderai di tutto, anche di me».
No. Io dicevo sempre di no. Dicevo che non avrei potuto dimenticare niente di quello che avevamo fatto in quelle lente settimane e difendevo quei giorni appena passati dicendo che entravano a far parte indelebile dei miei ricordi. Silvia aveva sempre annuito alle mie rimostranze. Ma ogni volta cambiava discorso. Come se non volesse parlarne.
Una sola volta successe qualcosa di diverso. Fu uno degli ultimi giorni dell'estate del 76 e io le ripetei tutto quello che tradizionalmente dicevo quando si avvicinava la fine della vacanza. Lei non sorrise quand'ebbi finito. Si limitò a fissarmi con il suo sguardo serio che la faceva sembrare più grande della sua età reale e mi fece una domanda.
«Ti ho raccontato un sogno l'anno scorso – disse – te lo ricordi?».
Sorrisi e aprii bocca per spiegarglielo... Ma non fui capace di dire nemmeno una parola. Non me lo ricordavo! Non ricordavo quel particolare... E più ci pensavo, più mi accorgevo che nella mia mente non era rimasto niente del passato.
Giorni di luglio, serate d'agosto, pomeriggi nei prati... Dov'erano andati? Cos'era successo? Nella mia mente i ricordi erano solo vagamente affioranti. Rivedevo qualche episodio ma non riuscivo a collegare niente. Era come se dentro di me non ci fossero altro che vecchie foto sbiadite ritrovate per caso in qualche baule.
Dopo alcuni secondi Silvia sorrise e si alzò. «Un giorno te ne ricorderai» mi disse. Poi mi gettò addosso una manciata di foglie ingiallite e io scattai per rincorrerla.
E anche quell'anno arrivò il momento del commiato. Non riuscivo mai a trattenere le lacrime quando la nonna caricava i miei bagagli sull'auto. Evitavo di guardare l'orologio cercando di respirare quanta più natura potevo. E naturalmente cercavo gli occhi di Silvia.
Poi arrivò il momento e salii sull'auto.
Silvia era là. Rimasi a guardarla finché la casa della nonna non fu altro che uno dei tanti tetti rossi persi tra le immensità dei campi di grano e del cielo azzurro. Quando il treno partì, sentii la magia dell'estate finire.

Quell'anno le cose cambiarono all'improvviso.
Una sera il telefono squillò rompendo l'atmosfera della cena. Rispose la mamma. Capii che c'era qualcosa che non andava quando vidi il suo viso sbiancare e il suo sorriso spegnersi.
E per la prima volta, andammo tutti a casa della nonna in dicembre.
Ma c'era qualcosa di molto diverso. La nonna non c'era più. In casa c'erano solo drappi neri e gente triste. E fuori la natura non profumava come in estate; il cielo era azzurro ma sembrava più cupo. Persino l'aria aveva un profumo diverso.
La mamma ed io tornammo in città il giorno dopo. Il babbo rimase. Non vidi mai Silvia durante quei due tristi giorni e probabilmente fu meglio; era tutto così malinconico e penoso che forse anche Silvia mi sarebbe apparsa diversa. E io non volevo. Lei era l'immagine di quello che era il mio ideale.
Poi il tempo passò. Ma quand'arrivò l'estate, scoprii che non c'era più la casa della nonna. Il babbo l'aveva lasciata a suo fratello che l'aveva venduta. E le mie estati? Che fine avrebbero fatto le mie estati con Silvia tra i prati colorati e le serate profumate? Nessuno pensava a me e a quello che volevo? No, perché prima che potessi chiedere di andare da Silvia la mamma mi disse che saremmo andati tutti in vacanza lontano, forse in America.
Quell'anno festeggiai il mio quattordicesimo compleanno in un assolato giardino assieme a ragazzi che parlavano una lingua diversa dalla mia. Durante quei giorni i miei occhi si riempirono di cose nuove, di cose affascinanti, di sogni che si materializzavano davanti a me... Era tutto splendido. Non pensai mai a Silvia, alla casa della nonna e ai tramonti sui campi di grano; era come se quella ragazzina che ora sta scrivendo non fosse stata altro che una crisalide finalmente prossima ad aprirsi.
Poi tutto successe in fretta, come in un film.
Mi accorsi di essere bella. E mi accorsi che anche gli altri la pensavano così. Non solo; ero MOLTO bella. E avevo qualcosa dentro che solo la Natura ti dona, qualcosa che non puoi inventarti; o ce l'hai o non ce l'hai. Il fascino. E io ne avevo tanto.
A sedici anni feci il mio primo servizio di moda. A diciotto firmai il primo contratto da indossatrice professionista. Avevo ventun'anni quando mi venne dedicata la copertina di «Vogue». A ventidue uno dei migliori fotografi di moda decise di fare di me la ragazza simbolo per il calendario del nuovo anno.
La mia vita era diventata un vortice.

Quando tornai a casa della nonna erano passati tredici anni da quel tetro pomeriggio di dicembre.
Molte cose erano cambiate; il paese non aveva più l'aspetto che ricordavo; il cielo sembrava essere sbiadito e quella che era stata la casa dove avevo trascorso le mie giornate più felici era abitata da una famigliola allegra e chiassosa.
E soprattutto, non c'era più Silvia.
La cercai in quella che era stata casa sua, ma non era lì.
Incontrai vecchi amici comuni che mi portarono indietro nel tempo. Ma i loro occhi erano differenti da come li ricordavo. Ora mi guardavano come se fossi finta. Era inevitabile un confronto tra le loro vite e la mia. E purtroppo quando le differenze sono tante e il tempo scorre inesorabile, non resta niente dell'amicizia. Nemmeno i ricordi.
Ma non era finita. Un tizio dietro al bancone del supermercato mi riconobbe. Io non avrei mai potuto farlo: ricordavo un ragazzo biondo, bello e gentile, e ora vedevo un uomo già curvo con gli occhi pronti a togliermi di dosso i vestiti.
Fu lui a dirmi dove avrei potuto trovare Silvia.
Non riuscii a smettere di piangere per molto tempo davanti alla tomba di quella che era stata la mia migliore amica. Poi un vecchio custode mi venne vicino. Aveva in mano una mia foto ritagliata da una qualche rivista. Sorrise e con gentilezza notò che ero proprio io. Mi disse di attendere. Dopo qualche minuto tornò. Non sorrideva più ora il suo sguardo era grave, quasi severo. Poi mi porse una busta ingiallita.
Davanti ai miei occhi gonfi di lacrime il nome sulla carta mi parve illeggibile. Il vecchio mi disse che era una lettera per me. Una lettera che la madre di Silvia gli aveva dato sette anni prima, ma subito dopo aver dato l'ultimo saluto a quella ragazzina felice morta per overdose. Poi tutti se n'erano andati. E di Silvia era rimasta solo quella lapide.
«Credevo che non sarebbe mai venuta» disse il custode. Poi se ne andò con le mani in tasca lasciandomi sola con la busta.
L'aprii.
C'era una sola frase scritta sul biglietto.
Ma una sola frase può significare molto.
«Te lo ricordi ora il desiderio che ti confidai?».
Alzai gli occhi al cielo e annuii. Come d'incanto, tutte le giornate trascorse con lei rivissero nella mia mente.
Lei avrebbe voluto volare come un Angelo. Era questo che mi aveva detto in quel caldo pomeriggio di luglio. La potevo rivedere, seduta sull'erba sotto il pero. Sorrideva e diceva che il suo sogno era diventare un Angelo. E potevo rivedere la sicurezza dei suoi occhi quando aveva detto che un giorno ce l'avrebbe fatta.
Aveva avuto ragione; ora Silvia era diventata un Angelo. Sentivo le lacrime sulle guance, ma sorrisi e guardai il cielo. In settembre era di un azzurro pallido ma lo stesso io fui sicura di vedere qualcosa tra le chiare nubi... O forse erano solo le lacrime?
Mandai un bacio verso l'infinito e sussurrai il nome di colei che era stata la mia migliore amica.
Mi asciugai gli occhi. Poi detti un ultimo sguardo a quello che rappresentava il mio passato. Qualche minuto dopo ero di nuovo sulla strada per la città.
Da allora non sono mai più tornata alla casa della nonna.

Copyright © 1998

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