Racconto di Daniela Antonello
GINA

Racconto di Daniela Antonello

Gina si lasciò cadere pesantemente sulla panchina fredda e dura. Lanciò ancora una rapida occhiata fino in fondo alla banchina per vedere se le era sfuggito qualche passeggero ma ormai, ne era certa, erano scesi tutti. Non rimaneva che qualche addetto ai lavori.
Non era arrivato nemmeno con quel treno!
Sentì un dolore lancinante al petto, un dolore antico. Respirò profondamente inalando quel sapore ferroso, così familiare, di treni in attesa, di binari muti, di disinfettanti acri.
Eppure prima o poi sarebbe sicuramente arrivato. Gliel'aveva promesso e lui manteneva sempre le promesse fatte.
Aveva cominciato ad aspettarlo di buon mattino, stavolta sentiva che sarebbe arrivato presto. Era andata al binario dove stava per sopraggiungere il primo treno e si era seduta lì, sul sedile di cemento, con la testa ancora piena del colore della notte.
Non s'era neppure strigliata un po' i capelli e, se lui fosse arrivato, quella - forse - non sarebbe stata una grande accoglienza. Chissà cosa avrebbe pensato di lei!
«Gina, Gina, non ti pettini più ora? Ma come ti combini? Non ce l'hai un pettine ed uno specchio?...» avrebbe potuto dire. Ma forse... poi... l'avrebbe perdonata vedendo la sua grande gioia e capendo ch'era stata l'ansia di essere lì per tempo, ad accoglierlo, che l'aveva indotta a quella piccola trascuratezza.
Gina fu scossa improvvisamente dal fischio acuto di un treno in arrivo e dallo spostamento d'aria delle carrozze. Il cigolio dei freni e lo sfregamento delle ruote sulle rotaie le fecero venire la solita pelle d'oca e sentì un brivido correrle lungo la schiena. Era sempre così, non riusciva ad abituarcisi. E adesso?
Adesso che non era più presa dall'onda dei propri pensieri sentiva un dolore acuto, lancinante proprio alla bocca dello stomaco che le ricordava che non aveva ancora mangiato nulla.
Eh! La fretta per quell'attesa l'aveva rintronata e non s'era ancora organizzata bene la giornata. Frugò nella borsa di plastica per vedere se le era rimasto qualche pezzetto di pane da trangugiare - non voleva perder tempo per andare alla ricerca di qualcosa al bar della stazione, e se nel frattempo fosse arrivato? - ma non vi trovò nulla di commestibile.
Sentì proprio in quel momento la voce metallica dell'altoparlante che annunciava l'arrivo di un altro treno in un altro binario e s'affrettò a raccattare tutti i suoi pacchetti per spostarsi sul binario giusto.
Ormai le gambe s'erano tutte gonfiate e s'erano appesantite per l'estenuante attesa e le dovette trascinare con fatica giù delle scale, lungo il sottopassaggio e ancora su, verso la luce del nuovo binario, della banchina.
Tutte uguali quelle banchine, grigie, squallide, piene di attese, di addii... talvolta, sul marciapiede, si depositava l'odore della separazione, del dolore, del per sempre, dal mai più...
Stavolta, se la sentiva, era la volta giusta!
Sarebbe arrivato. Quante volte se l'era ripetuto dall'alba, tante che ora si sentiva quasi confusa, come fosse un pensiero irreale. Ma il cuore le batteva forte forte in petto, come ogni volta che stava per sopraggiungere un treno e già cominciava ad aguzzare gli occhi per intravvedere il muso di quel treno che le riportava il suo amore.
L'attesa portava sempre, come un'onda in arrivo, quello stato d'ansia, quella sospensione di pensiero, quel gusto per l'ignoto, l'imprevisto. E intanto si increspavano nella sua mente schiume di immagini, memorie, sentimenti... che, ad ogni disillusione, ricadevano con fragore, come l'onda nella rena, e si portavano via schegge d'anima.
Non poteva controllare quello sciabordio continuo, eliminarlo dalla sua testa, dal suo cuore; come d'altronde fermare l'ondeggiare del mare? Ancora sentì il dolore acuto allo stomaco ma ricacciò con fastidio quella sensazione. Per mangiare avrebbe avuto tempo poi, più tardi. Anzi! Avrebbe mangiato assieme a lui, con grande piacere. Ah sì! Era una festa guardarlo mangiare. Non alzava mai gli occhi dal cibo, non staccava un attimo l'andirivieni della posata dal piatto alla bocca finché tutto non fosse stato consumato.
Bocca grande, decisa, quasi sempre allegra. Denti bianchi, forti, capaci di sgranocchiare qualsiasi cibaria.
«Mangia, mangia Gina, non perderti a guardarmi, che tutto si raffredda!» le diceva e intanto con il braccio libero circondava il piatto quasi a difenderne il contenuto da qualche predatore in agguato. Sì, sembrava un felino, quando mangiava, tanto che accompagnava il cibo con una mossa buffa della lingua per prendere il boccone prima che arrivasse alla bocca. L'aveva notato solo in lui, quel modo strano di mangiare, e nei gatti. Per questo, quando vedeva un gatto, gli lanciava sempre un pezzettino di pane per vederlo mangiare.
Il treno sbuffando e ringhiando s'era fermato e stava già vomitando sulla banchina il suo carico di passeggeri variopinti. Tutti frettolosi, con le loro storie da portare chissà dove, chissà perché...
Gina li scrutava ad uno ad uno cercando di scorgere in loro qualche gesto conosciuto, qualche particolare familiare. Era timida perciò li guardava sempre di traverso, mai direttamente, sbirciandoli da sotto in su e lasciandosi trasportare dalle sensazioni.
Quello lì, in fondo, sì, quello che camminava a gambe strette tenendo la valigetta con la mano a pugno chiuso e col braccio teso contro il corpo per tenere saldo il giornale sotto il braccio, era certamente un bancario sicuro di sé, già stressato prima di cominciare il suo lavoro, tetro, come il suo ufficio. Quell'altro col vestito un po' strapazzato e la barba maltagliata era il pendolare di turno, operaio in qualche fabbrica del circondario, arrabbiato col mondo ma soprattutto col tempo-treno rubato al tempo-sonno della sua vita. Sogni sempre spezzati, lasciati a metà, in parte ripresi col sottofondo dello sferragliare del treno, in un anonimo scompartimento.
Alla stazione s'aveva sempre quella forte sensazione della presenza del tempo; nessuno sembrava avere tempo da perdere ma tutti erano alla ricerca spasmodica della giusta scansione, chi avrebbe voluto accelerarlo, chi rallentarlo, chi addirittura fermarlo.
Non guardava molto le donne, Gina, solo una rapida sbirciatina, giusto perché lei non era lì senza una ragione, lei aveva un'attesa importante da gestire e lo scopo selezionava lo sguardo.
Alla vista d'un'ombra vaga, ondeggiante in un certo modo, da lontano, sentì velocizzarsi il battito del cuore in petto. «Oddio, era lui, sì, quel modo di camminare, un po' molleggiato, sulle punte, come quello dei bambini che stanno imparando a camminare, quel modo di tenere la mano in tasca, strapazzando l'angolo della giacca, quella particolare inclinazione a sinistra della testa, come se i pensieri pesassero tutti da quella parte del cervello...».
Gina si sentì quasi mancare... e adesso? Improvvisamente si vedeva, come in uno specchio, riflessa in tutte le sue sbavature. Capelli spettinati, vestiti strapazzati, disordinati, calze smagliate, gambe gonfie, occhi acquosi... quant'era che non si metteva un po' di rossetto? Avrebbe voluto improvvisamente possedere una gomma-cancella-rughe, ma non sapeva se l'avevano nel frattempo inventata e messa in commercio. Non era pronta - se ne rendeva conto solo ora - per accoglierlo. Che stupida! tutto quel tempo d'attesa e non s'era preparata mentalmente per l'evento. E forse non era sicura nemmeno di saper piangere.
I pensieri si accavallavano nella sua testa, confondendosi con le emozioni e i sentimenti che tutti insieme spingevano per uscire e tutti dalla stessa parte. Gioia, dolore, rimpianto, rabbia... Ah! la rabbia. Forse non le avrebbe nemmeno permesso di spiccicare qualche parola.
Cercò di schiarirsi la gola e provò qualche vocale... Niente! Le uscì solo un rantolo e due tre parole senza senso scappate fuori da chissà dove. Intanto la sagoma si avvicinava - le sembrò sempre più minacciosamente - e lei cominciò ad agitarsi sulla panchina ancor più dura e fredda. Con gesti stereotipati, cominciò a spostare i sacchetti da una parte all'altra del sedile, per evitare di guardare in quella direzione, quasi a mascherarsi, per non farsi scorgere. Poi, d'improvviso, quando l'uomo le passò proprio davanti quasi sfiorandola, la tensione cadde di colpo.
Non era lui! Ma certo, non poteva esserlo! Come, come aveva potuto sbagliarsi in quel modo così grossolano? Non aveva nemmeno la sua altezza, lui era robusto, molto, molto di più di quel bitorzolo!
La donna lasciò cadere pesantemente il suo corpo, come sgonfiato, sulla panchina. Si sentiva quasi risollevata nello spirito. L'agitazione, come d'incanto, era scomparsa ma le rimaneva un senso di vuoto incombente che la disorientava. Adesso sarebbe ricominciato tutto daccapo, in un altro binario, ma sentiva che non avrebbe potuto sopportare un'altra scarica di adrenalina come quella. Inoltre, le fitte per la fame si facevano sempre più acute, perciò decise di darsi una tregua e di andare a rifocillarsi un po'. Dopotutto, il prossimo treno non sarebbe arrivato prima di una buona mezz'ora.
Raccattò meticolosamente i sacchetti, si tirò un po' su la calza che s'era raggrinzita sulla gamba, e si lisciò la gonna. Si alzò stancamente e, trascinando i piedi come fossero ancorati a qualche grosso macigno, si avviò verso il bar della stazione.
La barista, una donna ben piantata, mora, con i capelli ricci e la cuffietta sempre di sghimbescio in testa, faccia larga e simpatica, era una di quelle donne nate per prendersi cura in continuazione di qualcuno. Quando la vide arrivare le fece un largo sorriso.
«Allora Gina, l'hai visto? Non è ancora arrivato oggi? Sei in ritardo, pensavo che non saresti più venuta... ti hanno lasciata dormire in pace stanotte, o ti hanno cacciata fuori dalla sala d'attesa? Guarda che gliel'ho detto io, che ieri sera sarebbe stato freddo e che non avrebbero potuto farti una carognata come quella. Dimmi, bella, vuoi una brioche?» e allungò la mano attraverso il banco porgendole quel pezzetto di dolce profumato e morbido.
Gina rispose con un sorriso sdentato pieno di riconoscenza e, senza rispondere, tanto, le domande e le risposte, tra loro, erano come un rito, scontate, senza feed-back, prese la brioche e se la ficcò quasi tutta in bocca, come a chiudere la fame che mordeva dentro, da qualche parte.
Ci voleva quel ristoro, dopo tutte le emozioni della mattinata! E la delusione - sì anche quella aveva un peso - andava in qualche modo gratificata.
Scosse la testa come a dire, niente, niente ancora, per ora, non è arrivato! Arriverà, c'è ancora tempo, la giornata è lunga, e poi c'è anche... domani, dopodomani, doman l'altro... tutta la vita che rimane, ancora...
Una, due parole le scivolarono dalla bocca, inattese, senza un filo di senso che legasse il contenuto dell'una con l'altra... poi si scosse e rizzò la testa ad ascoltare... L'altoparlante annunciava l'arrivo di un treno.
Gina s'affrettò. Raccolse i sacchetti, che aveva depositato per terra, tutto il suo mondo, lanciò un'occhiata di traverso, riconoscente, alla barista e s'allontanò di fretta.
Sì, se lo sentiva, sarebbe sicuramente arrivato con quel treno...

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