Premio Editoriale Penna d'Autore - Narrativa
VIAGGIO VERSO...

Daniela Quarta
Elisa sorrideva. Gli occhi socchiusi sotto la frangia mesciata le conferivano un'espressione da gatto sazio. Dal mangianastri nuovo nuovo, si diffondeva nell'abitacolo dell'auto un brano degli U2: il volume era talmente alto da far vibrare i finestrini ancora un po' appannati da piacevoli affanni. In un inglese piuttosto stentato, Leonardo canticchiava e simulava una danza mentre la mano destra batteva il tempo sul volante.
Procedevano molto lentamente nel loro tragitto di ritorno verso la provinciale, perché la stradina in terra battuta che stavano percorrendo era costellata di buche colme d'acqua ghiacciata, ma il piazzale dove portava e dove i due avevano sostato a lungo, era un luogo tranquillo dove le coppiette del paese potevano appartarsi a scambiare tenerezze sotto l'occhio indiscreto e benevolo della luna.
La luna. Quella sera se ne stava appesa lassù incurante del freddo esibendosi al massimo dello splendore; sembrava quasi ostentare una certa arroganza. E fu nel suo chiarore lattiginoso che Elisa, con la coda dell'occhio, ebbe l'impressione di vedere un uomo accasciato contro i rifiuti della discarica abusiva.
«Frena! Frena!». Quasi gridò a Leonardo afferrandogli il braccio. Si agitò sul sedile fin quando non riuscì a voltarsi verso il corpo che le era parso di vedere e strizzò gli occhi come a voler mettere bene a fuoco.
Leonardo frenò e chiese con tono seccato: «Si può sapere che cavolo t'è preso?».
Elisa gli lasciò andare il braccio e allungò il collo per frugare con lo sguardo nella penombra esterna. «Mi è parso di vedere uno disteso là per terra, proprio là, vedi?». Indicò un cumulo scomposto che somigliava a un corpo umano.
Leonardo si sporse a destra e a sinistra oltre la testa di Elisa. «Non riesco a vedere niente da qui – disse poi, continuando a sbirciare –. Forse conviene faccia retromarcia, che ne dici?». Senza aspettare risposta trafficò col cambio e tornò indietro di qualche metro.
«Eccolo!», esclamò Elisa, che eccitata e impaurita allo stesso tempo indicava di nuovo la massa quasi informe.
«Eccolo là, non mi ero sbagliata, ha le spalle appoggiate a quella vecchia poltrona rovesciata. Riesci a vederlo?».
«Sì. Sì, ora lo vedo». Leonardo si strinse nelle spalle e disse con tono noncurante: «Probabilmente è un ubriaco».
Elisa, senza distogliere gli occhi dallo sconosciuto, mordicchiò un residuo d'unghia nel gesto che le era abituale. «Con questo freddo morirà – disse quasi a se stessa –. E a pensarci bene, mi sembra strano che uno venga ad ubriacarsi qua». Scrutò ancora fuori con estrema attenzione. «Oltretutto non ci sono auto. Perciò, come c'è arrivato fin qua?». Di colpo cessò di tormentare l'unghia. Come folgorata da un pensiero, afferrò di nuovo il braccio di Leonardo e guardandolo con li occhioni azzurri sbarrati disse: «Se l'avessero aggredito per rubargli la macchina?». Lasciò il braccio e indicò fuori. «Non si muove, vedi? Vedi che è immobile? Magari era venuto qui a gettare via qualcosa e l'hanno picchiato perché ha opposto resistenza... potrebbe addirittura essere morto» concluse in un sussurro, mentre immagini di violenza si susseguivano nella mente.
«Senti, facciamo una cosa – disse Leonardo, calandosi nel ruolo del macho –. Ora faccio manovra e gli punto i fari addosso, poi scendo e vado a vedere. Tu rimani in macchina, e non spegnere il motore fin quando non te lo dico. Meglio essere prudenti, hai visto mai che gli eventuali aggressori siano ancora nei paraggi e si debba scappare di corsa» disse, caricando il tono per far sembrare il gesto di scendere un grande atto di coraggio. Manovrata l'auto disponendola con i fari orientati a illuminare la discarica, accese gli abbaglianti.

Ahmed avrebbe voluto ripararsi dall'improvviso sole che gli feriva gli occhi malgrado le palpebre chiuse, ma non ne aveva la forza. Si sentiva così rilassato! Se ne stava là in una sorta di dormiveglia intento solo a lasciarsi andare. Era bello lasciarsi andare. Là, in silenzio, sotto il sole... però aveva freddo. Come mai avvertiva quel gran gelo se c'era il sole? Rabbrividì. Lui odiava il freddo, ne aveva patito così tanto durante la fuga dal Marocco verso l'Italia! Era inverno quand'era arrivato. Ricordava ancora con terrore l'ultima parte del viaggio; quella per mare. Erano in tanti sul gommone, troppi, e il mare era una distesa nera che si faceva via via più minacciosa. C'erano anche dei bambini, e piangevano. Anche i grandi piangevano. Le lacrime si confondevano con gli schizzi che li infradiciavano da capo a piedi. E i tonfi! I tonfi del gommone sulle onde che andavano aumentando rimbombavano nelle orecchie e nella cassa toracica. Lui, terrorizzato, si era rannicchiato sul fondo e aveva nascosto la testa tra le braccia. Era rimasto così non sapeva neanche lui quanto, ma di sicuro molto, molto a lungo. Il viaggio stesso verso la speranza era lungo; talmente tanto che aveva temuto di non arrivare mai. Sembrava che persino il mare avesse deciso di respingerli. Ahmed ne aveva sentito aumentare la violenza e si era rannicchiato sempre più. Poi qualcuno l'aveva preso a calci gridandogli di alzarsi. Ahmed, impaurito e confuso, aveva sciolto le braccia che teneva incrociate sulla testa e aveva aperto gli occhi attoniti.

Leonardo si ritrasse d'istinto. Nell'ombra che la sua figura alta e robusta proiettava contro la poltrona rovesciata, gli era bastato scuotere lo sconosciuto perché gli occhi di questo si spalancassero di colpo e rimanessero a fissarlo. Le mani dell'uomo, scure e sciupate, sembravano voler arginare il sangue che usciva copioso dal petto.
Senza esitare oltre, Leonardo tornò di corsa verso l'auto e quasi si lanciò al suo interno. «Bisogna chiare il 113, quello è ferito. Ferito grave, secondo me – disse a Elisa, stringendosi nel piumino –. Vedessi quanto sangue perde, poveraccio. Gliele hanno anche suonate di santa ragione». Dopo essersi concesso qualche secondo per calmarsi afferrò il cellulare dal vano portaoggetti.

«In acqua! Tutti in acqua!» aveva gridato uno degli scafisti assestando altri calci e spintoni.
Ahmed, come gli altri, l'aveva guardato senza capire. Non volevano capire. Non volevano gettarsi in mare. Anche se ormai era più calmo, la terra era ancora abbastanza lontana; ed era inverno, faceva freddo. E c'erano i bambini. Tra le suppliche e le urla disperate delle donne erano comunque stati costretti a lanciarsi. Un incubo. Le mani annaspavano in un mondo gelido e buio dove la salvezza era una linea scura da raggiungere al più presto. Ma come? Pochissimi sapevano nuotare bene, e chi aveva i figli come poteva salvarli e salvare se stesso? Poi la vedetta della Guardia di Finanza li aveva localizzati, per fortuna. Ma per qualcuno era già troppo tardi. Quando il giorno successivo Ahmed aveva telefonato al fratello a Fès per avvertirlo di essere arrivato sano e salvo, piangeva come mai in vita sua. Piangeva ancora quando ripensava a quella notte.

Leonardo, sceso di nuovo dalla macchina, guardò il volto dello sconosciuto e corrugò le sopracciglia: erano lacrime quelle che vedeva scendere sul volto tumefatto? Sembrava di sì, però non poteva avvicinarsi e parlargli, la polizia era stata chiara quando aveva detto: «Sì, certo che può coprirlo con un plaid finché non arriviamo, dopodiché si tenga a distanza da lui. Può darsi che sul terreno attorno ci siano delle impronte o qualche altro elemento utile a eventuali indagini».
Così continuava a guardare quel poveretto da una certa distanza. Non era italiano, si vedeva, aveva una carnagione così scura! Era senz'altro uno dei tanti immigrati che lavorano in una delle fabbriche attorno al paese, ma qualunque fosse il luogo d'origine, la sua ricerca di una vita che potesse essere chiamata tale forse si concludeva in una discarica abusiva. Chissà qual era la sua storia? si chiese Leonardo, senza accorgersi che Elisa l'aveva raggiunto. Chissà se da qualche parte esisteva una famiglia o una moglie che lo stava aspettando?

Fatima. Un nome importante, pensò Ahmed, lo stesso della figlia prediletta di Maometto. La sua Fatima dai grandi occhi neri e dal seno generoso sul quale aveva poggiato la testa infinite volte, appagato. Quanto gli mancava! Quando pensava a lei risentiva tutti gli odori e i rumori della parte vecchia di Fès: la medina con la Grande Moschea; i souk dalle mille voci e dai mille odori; i baracchini dove si cucinava a getto continuo... un mondo a parte, quello della medina, dove gente senza lavoro come lui inventava mille modi per arrangiarsi. Per quanto lo riguardava, cercava soprattutto gruppetti di turisti da accompagnare nel quartiere dei conciatori a riempirsi gli occhi dei colori delle vasche dove venivano tinte le pelli. Turisti italiani, possibilmente. La maggior parte dei quali erano sorridenti e cordiali, non davano davvero l'impressione d'essere razzisti o di sentirsi, come i francesi e gli inglesi, una razza superiore. Per questo aveva scelto di venire in Italia. In Italia c'è lavoro per tutti, gli avevano detto. In effetti, una volta che si era sistemato con i documenti, era salito verso il nord e aveva trovato un'occupazione come operaio in una fabbrica di divani. Arrangiandosi a dormire con altri sei extracomunitari in una stanza, metteva da parte buona parte della paga per poter poi prendere in affitto una casetta tutta sua e vivere in maniera dignitosa. A quel punto avrebbe chiesto a Fatima di raggiungerlo. Si sta bene qui, le avrebbe detto. Si era fatto anche degli amici. Certo, tra i ragazzi del paese qualcuno che lo teneva a distanza o lo provocava c'era; erano soprattutto tre ragazzotti perdigiorno che incrociava quando andava a far spesa che lo tormentavano, ma negli ultimi tempi sembrava che anche loro gli dimostrassero simpatia. Vieni a fare un giro in macchina con noi? Gli avevano detto quel giorno, con il loro miglior sorriso. E lui era andato, ma quando si erano inoltrati in quella stradina lontana dal paese aveva cominciato ad avere paura: i volti dei suoi tre nuovi amici si erano fatti cupi e nessuno parlava più, non rispondevano neanche alle sue domande. C'era qualcosa che non andava, gridava l'istinto, e nel momento in cui aveva preteso di scendere dall'auto il più robusto gli aveva assestato un colpo alla nuca. Era quasi svenuto. Arrivati alla discarica si era sentito tirare giù, di peso, poi era stato trascinato per i piedi accanto a un mucchio di spazzatura e... ma no, era stato solo un brutto sogno, doveva essersi addormentato nel cortile della fabbrica durante l'intervallo di pranzo, perché ora sentiva bene la sirena segnalare la ripresa del lavoro. Perciò doveva alzarsi da terra dove stava godendosi il sole che l'illuminava in pieno. Doveva aprire gli occhi, scuotersi dal torpore e riprendere il suo posto alla catena di montaggio... ma perché la sirena non smetteva di suonare? In fondo si stava alzando, no? Però avvertiva quello strano freddo, sembrava anche che il braccio sul quale si stava puntellando non reggesse... e cosa ci faceva Fatima lì? si chiese stupito, mentre la bocca si allargava in un sorriso e la mano si tendeva verso lei per afferrarla.

Leonardo vide il terribile sorriso imprimersi sul volto dello sconosciuto e la mano sporca di sangue tendersi. Il corpo ormai senza più vita si accasciò. Nell'alternarsi delle luci stroboscopiche delle auto della polizia, quando le sirene tacquero Leonardo si rese conto che Elisa, avvicinatasi allo sconosciuto, guardava la mano scura artigliare ancora una cocca del suo maxicappotto mentre lei gridava forte tutto il suo orrore. Poi la mano che la teneva allentò la presa e, ormai inerte nel suo aggrapparsi a un sogno, ricadde a terra con un lieve tonfo per non sollevarsene mai più.

 

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