Albo d'Oro

 

LETTERA A MIO FIGLIO

Stefano Borghi

Nel mio percorso interiore, alla ricerca di una verità più alta, nelle mie preghiere, non ho mai chiesto nulla a Dio.
Forse perché me lo sono sempre immaginato occupato con problemi più importanti e urgenti da risolvere, o forse perché sono consapevole che avendo una casa, potendo mangiare tre volte al giorno, sapendo leggere e scrivere e altro ancora, sono messo meglio di oltre cinque miliardi di persone.
Consapevole della mia ricchezza e dei miei limiti, non ho mai osato disturbarlo.
Ma quanto poco possa valere, la mia, apparente felice condizione è stata una consapevolezza maturata al tuo arrivo.
Catapultato sul mondo, in una notte inspiegabilmente calda, sono corso dalla tua mamma che affaticata e con le lacrime agli occhi ti aveva visto solo per un secondo, senza averti potuto abbracciare e senza sapere se avrebbe potuto rivederti.
Loro parlavano e mi spiegavano, ma io non ero sicuro di capire tutto quello che mi dicevano e non ero nemmeno sicuro di voler sapere quello che sembrava chiaro.
Tu eri piccolo, molto piccolo, tanto piccolo da non riuscire a contenere la vita stessa.
I tuoi occhi, i tuoi polmoni, il tuo cuore, le tue mani, tutto era semplicemente accennato, come la bozza di un capolavoro che un artista geniale e distratto si era dimenticato di completare.
Con mille pensieri in testa, da solo, mentre il mattino nasceva e risvegliava il mondo, cominciai a percorrere quei cento metri che mi avrebbero condotto a dove tu stavi.
La luce disperdeva il buio, la luce che è vita, la luce che tutti dovrebbero avere e vedere, la luce che a te era negata.

«Piccolo come un Lillipuziano, questi bambini ci insegnano il coraggio della vita...»
Questo era il cartello che mi accoglieva al mio ingresso in un mondo, che non avevo nemmeno immaginato che esistesse.
Un’infermiera paziente mi spiegava come comportami per arrivare fino a te. Ma non riuscivo a comprendere le sue parole, in preda a una speranza che sconfinava nello sconforto.
Non mi sono mai sentito così. Incapace di comprendere la più elementare delle cose.
Poi ti vidi, fu per poco, un minuto credo, non di più.
Sembravi un uccellino senza piume, lungo una spanna, gli occhi chiusi, e tanti troppi tubi che ti uscivano da ogni parte del corpo, avvolto da una pellicola che ho sempre visto usare per avvolgere i cibi, i monitor registravano tutto di te. Eri diverso da come ti avevo immaginato, troppo diverso da qualsiasi pensiero, da qualsiasi sogno.
Ma non ero deluso. Ero fiero di te, perché combattevi, ti eri attaccato con una tenacia incredibile al sogno della vita.
«Può toccarlo...» E ti presi la mano, piccola, più piccola della parola stessa, e sentii un brivido.
Sentii la vita.
Scorreva, in quel piccolo cuore, dietro a quelle palpebre chiuse, dietro a quella pelle arrossata.
Eri diverso, non eri come gli altri, lo capii in quel preciso momento.
Io ero padre e tu mio figlio.
Fu allora che chiesi a Dio un favore, per la prima volta nella mia vita.
Tu dovevi vivere.
Se aveva bisogno di qualcuno, sarei andato io al tuo posto. Avrei fatto io il tuo lavoro.
Tu dovevi stare con la tua mamma e mi avresti conosciuto attraverso lei.
Sì, tu dovevi vivere...
Lasciai quella stanza, con una terribile voglia di rivederti...
Tu stavi lottando ed eri solo, ti immaginavo solo, ti pensavo solo.
Lotteremo con te piccolo inimmaginabile amore.

Sono passati dei mesi e di tutto quello che ti è successo te lo ripeteranno alla noia.
Ora sei qui nella tua casa e stai bene.
Dio non ha accettato il baratto.
Ma ti ha lasciato lo stesso con noi.
Sei bellissimo e dai tuoi occhi aperti e curiosi capisco meglio la vita e il mondo.
Ho sempre creduto che sono i figli a insegnare le cose più importanti ai genitori.
Bisogna solo guardarti, per capire.
A volte, penso ancora a quel nostro primo incontro, alle sofferenze emotive provate.
Non credo che riuscirò mai a dimenticare.
E non credo che nessuno possa capire.
Poi ti osservo nel tuo sonno, mentre dormi insieme e abbracciato alla mamma.
Tento di indovinare i tuoi sogni.
Bianchi e puliti, come i sogni degli angeli.
Poi prima di chiudere gli occhi, ricomincio il mio viaggio interiore e dico una preghiera per voi, lo faccio tutte le sere.
Poi mi rivolgo a Dio, ringraziandolo per avermi dato la possibilità di stringerti e baciarti.

Natale è vicino, la mamma ha fatto l’albero e tu guardi le lucine e fai delle buffe smorfie con quella piccola bocca.
Ora sembri un gigante.
Ma in questa notte non posso non mandare un pensiero a tutti quei tuoi piccoli compagni di viaggio che non ce l’hanno fatta.
Quanti Angeli che ha il cielo.
Forse ti hanno aiutato anche loro.
Che questa notte sia leggera come una carezza per i loro genitori.
A volte mi vergogno della mia fortuna.
Ma da grande ti accorgerai che non si hanno tutte le risposte.
E che molte volte è inutile chiedersi perché.
Da grande farai molte cose.
Leggerai questa lettera.
Forse una, forse cento volte.
Se io sarò con te sarò vecchio.
Ma tu non farmi mancare mai la tua mano.
Come nel nostro primo incontro.
E se per vergogna o per stupido pudore non sarò più capace di dirtelo.
Ricordati figlio mio.
Ricordati.
Che ti amo.

Copyright © 2004

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