Albo d'Oro

 

IL LUPO

Mario Malgieri

La neve che imbianca piccoli paesi e belle vallate ispira un sentimento di pace, soprattutto quando cade vicino al Natale. Ma nei primi giorni del gennaio 1918 i fiocchi che scendevano pesanti sulla cittadina di Thiene erano di un singolare colore scuro. Qualcuno diceva addirittura che la neve fosse sporca di sangue prima ancora di posarsi, ma forse esagerava, si trattava soltanto del fumo delle artiglierie.
In ogni caso quei fiocchi ispiravano angoscia e timore. Perché sull’altopiano di Asiago, troppo vicino, era in pieno svolgimento “l’offensiva di Natale”, una delle più violente di quella guerra, che di “grande” aveva sicuramente l’orrore causato giorno per giorno.
L’ospedale da campo diretto dal capitano medico Antonio Carboni era stato spostato in tutta fretta dalla malga Mandriele, non lontano da Gallio, per essere riposizionato a Thiene, oltre le ultime case verso il monte. Lì, un piccolo gruppo di uomini e donne faceva del suo meglio per dare una speranza a chi veniva portato fuori ancora vivo da quella fornace, che bruciava uomini come fossero insignificanti pezzi di carbone.
Quella giornata di neve sporca aveva messo tutti a dura prova, il dottore in particolare, che infatti era rientrato nella sua tenda per concedersi un po’ di riposo.
La lanterna a petrolio mandava un bagliore fioco, che metteva in risalto le ombre. Il tempo di togliersi il camice lordo di sangue, di lavarsi mani e viso con l’acqua gelata di un secchio e di buttarsi sfinito sulla branda; poi finalmente il sonno, turbato però dagli orrori quotidiani, impressi a fuoco nella mente.
Si ritrovò nel bosco vicino a casa, dove la Sila degrada verso lo Ionio tra foreste e improvvise pianure sassose. Un uomo lo precedeva, imbracciando una doppietta.
«Tonino, adesso lo troviamo il capriolo. Vedi le tracce di sangue? Con quella ferita non potrà andare lontano».
«Papà, lasciamolo andare».
Al piccolo Antonio non piaceva la caccia, ma suo padre lo portava con sé ogni volta che poteva. Con pazienza gli spiegò che un cacciatore non lascia mai un animale ferito e che, se non lo avessero finito loro, ci avrebbero pensato i lupi e sarebbe stata una morte molto peggiore.
«Tonino, i lupi già lo sanno che c’è una bestia ferita, e sanno che noi siamo qui. Ma non ti preoccupare, non ci assaliranno. Vedi, i lupi sono bestie furbe e intelligenti, non attaccano chi è più forte e hanno imparato che noi siamo più forti», così dicendo l’uomo diede un colpetto al calcio del fucile e poi la mano scese per una ruvida carezza ai capelli del ragazzo.
I due proseguirono per un poco, poi dietro un cespuglio intravidero una massa scura.
«Eccolo, vieni».
Aggirarono il cespuglio, ma non c’era il capriolo; c’era invece un uomo insanguinato, il petto squarciato da una ferita. Poi Antonio ne scorse il volto: era quello di un giovane, nemmeno ventenne, che aveva cercato invano di strappare alla morte sul tavolaccio, pochi minuti prima. Restò impietrito, la bocca aperta in un urlo silenzioso, mentre qualcuno gli posava una mano sulla spalla e lo scuoteva ripetutamente.
«Signor capitano, mi scusi, è successa una brutta cosa».
Era il suo attendente che lo stava chiamando insistentemente.
Il dottore abbandonò con sollievo quell’incubo ricorrente che lo tormentava, mescolando un lontano episodio della sua fanciullezza, il ritrovamento di un uomo ucciso con la lupara durante una caccia con suo padre, con squarci di vissuto recente.
«Sono sveglio, cosa c’è?»
«Signor capitano, hanno appena portato Maria, la donna del latte. È morta».
Maria viveva sola in un casolare verso la montagna, il marito era stato ucciso sul Podgora un anno prima. Ora che lui non c’era più, lei divideva il relativo tepore della stalla con le poche mucche cui accudiva e dalle quali ricavava latte e burro. Parte di quel latte lo metteva in un grosso recipiente che tutti i giorni portava a spalle sino all’ospedale, in cambio di poche monete che il dottore le dava di tasca propria, perché per molti feriti quel latte era una vera benedizione.
Il dottore rammentò che il giorno prima Maria non si era vista, ma aveva attribuito il fatto alla molta neve caduta nella nottata. Si buttò la mantellina sulle spalle e raggiunse correndo la tenda di primo soccorso. Si avvicinò al lettino e non poté fare a meno di notare un’espressione strana sul viso delle infermiere, mentre gli uomini tenevano gli occhi bassi ed evitavano di guardare le donne.
Anche il dottore non era preparato a vedere ciò che gli si presentò. Maria indossava soltanto un golfino pesante, di lana grezza. Qualcuno aveva pietosamente tirato l’orlo inferiore dell’indumento sporco di sangue sino a coprirle l’inguine. Le gambe erano nude, le caviglie fasciate con pesanti calze di lana che sporgevano da un paio di scarponi di foggia maschile; il volto era tumefatto, gli occhi sbarrati, e dalla bocca semichiusa sporgeva la lingua bluastra. Intorno al collo, dei segni scuri indicavano una stretta feroce. Il dottore sollevò l’orlo del golfino e quello che vide gli tolse ogni dubbio, facendogli pronunciare una sorda imprecazione. La donna era stata violentata, dopo essere stata percossa ferocemente, e poi strangolata. Il dottore chiuse gli occhi di Maria e la coprì col lenzuolo. Si rivolse al sottotenente della pattuglia che aveva portato il corpo.
«Dove l’avete trovata?»
«Qui vicino, un seicento metri a monte, dietro un cespuglio».
«C’erano tracce, qualche cosa per capire chi sia stato? E i vestiti? Portava sempre una mantella nera e una gonna lunga, le avete viste?»
«Signor capitano, la poveraccia era coperta dalla neve, tutto era coperto dalla neve. Noi abbiamo visto e trovato solo lei, e quello», l’ufficiale indicava il bidone del latte deposto in un angolo della tenda.
«Va bene, grazie, potete fermarvi qui a scaldarvi, a meno che non dobbiate proseguire».
«Grazie signor capitano – l’ufficiale fece uno stanco saluto – ma dobbiamo rientrare subito al reparto, siamo già in ritardo».
Il dottore non pensò neppure per un momento di fare esami più approfonditi, di cercare tracce o indizi per risalire all’assassino. Le cause della morte erano evidenti, la violenza altrettanto. Avrebbe inoltrato un rapporto al comando, ma sapeva già che non sarebbe servito ad altro che a sprecare tempo e carta. Erano giorni nei quali la morte violenta di un civile era un fatto doloroso ma tutt’altro che raro e le emergenze erano altre. «Solo un assassino impunito in più» sibilò tra i denti con rabbia. Poi si rivolse all’attendente estraendo trenta lire dal portafoglio: «Parisi, inutile tenerla qui per un’eventuale indagine; la faccia portare in paese, e dia queste al parroco, che abbia almeno un funerale cristiano».

Erano passati tre giorni da quella morte violenta ormai sbiadita in un tragico mare di violenza quotidiana. Dalla sera prima aveva smesso di nevicare ma il cielo era grigio, anche se le nuvole si erano alzate. Il rombo dell’artiglieria scendeva dalle valli, appena ovattato dal manto bianco, ma così insistente da diventare una specie di sottofondo continuo. Un’altra offensiva era imminente, quell’ossessivo battere trincee e reticolati era il prologo di un ennesimo assalto per riportare quella vittoria decisiva che non arrivava; invece continuavano ad arrivare i corpi straziati. Entrarono due barellieri portando un altro ferito. Era un caporale con una lacerazione a un braccio e un’altra, molto più grave, al petto. Il dottore lo sentì irrigidirsi mentre dalla bocca usciva un rantolo inframmezzato da parole appena intelligibili:
«... non potevo vivere... la giustizia di Dio... ho ucciso».
Poi tacque in un ultimo tremito convulso. Il dottore si tolse gli occhiali. «E qualcuno ha ucciso anche te, pover uomo». Poi con un gesto reso meccanico dall’abitudine cercò la piastrina, per aggiungerla alle altre da inserire nel rapporto giornaliero sulle perdite. Ma non la trovò; al collo solo un segno, come se la catenella fosse stata strappata con forza. Guardò le mostrine, ma anche quelle erano state strappate.
«Chi era, dove lo avete raccolto?» chiese il dottore ai barellieri che si stavano rifocillando con del tè caldo.
«Non lo sappiamo, lo portavano giù da Valbella dei soldati del 151°, ci hanno raccomandato di fare di tutto per salvarlo. Pare che questo caporale, da solo, sia riuscito ad arrivare a un nido di mitragliatrici austriaco, facendolo saltare e salvando molti suoi compagni. Poi si è gettato avanti lungo la trincea conquistata, ma è stato ferito. Insomma, ci hanno detto che è un eroe».
Il dottore guardò ancora il volto del caporale devastato dalla sofferenza.
«Già, un altro eroe morto e un’altra croce senza nome; che follia, povera umanità – scosse la testa –. Ragazzi, non c’è più nulla che io possa fare per lui; portatelo laggiù, in quella tenda, con gli altri eroi».
Il pomeriggio all’ospedale arrivò la colonna di muli dei rifornimenti. Tra i nuovi arrivati il dottore riconobbe con piacere il suo amico, il cappellano don Fiore.
«Ciao Renzo, come stai?» I due uomini si strinsero la mano con calore.
«Meglio di te senz’altro – rispose il cappellano –. Ho temuto per il mio amico dottore quando abbiamo perso Gallio, mi hanno detto che hai dovuto dartela a gambe; sono felice che tu ce l’abbia fatta».
La sera il dottore riuscì a concedersi una pausa per l’ora di cena, così come il cappellano che aveva terminato il suo giro tra i feriti e i malati, confortando, confessando, benedicendo chi non avrebbe visto l’alba del giorno dopo e i corpi di chi già si trovava nell’obitorio. Cenarono nella tenda del dottore, un pasto frugale che l’attendente servì in modo maldestro come al solito, ma era caldo e nobilitato da una bottiglia di vino che don Fiore aveva portato. Alla fine il dottore tirò fuori l’immancabile fiasca di grappa.
Don Fiore alzò il bicchiere: «A questo punto di solito si brinda al Re, noi a chi beviamo, Antonio».
Il dottore si tormentò il pizzetto per qualche secondo, poi alzò il bicchiere: «Non al Re, ora beviamo a quei poveri ragazzi lassù, che stanno uccidendosi o muoiono di freddo o di valanga. A quei ragazzi, qualunque divisa portino».
«Caro Antonio, sono d’accordo, ma non farti sentire fuori da qui, non vorrei veder fucilare un amico. A quei ragazzi».
Dopo aver bevuto, il cappellano riprese: «In paese si parla di quella povera donna violentata e uccisa qui vicino; ieri le hanno fatto il funerale. I lupi sono tra noi, la guerra li scatena».
«Non mi parlare di lupi, tormentano i miei sonni da mesi – replicò il dottore –. Comunque ti sbagli. Io i lupi li conosco, da noi sulla Sila ci sono. Quando andiamo sul monte a volte li sentiamo, e vediamo cosa fanno. Uccidono, ma per sfamarsi, per sopravvivere. Non sono crudeli, non lo fanno per sadismo, non si uccidono tra loro e non azzannano mai le loro femmine. “Homo homini lupus”, già lo diceva Plauto duecento anni prima di Cristo. Qui ci sono gli uomini e sono mille volte più pericolosi di qualsiasi belva».
Don Fiore assentì tristemente, fissò il bicchiere per qualche secondo e sussurrò in modo appena udibile.
«Lo dicevo con cognizione di causa, Antonio, io ho incontrato “quel” lupo».
«Vuoi dirmi che sai chi ha commesso quell’azione orribile? E come puoi – all’improvviso la verità si fece strada – vuoi dire che lui si è confessato, ha confessato il suo delitto a te?»
«Sì, Antonio, è così. È venuto da me a confessarsi. Naturalmente sai che non mi devi chiedere cose che non direi nemmeno sotto tortura».
Antonio capiva, sapeva che don Fiore era un sacerdote dalla fede saldissima, il segreto del sacramento era fuori discussione.
«Forse tu mi puoi dire perché l’ha fatto?»
«Ti racconterò una storia, ma nulla che possa farti arrivare all’identità dell’uomo. Posso anche dirti che la storia non ha un finale o almeno io lo ignoro. Versa un altro paio di grappini, ci servirà».
Il dottore versò una generosa dose nei bicchieri e don Fiore riprese a parlare con tono pacato.
«Questa persona, la chiamerò il lupo anche se tu hai un alto concetto dei lupi, è un militare, un graduato. Non è un segreto, un civile non sarebbe venuto dal cappellano militare con tutti i bravi curati che ci sono in questi paesi. Lui viveva in una grande città e ha persino una certa cultura. Questo lupo però è timido e introverso, non fa amicizia né con gli uomini né con le donne. Così aveva l’abitudine di andare con le prostitute. Una sera una di quelle povere donne lo fa arrabbiare. Il lupo ha dei problemi col sesso, così lei lo prende in giro e lui la picchia, forte, fino a farla svenire. Si accorge per la prima volta che picchiare una donna lo eccita. E così la violenta».
«Quindi mi dici che è un violento, un vero delinquente recidivo».
«Oh sì, un violento recidivo, ma credo che sia malato, non un delinquente vero. Lasciami proseguire. Lo fa altre volte, sempre nella sua città. E lo fa senza provocazioni. Ha capito che gli piace, quindi le picchia e le violenta. Ma non aveva ucciso, non ancora».
«Possibile che nessuno lo abbia fermato, la polizia».
Un sorriso amaro comparve sul viso del sacerdote.
«La polizia, amico mio, quando picchiano e violentano una prostituta non muove un dito. Anche loro pensano, come molti, che trattandosi di una “puttana”, non sia un reato così grave, hanno cose più importanti da fare. Comunque sia, il lupo viene chiamato militare e questa nuova vita, con i suoi pericoli, lo distoglie da altri pensieri, almeno sino all’altro giorno».
«Già, l’altro giorno, cosa è successo?»
«Era da solo, aveva avuto un permesso di poche ore perché, vedi caso, voleva venire qui, al tuo ospedale».
«Qui? E perché?»
«Perché aveva un amico, l’unico che si era fatto con quel suo caratteraccio chiuso. L’amico era stato ferito e lo avevano portato qui. Ma quando è arrivato gli è stato detto che era morto. Lui era sconvolto e arrabbiato col mondo intero; capisci, l’unico amico che avesse mai avuto. Così, in quello stato d’animo, si è avviato per rientrare, ma sulla strada ha incontrato quella povera donna. All’inizio non voleva ucciderla, però gli era scattata quella molla che lo spingeva a fare male. L’ha aggredita e picchiata. Poi la sua follia ha fatto un passo avanti. Il suo amico era morto, perché non doveva morire anche quella donna? Così l’ha strangolata. Il resto lo sai. Ma lui, il lupo, quando è venuto da me non era più la stessa persona. Era davvero pentito e ha chiesto il mio aiuto. Aveva paura di rifarlo e non voleva. Cosa potevo fare? Gli ho negato l’assoluzione e gli ho detto che per averla avrebbe dovuto prima costituirsi, e lasciare che la giustizia umana facesse il suo corso. Solo così poteva sperare nella misericordia di Dio».
«E lui lo ha fatto? Lo farà?»
Il sacerdote sorrise tristemente.
«No, non lo farà. Ha scelto un’altra strada».
Don Fiore estrasse da una tasca una lettera spiegazzata.
«Questa è sua, ha chiesto a un soldato che andava in licenza di portarmela, l’ho avuta ieri sera. Te la leggo.
“Reverendo padre,
il peso che non avete potuto togliermi dall’anima mi opprime. Voi mi avete consigliato di affidarmi alla giustizia umana prima di affrontare quella di Dio. Sono un soldato, per queste cose la giustizia militare ha una sola risposta: il plotone di esecuzione. La mia morte sarebbe inutile per me, che già sono morto nell’anima, e non servirebbe alla patria, che vi prego di credere io amo. E poi non voglio dare un rimorso in più a quei ragazzi che dovrebbero togliermi la vita. Ho fatto parte di uno di quei plotoni e ho sparato a un ragazzo di vent’anni. Ancora oggi sento le sue grida, ha invocato la madre sino a quando le pallottole gli hanno spaccato il cuore. Non meravigliatevi se un assassino quale sono ha provato rimorso nell’uccidere. Quella volta non fu perché in me si era risvegliata la belva, io ne fui obbligato.
Quindi ho deciso di affrontare direttamente la più alta Giustizia, quella di Dio, sperando nella Sua immensa misericordia.
Oggi ci sarà un assalto senza speranza e la morte la cercherò con tutte le forze, a costo di gettarmi direttamente sulle baionette nemiche. Mi toglierò la piastrina, mi merito una tomba senza nome, che a nessuno venga in mente magari di darmi una medaglia. Il mio non sarà eroismo, ma pura espiazione.
Vi prego di ricordarmi nelle vostre preghiere, e di ricordare soprattutto quella povera donna della quale sono stato il più spietato dei carnefici”».
La grappa era finita, e anche la storia. Don Fiore ripiegò pensosamente la lettera.
«Non credo che saprò mai se ha messo in atto il suo proposito».
Il dottore si alzò lentamente, staccò la lanterna dal gancio e prese il mantello.
«Forse invece lo saprai presto. Quando hai benedetto i corpi nell’obitorio, li hai osservati bene, tutti quanti?»
Don Fiore si alzò con lo sguardo interrogativo, poi prese a sua volta il mantello.
«Non lo faccio mai, la benedizione è per tutti e per nessuno in particolare, i defunti sono tutti uguali davanti a Dio. Perché me lo chiedi?»
Il dottore uscì nell’aria fredda, con la lanterna in mano, e si diresse verso la tenda obitorio. Camminando, appoggiò un braccio sulla spalla di don Fiore che lo aveva raggiunto.
«Amico mio, il destino a volte si compie in modi strani. Il tuo lupo ha raggiunto il suo scopo. Credo che sia lì, che ti aspetta. Io non entro, devo rispettare il tuo segreto, ma sono certo che se lo cerchi lo riconoscerai. Ha trovato la sua morte eroica e anonima, salvando molte altre vite. A quest’ora certamente ha già avuto il suo giudizio dall’unico tribunale che lo può giudicare».
Aveva ripreso a nevicare, sottile sottile. Mentre Don Fiore si tratteneva nella tenda, il dottore rimase fuori al buio, ad ascoltare il vento che scendeva dalla valle e ad assaporare l’odore della neve. Un pensiero attraversò la sua mente e lo riempì di nostalgia di altri luoghi e di altri tempi. Se non fosse stato per il rombo cupo delle cannonate che di tanto in tanto rompeva il silenzio, avrebbe potuto essere nella sua terra, dove la Sila si addolcisce verso il mare; ma certe notti di inverno, se si ascoltava attentamente, si poteva udire lontano l’ululato del lupo.

Copyright © 2005

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