Albo d'Oro

 

IL SOGNO

Lenio Vallati


Quand’ero piccola, qualcuno mi ha detto che i sogni sono palloncini che volano nel cielo. Quando uno di loro scoppia, significa che il sogno si è avverato. Io ne avevo uno grande dentro al cuore. Ricordo che vivevo in una casa con tanti bambini, e delle signorine che ci badavano. Io ero la più grande, e spesso avevo il compito di stare attenta ai più piccoli. Ma non ero felice. Avvertivo dentro di me un grande bisogno d’amore. Avrei voluto una persona che ogni tanto mi prendesse tra le braccia e mi sorridesse di un amore infinito. Avrei voluto che fosse soltanto mia. Qualcosa del genere mi sembrava di averlo già provato, ma dovevo essere molto piccola tanto che mi sembrava appartenesse a un’altra vita o ai miei sogni. Sì, a volte ricordavo vagamente un volto di donna che mi prendeva in braccio e mi sorrideva amorevolmente. Accanto a lei c’era anche un uomo. Poi un boato, improvviso, urla ed io in un lettino di ospedale. Di lì a poco, la grande casa con tutti quei bambini. Trascorse molto tempo. Diversi anni. Un giorno una signorina riunì alcuni di noi in una grande sala e ci disse che saremmo stati adottati. Cosa vuol dire? Chiesi. Avremmo avuto un padre e una madre. Una famiglia vera. Il mio sogno si stava dunque avverando? La signorina ci raccomandò di comportarci bene. Dovevamo accettare con grazia i regali che i nostri futuri genitori ci avrebbero porto e avremmo dovuto dare loro un bacio sulla guancia. Li avremmo dovuti chiamare “mama” e “papa”. A me lavarono lo stesso vestito stinto che portavo indosso da sempre e mi posero in testa un grosso fiocco bianco. Una mattina arrivarono i miei nuovi genitori. Una signora bassa e grassa e un signore di poco più alto ma quasi altrettanto grasso. L’uomo mi porse una bambola, mi abbracciò e pianse a lungo. Anche la donna aveva gli occhi lucidi. Io non capivo bene perché, né cosa sarebbe successo. Una signora russa mi disse che erano italiani e che mi avrebbero portato con loro in Italia. Non vedevo l’ora. Trascorremmo insieme tre giorni in un ambiente costituito da un lungo corridoio con tante graziose stanzette ai lati. In ognuna di esse due genitori e un bambino o due. Mio padre mi aveva comprato un sacco di giocattoli. Una palla, una macchinina rossa, scatole con mattoncini colorati e anche alcuni libri. Ce n’era uno con tante figure e strane parole che le indicavano. Io non le capivo, così come non capivo il linguaggio dei miei genitori. Comunque fu facile farsi intendere per le cose più urgenti, come andare in bagno oppure far capire loro che avevo sonno. Io mi divertivo molto a far ingelosire mia madre. Fingevo attaccamento solo per mio padre, e lei piangeva. Ma era solo un gioco. Mia madre mi apriva le braccia ed io fingevo di ignorarla, rifugiandomi in quelle di mio padre. Tre volte al giorno ci recavamo in un locale accanto. C’era un grande ristorante, e ogni ben di Dio. Pomodori, riso, yogurt. Io fino ad allora non avevo mangiato che patate! Mio padre indossava un lungo cappotto grigio. Io mi accorsi che lo abbottonava sempre in malo modo, di traverso. Io non volevo genitori così “sprecisi”, e presi ad insegnar loro come si doveva fare. Di notte avevo un lettino accanto al loro. Prima di addormentarmi sentivo il russare della mamma, poi più nulla, finché il sole del mattino non entrava coi suoi raggi nella stanzetta. Dietro a questa abitazione c’era un grande spiazzo con altalene, scivoli ed altri giochi. A me piaceva moltissimo lasciarmi sospingere dal babbo sull’altalena. Mi pareva che il tempo andasse all’incontrario e mi trasportasse a quand’ero piccola e, forse, felice. Oltre quest’area riservata ai giochi si estendeva un fitto bosco. Un giorno i miei genitori mi ci portarono. Mio padre ogni tanto mi issava sulle sue spalle perché ero ancora troppo piccola e mi stancavo facilmente. Tra il fogliame cupo degli alberi vedemmo passare due cavalli. Cominciavo a voler bene a queste due persone che erano improvvisamente entrare nella mia vita. La mamma assomigliava ogni giorno di più alla persona che avevo sempre sognato. La mattina del terzo giorno aprii gli occhi e la vidi accanto a me, che mi sorrideva di un amore infinito. Ed era soltanto mia. Naturalmente scappai e corsi dal babbo. Lei pianse, ma era solo un gioco. Forse volevo capire fino a che punto mi amava. Un giorno la signora russa che qualche giorno prima mi aveva parlato dei miei genitori, tornò improvvisamente a trovarci. Stavamo festeggiando il compleanno di una bambina del nostro gruppo. Poche parole che fecero scendere tra noi una cappa di gelo. Mio padre divenne improvvisamente scuro in volto. Mia madre e le altre donne incominciarono a piangere. Noi bambini ci eravamo resi conto che qualcosa di grave stava accadendo, ma non sapevamo cosa e continuavamo imperterriti a giocare. Frasi concitate, singhiozzi. Adesso la torta di compleanno era rimasta quasi intatta sul tavolo e sembrava appartenere ad un’altra realtà. La signora russa ci prese da una parte e ci spiegò che i nostri genitori sarebbero dovuti ripartire senza di noi per l’Italia. Ma non è niente, ci disse. Soltanto il breve spazio di tre giorni, lungo appena quanto quelli che avevamo appena trascorsi con loro. Solo il tempo necessario per procurarsi qualche foglio indispensabile all’adozione e di tornare a prenderci. La prossima settimana saranno qui di nuovo, ci disse. Poi tutto il resto accadde in una fretta vertiginosa, come se un vortice improvviso fosse calato su di noi, intenzionato a rapirci. Arrivarono nel piazzale tre macchine. Mio padre continuava ad abbracciarmi forte mentre la signora russa mi strappava da lui e mi conduceva verso una delle auto. Anche mia madre teneva le sue braccia verso di me. Io dicevo loro non piangete, non è niente, solo una settimana di lontananza, vi aspetterò. Che ragione c’era di piangere a quel modo? Ero stata sola per tanto, troppo tempo e una settimana sarebbe volata via come il mio palloncino tra le nubi. Trascorse una settimana e niente. Arriveranno la prossima, ci disse la signora. Un intoppo li ha trattenuti. Un’altra settimana. La tristezza cominciava pian piano ad impadronirsi di me. Ecco, non sarebbero più tornati. Non mi amavano abbastanza, nonostante tutti i loro pianti. Forse facevano solo finta, erano soltanto dei bravi attori. Mi dissi che anche a me non importava niente di loro. Potevo anche farne a meno, come era successo per tanti anni. Ma la notte non passava mai, in attesa di un volto che mi desse la buonanotte e mi rimboccasse amorevolmente le coperte. Poi pensai che non gli ero piaciuta. Avevano deciso di non adottarmi e avrebbero scelto un altro figlio al posto mio. Forse non mi ero fatta amare abbastanza. Avrei dovuto lasciare che mio padre si abbottonasse quel maledetto cappotto grigio come meglio gli pareva. Non avrei dovuto far ingelosire mia madre fingendo di non volerle bene. Mamma, dicevo tra me nella notte, io lo facevo solo per scherzo, ma ti volevo bene, sai. Se ritorni ti prometto che ti colmerò di baci ogni giorno che staremo insieme. Trascorrevano i giorni, lunghi, tristi come il paesaggio invernale che vedevo dalla finestra. La neve cadeva ogni giorno e aveva disposto davanti alla grande casa un lenzuolo immacolato. Gli altri bambini talvolta uscivano fuori e giocavano a rincorrersi o a tirarsi addosso palle di neve, e invitavano anche me ad unirmi ai loro giochi. Ma io non ne avevo voglia. Cominciavo a percepire che a tanti chilometri di distanza qualcuno, e qualcuna, stavano soffrendo quanto me. Amore e odio continuavano però a combattersi tra loro, in un avvicendarsi continuo di sentimenti. Spesso vedevo la signora e domandavo notizie di loro. Stanno bene, mi diceva, e presto torneranno a trovarti. Ma quando? Di lì a poco il lungo inverno russo sarebbe finito, e sarebbe incominciato il disgelo, e poi la primavera. Fiori dai mille colori avrebbero invaso il largo spiazzo di fronte al nostro orfanotrofio. Io ne avrei colti un bel mazzo e li avrei donati a papà e a mamma. Penso che le cose belle giungano tutte all’improvviso. Un botto improvviso mi aveva privato da piccola della mia felicità. Almeno così mi sembra di ricordare. Due persone, all’improvviso, mi avevano riportato la gioia che per anni avevo sognato. Una nube improvvisa mi aveva nascosto alla vista il palloncino dei miei sogni. Domenica tornano i tuoi genitori, mi disse la signora. E quella mattina eravamo tutte disposte in semicerchio, a scrutare il cielo nella speranza di veder improvvisamente spuntare il muso di un aereo. Improvvisamente lo vidi, lassù, e ne percepii il rombo. A uno di quegli oblò sospesi come palloncini dovevano esserci i volti tanto sospirati di mia madre e di mio padre. L’aereo atterrò sulla pista di Perm. La signora russa ci aveva detto che dovevamo stare tutti fermi ad aspettare, ma io non ce la feci, e uscii dal gruppo con tutta la forza che ancora possedevo. Corsi verso di loro. Un abbraccio infinito. Sì, mi disse mio padre, siamo di nuovo qui e non ci lasceremo mai più. Adesso capivo il suo linguaggio, era diverso sì dal mio ma solo nella forma, perché era un linguaggio universale, era il linguaggio del nostro cuore. Mia madre non voleva più staccarsi da me. Le dissi che le volevo bene, anche se forse non glielo avevo mai dimostrato. Ma era solo un gioco. Non l’avrei più fatto, le giurai. Lei non mi capiva, e continuava ad inondarmi delle sue lacrime. Trascorremmo una decina di giorni in un grazioso villaggio circondato da un fitto bosco. Nonostante fossimo già in primavera, uno strato di neve faceva affondare i nostri scarponi ogni volta che ci recavamo alla mensa vicina o a un piazzale dove c’erano giochi per bimbi. Ah, le altalene! Adesso i miei genitori mi spingevano alternativamente e accarezzavano i miei capelli lunghi e biondi. Il sole che trapelava dalle folte chiome degli abeti era incredibilmente caldo, e li faceva brillare del colore dell’oro. Anche le altre famiglie erano insieme a noi nel nuovo accogliente albergo. Ogni giorno c’era aria di festa, e brindisi, e canti di gioia. Una mattina ci portarono tutti all’aeroporto. Ci imbarcarono in un piccolo aereo ed io ricordo che avevo molta paura. Era la prima volta che montavo su un aggeggio del genere, e non avevo nessuna voglia di morire, adesso avevo trovato la vita. Atterrammo a Mosca, in un aeroporto grandissimo. L’albergo che ci accolse era favoloso. Rimanemmo soltanto due giorni. La camera era lussuosa. Un letto grande e un lettino. L’unica cosa negativa era che mio padre si sentì male l’ultima notte della nostra permanenza. Lui diceva che era tutta colpa dello stress accumulato negli ultimi sei mesi. Al mattino, per fortuna, tutti i suoi malanni sembravano miracolosamente spariti. Mi comunicò con voce raggiante che a mezzogiorno mi avrebbe fatto assaggiare una specialità italiana al ristorante situato al primo piano. La mamma preparò le valigie e si fece aiutare da mio padre a portarle nella hall al piano terra. Erano tutti raggianti di felicità. Al ristorante mi portarono un piatto colmo di roba strana e rossastra. Sono spaghetti, mi disse mio padre, è la specialità della nostra terra alla quale tu fra poco apparterrai, ma a me non piacquero affatto. Strano, disse mio padre, e prese dal mio piatto una lunga forchettata e se la portò alla bocca. Una smorfia si dipinse sul suo volto. Hai ragione, mi disse, fanno schifo, sono scotti! Mi fecero portare un gran piatto di pomodori che divorai avidamente. Poi ancora un vortice, ma questa volta piacevole, ci trascinò di nuovo all’aeroporto. Alle diciotto in punto, via, verso l’Italia. Vedevo sotto di me la mia terra, forse chissà, per l’ultima volta. Ma non mi importava di lasciare le mie radici, esse erano ancora troppo piccole e non ne avrebbero sofferto, avrebbero trovato terra fertile altrove. Io guardavo dal finestrino e immaginavo come sarebbero stati i miei nonni dei quali i miei genitori mi avevano a lungo parlato. Orami capivo qualcosa della loro lingua e mi facevo a mia volta intendere. Guarda laggiù, mi disse mio padre. Tra le nuvole che si allargavano a perdita d’occhio spuntavano scintillanti vette aguzze ricoperte di neve. Le Alpi, l’Italia! Cercai tra quelle soffici nubi il mio palloncino. Doveva essere da qualche parte, ma non lo trovai. Forse si era nascosto. Poi mi ricordai che quando un palloncino scoppia vuol dire che un sogno si è avverato, e così doveva essere successo per me. Adesso sono davvero felice nella mia casa in Italia con i miei genitori e i miei nonni. Penso però che non appena un sogno si esaudisce bisogna averne pronto un altro, perché non si può vivere una vita senza sogni. E allora ecco un nuovo palloncino salire al cielo, sperando che un giorno scoppi. Il mio sogno è... che in un prossimo futuro non esistano al mondo bambini abbandonati e senza una famiglia, e che tutti possano essere felici come lo sono io adesso. Che ci sia qualcuno la sera a rimboccargli le coperte, e li abbracci, teneramente, di un amore infinito.

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