21° Premio Letterario Penna d'Autore - Sezione Racconti: Lucilla Nele e Stefano Capocelli

 

SECONDO PREMIO - SEZIONE RACCONTI

LUCILLA NELE e STEFANO CAPOCELLI (Napoli)

DUECENTONOVANTADUEMILA E 1

Mi avevano detto che sarebbe stato qui. In questo piccolo locale a ridosso della casa, dopo uno scampolo di giardino. Lui qui ci tiene le sue cose. Vecchi attrezzi da lavoro appesi ad una parete, la maggior parte corrugati dall’uso e dall’avvizzimento dell’età, una vecchia radio poggiata su una tavola di legno, poi ancora un baule pieno di ricordi, ma che non apre mai, e qualche scatola di latta che Dio solo sa perché conserva. Questo è il suo vuoto. Uno di quei posti dove ad un uomo che ha passati i cinquanta tutto è concesso, a cui non gli si può certo venire ad esautorare le sue leggi per impiantarne al loro posto delle altre o venirgli a dire che questo o che quello. Questo è il suo vuoto, e lui lo riempie con i suoi codici. È qui che ci porta. Ed è qui che svuota la sua depravazione, e lo facciamo.
Non potevo aspirare ad un posto migliore, torbido e afoso, e in un momento così sorprendentemente complice da rendere la condizione perfetta.
Lo seduco. Ed è un gioco da ragazzi. Mi riesce facile perché lui crede di condurre, ma, alla fine, sarò io a portarlo dove voglio, e, di questo, ne sono sicura. Non servì a molto alla moglie cacciarlo di casa in passato, giacché l’uomo, mentre giurava promesse e patti alla consorte, nascondeva, con la mano destra, sudicia, il suo crimine appena consumato intanto che, con la sinistra, già faceva uno scongiuro con fare infantile. Sono convinta che pensa ora di imbrogliarmi in un gioco simile, ma, benché io bruci piacevolmente all’idea di essere usata da lui, a differenza della moglie, non agisco per il suo bene, io auspico la sua morte e, se sarò fortunata, saggerò il piacere di esserne l’artefice.
Quando mi sveste i suoi occhi si accendono dalla frenesia.
Mi annusa come fossi un effluvio di essenze aromatiche, ma nei suoi occhi giallastri leggo contemporaneamente un gesto di esitazione ed un impercettibile tremore negli occhi, quasi fossero per lui presagi di quello che gli capiterà.
Fa per guardarsi intorno, come per cercare lo sguardo integrale della moglie, sensale d’ogni più sconcia lascivia, ma i suoi occhi cadono sui suoi arnesi, sul quel baule serrato e quelle inutile lattine che gli ricordano che qui tutto gli è concesso. Così, in un attimo, si bagna le labbra, mi bacia, e divampiamo rapidamente in un fuoco di passione.
Fuori i minuti. Sei circa.
Cinque e cinquantanove, cinque e cinquantotto...
Mi consuma, attimo dopo attimo, confessandomi tutto il suo piacere, mentre io, infida, celatamente gli inietto il mio veleno. E, più le sue labbra si accostano a me, più il suo volto si copre di una maschera vellutata e colorata di ardesia, una maschera di morte.
Le sue dita di sabbia, arancioni, mi ghermiscono con forza. Mani ruvide, di quelle che hanno lavorato duro tutta una vita. Mani avide, di quelle che non lasciano andare la presa, anche nel pericolo, pur di soddisfare i propri bisogni.
Gode di me con ingordigia.
Un desiderio smodato.
Mi stringe con soddisfazione ed io gli mostro ogni volta il mio sorriso luccicante, beffardo, ironico e soddisfatto.
Non c’è niente di meglio che uccidere la propria vittima con calma, mentre la compiaci, illudendola di farle del bene col tuo sapore, dando sfogo al suo piacere. La uccidi lentamente, con la tua sapidità mortale. In realtà si ammazza da sola, almeno, per quanto ne so io, non c’è giudice, oggi, che mi condannerebbe.
Cinque minuti.
Quattro e cinquantanove, quattro e cinquantotto...
E il suo organismo non tarda a reagire. Forse troppo presto.
Un colpo di tosse, un altro ancora più prepotente.
Poi un altro, violento quanto una bastonata alle gambe, tanto da fargli perdere l’equilibrio. Ed io cado a terra con lui. Ora siamo distanti l’una dall’altro.
Me ne resto qui a fissarlo e a guardarlo morire.
Tre minuti e trentaquattro...
Ecco gli esseri umani. Macchine perfette dai congegni ingolfati, che nessuno di quegli arnesi attaccati alla parete potrà mai riparare. La macchina ora arranca, sputa sangue, i suoi meccanismi si sono ossidati, logorati, a testimonianza di tutta la sua imperfezione e della presunzione della sua natura difettosa. Una macchina volta all’autodistruzione anziché alla propria evoluzione.
E ancora tosse, e ancora sangue.
Nell’aria lastre di ardesia galleggiano e si riflettono a terra su di un lago avoriato, striato di vermiglio.
Tre minuti e dieci, tre minuti e nove...
Un urlo, quello della moglie, spacca con un colpo le lastre di ardesia nell’aria. Io punto lei, lei punta me.
Entrambe sappiamo cosa sta succedendo e l’odio, che batte nei pochi metri che ci separano, sembra quasi lasciare al dimenticatoio il poveretto riverso a rantolare dolorante sul pavimento.
Poi, come previsto, comincia tutto un piangere e strillare, un rimproverarsi e un rimproverare. L’uomo si lascia strattonare, poi stringere, rincuorare, poi ancora ammonire.
È inerte, non risponde. Continua solo a tossire. I suoi occhi sono vuoti, come vuoto è tutto ciò che ci circonda. Vuoto come lo sono i ricordi in quel baule, come quei barattoli di latta.
Un vuoto color ardesia.
E vuoti e di ardesia, i suoi occhi fissano me, lacerata.
Lei. Lei, invece, pare ignorarmi adesso, pensa solo a lamentarsi. E la tensione aumenta.
Poi, uno scatto. Viene verso di me. Si muove decisa, adirata, ma non la temo. Io sono un’assassina.
È vicina, sempre più vicina. E il suo passo arriva quasi a sfiorarmi il capo. Ma poi, mi evita. Tira dritto fino ad afferrare il vecchio telefono del capannone. Sono gemiti impercettibili quelli che intanto provengono dal fondo della gola della vittima ed io, da brava carnefice, me ne compiaccio.
La moglie intanto chiede aiuto, chiama soccorsi, implora medici. Digita impazzita decine di numeri sulla tastiera dell’apparecchio, mentre alle sue spalle i colpi di tosse dell’uomo si fanno sempre più flebili e il suo respiro, esausto e pesante, diventa ogni secondo sempre più irregolare.
Lancinanti dolori al petto gli costringono il viso in una smorfia di rabbia. Rabbia di chi non è abbastanza forte per sopportare. Rabbia di chi sta morendo, e sta morendo per me. Sta morendo per me e per tutte le altre. E delle altre, oggi, io sono la testimone.
Le altre. Venti al giorno, per trenta giorni, per dodici mesi, per quarant’anni. Quarant’anni e un giorno.
Duecentonovantaduemila e 1. Questa sono io. Una tra le tante, sì, indistinguibile, certo, contano anche le altre, anzi.
Eppure io sono unica.
Unica, perché l’ultima.
Un minuto, cinquantanove, cinquantotto...
Ecco quello che mi resta.
Giusto il tempo di vedere arrivare l’ambulanza.
Qualcuno già si prende cura della moglie, disperata per la sconfitta che ingiustamente sente anche sua.
Io mi sto spegnendo, ormai di me non restano che le ultime scintille, gli ultimi fuochi d’artificio a celebrare questo successo.
Il fumo comincia a farsi più rado e l’ardesia nell’aria sembra trasformarsi in avorio.
E mi sembra di sentirla, la vittima, sulla barella, agonizzante e senza voce, rivelare il nome del suo assassino.
O forse ad esprimere il suo ultimo desiderio.
Un infermiere, con aria indifferente, gli si avvicina per sentire cosa vuole.
Cinque secondi, quattro.
Le parole gli scoppiano da una bolla di sangue: “L-ul-t-ima-si-ga-re-tt-a”.
Tempo scaduto.

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