20° Premio Trofeo Penna d'Autore: Premio Speciale del Presidente conferito a Vincenzo Prete

 

SEZIONE C: RACCONTI - FIABE - NOVELLE
PRIMO SPECIALE DEL PRESIDENTE
 

Vincenzo Prete di Gallipoli (LE)
 
per il racconto
LA TORRETTA

«Dio del cielo, Signore delle cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna, ma ti preghiamo, ma ti preghiamo, su nel Paradiso, su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne.
Santa Maria, Signora della neve, copri col bianco tuo soffice mantello il nostro amico, nostro fratello, su nel Paradiso, su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne.»
Che nostalgia questo coro di montagna! Un’esecuzione a fil di voce, dolcissima, come non l’ho mai sentita. Un coro d’angeli. Quasi che i miei amici alpini, che lo stanno cantando in chiesa, abbiano paura di rompere l’irreale silenzio che incombe palpabile in questo luogo sacro.
Mentre cantano, si guardano gli uni gli altri per farsi coraggio. Le gambe tremano, come quando, fiatone in gola, s’inerpicano per i sentieri di montagna durante le esercitazioni. Lacrime agli occhi tradiscono intensa commozione e strazio nel cuore.
Cantano per me, caduto in missione nella disgraziata, eppure amata terra di Herat, in Afghanistan, nell’adempimento del mio dovere.
Accanto al feretro mio padre Francesco, con in mano il suo cappello di vecchio alpino, sbiadito, logoro e ormai inutile, e mia madre Anna senza più lacrime, che non stacca un attimo gli occhi da me. Dall’altro lato, spauriti e sperduti tra tanta gente comune e le più alte cariche dello Stato, la mia fidanzata e i miei fratelli, che a turno accarezzano il mio cappello di alpino, posato come triste cimelio sul tricolore, che mi avvolge senza più riuscire a scaldarmi.
Ed io che ascolto il coro non più sulla terra, ma davvero dalle montagne del cielo, sulle quali mi hanno lasciato andare, come hanno chiesto i miei amici, Dio del cielo e la Signora della neve.
Ma quanto mi mancano le mie montagne del vicentino, tra le quali sono nato e cresciuto, e quelle del bellunese, dove ho vissuto la mia vita di alpino, arruolato per amore della penna nera!
* * *
Avevo sognato di fare l’alpino fin da bambino. Forse perché sono nato in terra veneta; terra per natura e per vocazione rivolta alla catena delle Alpi. O forse perché in famiglia ho respirato da sempre aria di montagna, e di alta montagna.
Me la faceva respirare a larghi polmoni, sin dai primi anni di vita, mio padre, che con fierezza tutta vicentina mi raccontava, le sere d’inverno, le sue esperienze militari vissute nella caserma e sulle montagne bellunesi, passo lento e basto in groppa a un ostinato mulo, che ogni tanto scalciava. Era il suo modo, diceva, di manifestare il suo disappunto per i carichi troppo pesanti.
Me la faceva sentire, l’aria di montagna, ancor più mio nonno, ormai nonagenario, che con occhi imperlati di lacrime, un po’ per la commozione, un po’ per gli occhi cisposi a causa della tarda età, mi narrava con struggente nostalgia la storia della sua vita, vissuta da alpino praticamente sempre in guerra, nella grande guerra prima, giovanissimo ancora imberbe, poi, nella seconda sciagurata guerra in epoca fascista e nazista.
La guerra, già.
«Bruta cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai…», mi diceva sempre, rinfrancato all’idea che sul mio cammino mai e poi mai avrei potuto incontrare questa vecchia megera che è la guerra, visto che il mondo viveva ormai in pace, sia pure conquistata al prezzo altissimo di milioni di vite umane, umiliate, degradate e infine stroncate.
E mentre mi raccontava, il nonno mi mostrava con fierezza il suo cappello di alpino con tanto di penna nera, che maneggiava con il rispetto e la delicatezza con cui si maneggia una reliquia sacra.
Ah! Quel cappello! Quante volte avevo sognato di indossarlo, un giorno, anch’io. E quante volte, di nascosto dal nonno, l’avevo preso dall’angolo più riposto del suo vecchio armadio e inforcato sugli occhi che sembravo uno spaventapasseri!
E fu così che, appena maggiorenne e ancora fresco di studi, mi arruolai volontario nell’esercito, pieno della baldanza e insieme dell’incoscienza tipicamente giovanile. Animato da una gran voglia di fare, di rendermi utile all’umanità intera, andai a mano a mano maturando la convinzione che era quella la mia strada, soltanto quella e che nessuno al mondo mi avrebbe mai distolto da quella scelta.
Quando poi, dopo il periodo di addestramento, fui destinato al 7° reggimento Alpini di Belluno, brigata Iulia, mi parve di toccare il cielo con un dito. La famosa brigata Iulia, di cui avevo tanto sentito favoleggiare! Io ne facevo parte viva! E presto sarei partito in missione.
Se avesse potuto ascoltarmi il nonno, gli avrei detto: «Visto, nonno, che te ti si sbajà?»
Il mondo, nel frattempo, era diventato tanto diverso da quello della mia infanzia. O forse, più semplicemente, ero io che ero divenuto adulto e vedevo le cose molto diversamente.
Sta di fatto che erano, in sequenza, accaduti eventi che avevano reso la vita più insicura, più difficile. Le torri gemelle dell’undici Settembre, le ormai tristemente note twin towers, il terrorismo internazionale, la guerra in Iraq, lo scontro di civiltà, le missioni in Afghanistan.
L’Afghanistan, già! La mia seconda patria. Mai avrei immaginato che sarebbe diventata anche la mia tomba.
Avevo già partecipato a diverse missioni, in altre parti del mondo, ma l’Afghanistan mi era entrato nel sangue.
Forse perché, ci avevano spiegato al comando, che non eravamo lì per fare la guerra, ma per aiutare la popolazione afghana a riconquistare la sua libertà dal regime oppressivo e fanatico dei talebani e, soprattutto, per costruire scuole, acquedotti, ospedali, che assicurassero a quella gente condizioni di vita più sicure e dignitose. Io ci credevo veramente e in quella missione mi ero buttato a capofitto, gettando, come si dice, il cuore oltre l’ostacolo.
Ero ben consapevole che operavamo in territorio ostile e pieno d’insidie, che da un momento all’altro avrebbero potuto mettere in serio pericolo la mia vita e quella dei miei compagni. Ciononostante, mettevo nel mio lavoro, da caporal maggiore, molto di più che il semplice senso del dovere. Ci mettevo l’anima.
Tanto più che il reggimento di cui facevo parte, il glorioso 7° reggimento Alpini, era considerato dalle forze alleate l’autentico nerbo della task force south east.
«Dio del cielo, Signore delle cime… su nel Paradiso, su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne…»
Ah! Le montagne!
La mia brigata era stata dislocata a Herat, nel cuore dell’Afghanistan, terra dai mille volti.
Eravamo arroccati, i miei cinquanta compagni ed io, in una piccola base avanzata, che era stata denominata snow, neve. A me, in particolare, ero stato assegnato un compito di grande responsabilità: quello di allertare il gruppo dei miei compagni a ogni minimo pericolo.
Per la nostra maggiore sicurezza eravamo stati dotati dei Lince, mezzi blindati armati capaci di proteggere da possibili, anzi probabili assalti o attentati, specialmente quando uscivamo in perlustrazione per il territorio. O almeno così ci avevano assicurato. Per quanto fossimo tutti convinti che fosse estremamente difficile, se non impossibile, proteggersi dalle mine disseminate a centinaia, a migliaia su quel terreno infido. Ogni metro percorso poteva essere l’ultimo. E quando, la sera, rientravamo in caserma dopo una giornata di perlustrazione e di controllo, ringraziavamo sempre Domine Iddio di averci conservato ancora per un giorno la vita.
La nostra giornata, intessuta di fatica, sudore, polvere e rischi continui, era però abbondantemente ripagata dal sorriso schietto e sincero di tanti bimbi afghani, quando ci capitava di incontrarli direttamente per le strade sterrate.
Accadeva puntualmente ogni volta che, percorso il tratto più rischioso, giungevamo alle porte del villaggio. Ci venivano incontro a dieci, a venti, a trenta. In un batter d’occhio eravamo circondati da bimbi che si portavano una mano alla bocca. Così semplicemente, ma eloquentemente, esprimevano la loro antica fame, ormai lo sapevamo. E quando distribuivamo viveri, acqua e altro, ci ringraziavano col sorriso, sul quale si leggeva gratitudine, gioia, ma anche ritrovato coraggio e speranza di una vita diversa.
Ci vedevano come dei salvatori, dei padreterni venuti a dare loro ciò che non avevano mai neppure immaginato di poter avere. Questo ci riempiva d’orgoglio e ci faceva dimenticare il peso di quella vita difficile.
Ah! Il loro sorriso! Che cosa non darei per rivederlo, quel bianco sorriso.
«…Santa Maria, Signora della neve... su nel Paradiso, su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne.»
Ah! Ancora le montagne! Le mie montagne!
Quella mattina eravamo usciti in perlustrazione nella valle del Gulistan, particolarmente insidiosa, lontana da Herat, ma al confine con la provincia di Helman, pericolosissima perché ad alta densità talebana.
Eravamo, i miei compagni ed io, nel primo mezzo blindato della colonna, quello più esposto a possibili agguati. Si procedeva lentamente, con uno stato d’animo a metà tra la paura di essere colpiti e la consapevolezza di un dovere comunque da compiere. Dopo ogni passo, un sospiro di sollievo. Un altro passo, un altro ancora e ancora un altro.
Dalla torretta di avvistamento del Lince sul quale ero appostato, scrutavo attentamente ogni metro di strada, pronto a dare l’allarme ai miei compagni. Sulla fiancata del blindato sventolava in bella mostra la bandiera italiana, sulla quale avevo con fierezza scritto il nome della mia città nativa, Thiene.
All’improvviso…
«Mi hanno colpito» gridai, portando istintivamente una mano alla spalla, in quei pochi interminabili istanti tra il colpo del cecchino proditoriamente sparato da una postazione invisibile e le grida disperate e scomposte dei miei compagni…
La torretta! Quella maledetta torretta! Il mio orgoglio e la mia perdizione.
* * *
Quando mi sono svegliato, m’inerpicavo, non sapevo perchè, su per queste montagne del cielo perennemente innevate, dalle quali ascolto questo struggente coro di montagna che parla di me.
«Dio del cielo, Signore delle cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna, ma ti preghiamo, ma ti preghiamo, su nel Paradiso, su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne.
Santa Maria, Signora della neve, copri col bianco tuo soffice mantello il nostro amico, nostro fratello, su nel Paradiso, su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne.»
Qui sto bene, Signore, ma mi mancano tanto i miei compagni, mia madre, mio padre, i miei fratelli, la mia morosa.
E le mie montagne. Ah! Quelle, sì, erano tutta un’altra cosa.
Perdonami, Signore delle cime.
Perdonami anche tu, Signora della neve.

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