Maurizio Catuara

 

Romanzo di Maurizio Catuara
Pagine: 163
Prezzo: 15,00 euro
ISBN 978-88-6170-088-8
 

 

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PROFILO DELL'AUTORE

MAURIZIO CATUARA è nato a Venezia nel 1945. Il raccontar storie lo ha sempre appassionato e stimolato. Nel 2006 ha pubblicato il suo primo romanzo di genere thriller: «Il lupo di Venezia - Fino alla fine del male», che si è classificato in semifinale in un concorso internazionale. Nel 2009 ha pubblicato una raccolta di racconti dal titolo: «Il buio e la luce».

DENTRO L'ABISSO

PARTE PRIMA

Alfredo Bonora, 55 anni, un metro e ottanta di fisico asciutto, quasi atletico, si aggiustò la giacca di colore blu e si apprestò a uscire da un garage di Piazzale Roma a Venezia, dopo aver parcheggiato la sua BMV nera. 15 ore circa era durato il suo viaggio Parigi Venezia, sempre guidando, riposandosi qua e là, ma sempre in macchina. Ora, però, si sentiva molto stanco.
Alfredo aveva un volto particolare, dovuto a un paio di rughe profonde che come canali impazziti gli solcavano le guance. Non bello, ma un volto sicuramente interessante, che dava il senso di uomo vissuto e sofferto. Tutto il suo bagaglio consisteva in una piccola valigetta con poche cose: un cambio di biancheria, un paio di camicie e toelette. Non era sua intenzione fermarsi a lungo a Venezia. A differenza di Parigi, qui l’aria sembrava più calda, più appiccicosa, un lunedì di un aprile inoltrato abbastanza anomalo, pensò.
Durante il viaggio aveva letto e riletto la lettera che pochi giorni prima aveva ricevuto dalla sua ex. Poche righe alquanto enigmatiche.
Un tempo l’aveva amata molto. Ancora non gli sembrava possibile, dopo così tanti anni. Una vita. Quasi vent’anni. Vent’anni di assoluto silenzio da parte sua.
Appena fuori dal garage, si fermò un attimo, cercando di abituare gli occhi alla nuova realtà. Tutto era decisamente cambiato dall’ultima volta, o forse non lo ricordava affatto. Aveva voluto fortemente dimenticare quei luoghi e quel pezzo della sua vita. Lo aveva voluto con tutte le sue forze. Alla fine gli sembrò di esserci riuscito, o quasi. Non che questo lo facesse sentire meglio. Da tanto tempo alla notte, soprattutto alla notte, i fantasmi della sua vita riaffioravano, urlandogli contro tutto il loro disprezzo e tirandolo per i piedi per non avere fatto nulla; per non avere mai voluto vendicarsi per il grave torto subito da quella che allora era sua moglie Paola. È l’unico modo per scacciarli era quello di svegliarsi di soprassalto. Solo allora si placavano e lo lasciavano in pace, almeno per quella notte. Identità impalpabili ma terrificanti.
Non sapeva ancora se aveva fatto bene ad accettare quell’invito così strano da parte della sua ex. Tanti anni prima aveva fatto un giuramento a se stesso: che mai e poi mai, avrebbe più voluto rincontrarla per nessun motivo. Troppo grave quello che gli aveva fatto, troppo grande il dolore che gli aveva procurato quella infame calunnia. Una calunnia creduta dalla magistratura e che gli aveva aperto la porta al carcere.
Avevano creduto a lei. Ma quello che gli aveva fatto più male era nel essere stato odiato da sua figlia Luisa, la sua dolce bambina. Troppo aveva patito, troppo. In maniera inimmaginabile, in maniera inumana.
Sei anni era durata la sua detenzione, anche se al terzo grado di giudizio, la cassazione decise per lui dieci anni; ma ne era uscito prima, per via di una condotta impeccabile in carcere; ma anche perché, probabilmente, avevano capito che dopo sei anni il suo fisico non avrebbe retto di più alla grave depressione e ai continui tentativi di suicidio. Un’anomalia questa, forse, tutta italiana. Sicuramente sarebbe morto. Sei anni dove l’inferno su era materializzato in tutte le sue più perfide e maligne manifestazioni; giorno dopo giorno, mese dopo mese. Dentro l’abisso. Anima e corpo. Odiato a morte anche da tutti gli altri detenuti, per il tipo di reato commesso, sicuramente tra i più odiosi e contestato da sempre anche tra la popolazione carceraria.
Due volte l’avevano salvato dal suicidio. Una volta era riuscito a procurarsi un sacchetto di plastica nel laboratorio dove lavorava per il confezionamento di suole da scarpe. Con una scusa si era recato in bagno e ci aveva messo la testa dentro. Ricorda quell’episodio come la fine di un incubo che si stesse avverando e che ormai stava durando da troppo tempo. Ci andò vicino, ma non ci riuscì. Fu Miki a salvarlo, un polacco omicida; un ometto piccolo e calvo di una quarantina di anni, tormentato da innumerevoli tic nervosi che scotevano continuamente il suo corpo, ma uno dei pochi che gli rivolgesse la parola di tanto in tanto. Miki aveva subito avvertito gli agenti di custodia, e quando riuscirono a togliergli il sacchetto di plastica dalla testa era già incosciente e cianotico.
Alfredo però non si arrese. Da tempo ormai aveva capito che la sofferenza dell’animo era più atroce della sofferenza del corpo; e dopo quell’episodio comprese che era arrivato al limite della sopportazione. Mesi dopo, ormai al culmine della sua disperazione, e deciso questa volta a chiudere per sempre la sua esistenza, si fece ricoverare in infermeria per un finto dolore al torace, e in un momento in cui fu lasciato solo, cercò e trovò una siringa, si piantò l’ago in una vena di un braccio, e ci pompò dentro tutta l’aria che poteva, fino a che la stanza si rabbuiò, dissolvendosi lentamente, sempre di più, fino a sparire dalla sua percezione. Ancora una volta, però, per una caso fortunato, non riuscì a morire e lo salvarono per puro miracolo. Più tardi, poi, pensò seriamente che per qualche ragione a lui sconosciuta doveva rimanere vivo; o forse doveva espiare per intero tutta la sua pena, nonostante fosse innocente. Si sorprese a pensare che tutto sommato, non riusciva ricordare se nella sua vita ci fossero stati mai dei bei ricordi. No, questo non era vero; c’era stato un periodo della sua esistenza dove trovava maledettamente lunghe le notti per la fretta di vivere un’altra giornata piena d’amore verso sua moglie e la sua adorata bambina. La piccola Luisa, un tesorino biondo, pieno di riccioli d’oro e dal viso di un angioletto. Si, quello era stato per lui il periodo più felice della sua vita. Luisa all’epoca aveva 6 anni. Ora dopo 20 anni, per quanto si sforzasse, non riusciva ad immaginare il suo volto. Sicuramente dovrebbe essere una donna molto bella; anche Paola era molto bella; chissà si chiese, forse assomiglierà a lei. Arrivò a un bar con la testa immersa nei suoi ricordi struggenti, trovò un tavolino libero e si sedette; si sentiva la gola terribilmente arsa. Il sentire quel vociare, quella sonorità così particolare a lui ben nota del dialetto veneziano, lo mise subito di buon umore. Quanti anni dall’ultima volta, quanti anni.
Mise una mano nella tasca destra e tirò fuori la lettera che Paola gli aveva mandato, e per l’ennesima volta lesse quelle poche righe scritte con una grafia grande e nervosa. Sicuramente la sua.

- Ciao Alfredo, spero tu stia bene, io non tanto. Avrei bisogno di vederti per favore. Debbo chiederti una cosa molto importante per me e per te. Vieni subito ti prego e fai come ti dico che poi ti spiegherò. Vieni in auto senza fermarti mai; c’è una ragione per questo. Non venire in aereo, e quando arrivi non telefonare. Arriva fino alla casa poi guarda alla finestra alla tua destra e se vedi sul davanzale un vaso di fiori ricoperto con della carta rossa allora potrai entrare, avrò lasciato la porta aperta per te; e questo per i prossimi 10 giorni da oggi. Mi raccomando fai come ti ho detto è molto importante. Ti aspetto, ciao. Manfredi Paola.

Alfredo trovò abbastanza curiose quelle poche righe. Intanto la trovò stranamente mielosa. Paola non aveva mai usato, che lui ricordi, espressioni come: per favore o ti prego; poi quell’accenno che non stava bene… ma, certo, pensò, lei ora aveva 52 anni e un problema di salute poteva anche essere possibile. Chissà, oppure forse anche per lei i mostri della sua coscienza si sarebbero risvegliati tirandogli i piedi alla notte e urlandogli contro tutto il loro disprezzo. E questa storia di non telefonare, di venire in auto e del vaso ricoperto con della carta rossa… un vero mistero. Chissà cosa avrà in mente, pensò.
Ricordò che una decina di anni prima, dopo una penosa gestazione, le scrisse una lettera di poche righe, che ora nemmeno ricordava, solo per darle il suo indirizzo e numero di telefono. In fondo, pensava, o forse solo sperava, che prima o dopo lei avrebbe voluto comunicare con lui, anche se lì per lì non riusciva ad immaginare lo scopo per cui lei lo avrebbe dovuto fare. Eppure le cose da dire erano tante. Pensava che forse un chiarimento, prima o poi, lei glielo avrebbe offerto. Dopo la sentenza di condanna definitiva della cassazione, da lei non aveva mai avuto un cenno, uno sguardo, una parola. Forse allora si era reso conto che aveva sposato un mostro, freddo e calcolatore e che avrebbe distrutto la sua vita. Lei comunque non gli scrisse mai, fino a pochi giorni prima. Quelle poche enigmatiche righe.
Si diresse verso l’imbarcadero con la testa piena zeppa di ricordi, ricordi per lo più angosciosi. Appena vide l’approdo, provò subito una strana sensazione che non riuscì subito a decifrare. Era come se si fosse allontanato da quel posto il giorno prima. Invece erano passati venti lunghi anni. Aveva ritrovato come d’incanto gli stessi particolari odori, fatti di salsedine dovuta a una sorte di umidità, e di quel particolarissimo sentore di muschio maleodorante caratteristico solo qui a Venezia, città che aveva amato da sempre. E solo Dio sapeva di quanta nostalgia ne avesse sofferto. Si mise in fila per il biglietto e intanto si guardò intorno osservando la gente. Moltissimi turisti, per lo più giapponesi, sommersi da macchine fotografiche e telecamere. Un gruppo di adolescenti chiassosi si spintonavano ridendo e scherzando. Nulla era cambiato, pensò. Il battello arrivò dopo pochi minuti con un gran frastuono delle sue eliche posizionate per la frenata. Alfredo si accorse che era già pieno di gente variopinta. Aspettò il suo turno e salì, posizionandosi con una certa difficoltà dalla parte opposta, vicino al corrimano. Voleva rivedere tutti luoghi a lui cari. Il battello si staccò dal pontone puntando direttamente nel “Canal Grande”, l’unica grande arteria d’acqua molto frequentata da tutte le tipologie di barche e barchette che solcavano ininterrottamente il cuore di Venezia. Arteria che collegava Piazzale Roma al Lido. Tragitto lungo in tutto un sei chilometri, circa.
Il suo approdo era quello di “San Marco”, da lì in una quindicina di minuti, sarebbe arrivato in Campo San Samuele in quella che era la sua casa. Mentre si avviava per l’intricata ragnatela di viuzze che caratterizzano la città, l’emozione cominciò a mordergli la gola e lo stomaco. Dopo vent’anni avrebbe rivisto Paola, la donna che era stata sua moglie. Dopo aver percorso alcune calli e campielli, che ricordava benissimo, si affacciò nel piccolo campo di San Samuele, svoltò alla sua sinistra e si trovò di fronte alla casa di Paola, addirittura ancora dello stesso colore: un rosa intenso, ma verniciato di recente. Si avviò lentamente al portone d’ingresso e andò oltre. Sicuramente lo avevano cambiato. Ora era protetto da un cancello in ferro battuto. Guardando la finestra ebbe un colpo al cuore: un bel vaso di rose gialle era sul davanzale e il vaso era ricoperto da della carta rossa. Forse, pensò Alfredo, era il segnale che sua figlia non era in casa… oppure chissà. Arrivò fino alla fine della via, quindi ritornò su i suoi passi, sperando di notare un qualsiasi movimento. Si ricordò di un piccolo albergo, a qualche centinaio di metri, anche se non ricordava più la via, forse esisteva ancora. Infatti era ancora là, e aveva lo stesso nome: “Piccolo Hotel”. Conosceva anche il proprietario, un certo Alcide, un omone grande e grosso, con una folta barba. Era avanti con gli anni già allora, possibile che nel frattempo fosse passato a miglior vita. La vita aveva le sue regole e sono regole scritte da sempre, uguali per tutti e che in nessuna maniera si possono trattare. Entrò in Albergo, alla reception un ragazzo sui trent’anni, molto magro, con barbetta e pizzetto, stava battendo le dita su una tastiera di un computer. Lo vide entrare e la sua attenzione si spostò sul nuovo arrivato.
 

continua

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- VETRINA LETTERARIA -

 
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