Romanzo breve
      
    di Valeria Vanni
      
    Pagine: 37
       Prezzo: 8,00 euro
       E-mail: larthia@tiscalinet.it
       Tel.: 055 499394

     

    I

    Una volta avevo chiesto a un adulto se il mio disegno del boa che aveva inghiottito un elefante fosse spaventoso. Come tutti gli altri aveva scosso la testa rispondendomi che un cappello non faceva paura a nessuno. Mi aveva voluto però mostrare un’illustrazione su un bel libro di storia. Indicando un’immagine aveva spiegato come ritenesse invece da temere ciò che vi era raffigurato. Guardai attentamente i corpi caduti sul campo di battaglia e mi colpirono i volti dei ragazzi sotto gli elmetti che imbracciavano armi con naturalezza. Enormi cannoni sparavano verso il fronte nemico tanto che pareva di udire il terribile fragore delle trincee. La guerra. Faceva indubbiamente molta paura. E non mi piaceva affatto.
    Pur non mutando opinione sul mio disegno o sui conflitti militari, decisi più tardi di servire la patria, essendo questa l’unica condizione per cui mi potessero essere assegnate missioni aeree. Dopo svariati incidenti ero stato infatti considerato non idoneo per volare, tuttavia mi avevano dato a intendere che avrebbero chiuso un occhio a causa della necessità di un bravo pilota in momenti tanto critici.
    Se avevo qualche dubbio sull’ incarico assegnatomi bastava mi fermassi a pensare cosa avrebbe detto il giovane disegnatore di boa. Se lo vedevo sorridere avviavo il motore, altrimenti svolgevo un compito differente. Non volevo tradirlo.
    Quando hanno infatti cercato di cancellare i suoi sogni ho capito immediatamente di doverlo difendere. Non potevo permettere la distruzione di speranze e desideri, a costo di portarli in salvo in qualche piccolo pianeta dell’universo. So che voi mi comprendete. Anche voi avete sicuramente sognato. Tutti i bambini, a un certo punto, scoprono il cielo. Succede mentre sono sdraiati in un prato e passa sopra ai loro occhi una nuvola dalla forma del loro pupazzo preferito. Oppure accade che perdano un palloncino e lo seguano con lo sguardo fino a quando si accorgono che tutto l’azzurro spennellato a casaccio tra le colline è in realtà un essere affascinante. Allora rimangono a guardarlo, letteralmente incantati dalle mille sfumature di una tavolozza sconfinata.
    Per i miei piccoli compagni di gioco le riflessioni sulle nubi e sui venti furono un giorno più che sufficienti e decisero di tornare allegramente a dar la caccia alle lucertole. Io no, io avevo scoperto il cielo, e quello sarebbe stato il mio grande amore, la mia sfida continua. Guardavo il falco e il gabbiano con occhi invidiosi, volevo seguirli volteggiare sui picchi e gli scogli.
    Un Natale chiesi per regalo un paio d’ali e mia nonna s’incaricò di cucirmele. In famiglia non presero troppo seriamente quella richiesta, credevano semplicemente volessi vestirmi da angelo. Non capirono così la mia iniziale esaltazione nel trovarle e la successiva disperazione nel constatare che non m’innalzavo neppure di un centimetro da terra. Ricordo ancora la carta stellata che avvolgeva il pacco in cui erano state riposte con cura. Erano bellissime e maestose. Le provai con trepidazione già figurandomi mentre mi esibivo in piroette sfrenate sopra il tetto della nostra casa. Ovviamente però, benché le sbattessi con forza, l’unico risultato fu che, nelle ore in cui seguitai con goffi tentativi sempre più disperati, il tappeto del salotto si ricoprì di penne bianche. Piansi per due giorni. Mia nonna, guardando e riguardando la sua creazione ormai spennacchiata, non capiva dove aveva sbagliato. Nella costernazione generale, tra i miei singhiozzi e le alzate di spalle dei parenti riuniti per celebrare le feste, mio padre fu l’unico a realizzare l’errore commesso: tutti si erano limitati a ragionare da adulti. Mi consolò dicendo che da grande avrei potuto guidare un aereo viaggiando per il mondo in lungo e in largo, e mi regalò un atlante affinché potessi seguire le rondini nelle loro migrazioni. Ogni sera, prima di addormentarmi, lo aprivo a caso e decollavo dai posti più strani con l’aereo che, ero sicuro, avrei un giorno meritato. Il Dio che mi aveva negato le piume me lo doveva. Ciò accadde, molti anni più tardi, e non dimenticherò mai l’emozione della prima volta che presi in mano i comandi e feci partire il motore. Sentivo ciò che sfiorava le ali dell’aereo come se mi toccasse direttamente la pelle, dal vento freddo delle montagne al polline di aprile: la mia carne accaldata e il suo gelido metallo erano una cosa sola. Avevo due pelli: ero un uomo-serpente, avevo due ali: ero un uomo-uccello, avevo una coda: ero un uomo-sirena. Avevo inseguito un sogno e l’avevo realizzato: ero un Uomo.

    II

    Senza fornirmi alcuna spiegazione mi hanno convocato in una stanza grigia e formale. Erano tutti seduti sul lato lungo di un tavolo costoso, imbalsamati nei loro scialbi ruoli. Provavo un intenso disagio, volevo tornare a studiare le mappe del mio prossimo volo, ma, a quanto pareva, dovevo rimanere lì a sorbirmi un’infinità di discorsi formali. Uno di loro iniziava una frase ampollosa, un altro la proseguiva rendendola ancor meno chiara, e così via. Vi confesso sinceramente che non li capivo, amo le cose semplici, io.
    Quando sembrò che avessero finito di parlare avevo il viso tutto rosso a causa dell’indecifrabile burocratichese dietro a cui si nascondevano. Le mie guance, benché abituate a temperature estremamente rigide, si erano vergognate dinnanzi a occhiate di compassione più taglienti di un’implacabile tramontana. Allorché compresero il silenzio da me manifestato divennero più espliciti: volevano incollarmi a una maledetta comodissima sedia. Volevano confinarmi dietro ad una scrivania fatta in serie. Volevano che indossassi ogni giorno giacca e cravatta abbinate e camicie dal colletto inamidato spargendo saluti ipocriti ai superiori. Ma soprattutto volevano che l’abbandonassi, che lo lasciassi arrugginire senza tornare ad accarezzare con un unico sguardo enormi campi di papaveri, e che io stesso arrugginissi di pari passo senza più potermi avvicinare alle stelle.
    Si è mai troppo vecchi per smarrirsi nelle ipnotiche macchie blu di un mare-menestrello mai stanco di narrare le proprie storie sulla melodia dei flutti? E’ mai troppo tardi per tuffarsi nelle invitanti nubi e sentire la propria mente leggera? No, non potevo crederlo. Così, con le lacrime agli occhi cercai di far loro capire che il mio aereo era la rosa a cui rivolgevo incessantemente le cure di cui necessitava. Proprio come un fiore esso era sempre in cerca di maggior affetto e allora, di tanto in tanto, si rompeva. Perciò non me la prendevo anche quando quest’inconveniente capitava nel bel mezzo del deserto. Sapevo che desiderava solo qualche attenzione in più, voleva che gli dicessi quanto gli volevo bene e quanto era importante per me. Allora quel cocciuto veicolo ripartiva borbottando: era la sua buffa voce che mi rimproverava una disattenzione nei suoi confronti. E subito via, su verso l’alto! Mi portava ancora una volta a incrociare stormi di uccelli che migrano senza preoccuparsi degli addii e a scorgere le dune farsi e disfarsi. In qualunque posto giungessi, qualsiasi panorama sorvolassi, mi accorgevo che diveniva un po’ mio, mi apparteneva perché mi rimaneva nel cuore... soprattutto se il luogo della sosta coincideva con quello di un piccolo principe d’infinita dolcezza.
    Nelle brevi ore in cui mi ricongiungevo ai compagni di volo, indomiti piloti, amici di scali lontani, comunicando che un certo lago si era quasi prosciugato sapevo che non lo avrebbero solo segnato sulle mappe ma ne sarebbero stati realmente dispiaciuti. Avrebbero pensato al baluginìo dello specchio d’acqua in un tiepido mattino di primavera, un attimo di raccoglimento che i funzionari in completi blu e grigi davanti a me non avrebbero mai capito. Il senso di quell’apparizione rifulgente dopo un duro viaggio notturno era qualcosa che non riuscivano affatto ad afferrare.
    Volevano togliermi questo possesso, l’unico che faceva di un uomo un re. Sì, proprio un re. Io ero un re, anche se ora mi comunicavano che ero un vecchio re cui non resta che abdicare. Non era più consono alla mia età cavalcare per il regno affrontando sempre nuovi pericoli. Potevo comunque consolarmi rimanendo seduto su un misero trono a occuparmi di scartoffie.
    I compassati dirigenti di là dal tavolo hanno domandato che cosa c’entrasse un velivolo con un fiore orgoglioso. L’unica risposta che potevo dar loro era il silenzio. Hanno smesso da troppo tempo di fantasticare e da ancora più tempo hanno smesso di credervi. Nelle loro cifre, nei loro dati, non vi era gioia, né disegni, né colori. Non ha significato avere pacchi e pacchi di fogli senza che di mezzo vi sia neppure l’ombra, l’abbozzo di una boa infantile.
    Sono uscito dalla stanza come se fosse stata divorata da alte fiamme, vagando fino a sera inoltrata per vicoli vuoti e maleodoranti, così da evitare qualsiasi presenza che non fosse quella dei gatti randagi. Infine mi sono seduto appoggiandomi a un lampione acceso.

    continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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