Narrativa
di Fabio Figara
Pagine: 37
Prezzo: 5 euro
ISBN 978-88-6170-005-5
 


 

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PROFILO DELL'AUTORE

FABIO FIGARA ha 27 anni, vive e lavora a Livorno. Già laureato in Storia, sta per conseguire la laurea Specialistica in Storia & Civiltà presso l'ateneo pisano. Ha scritto una tesi sul rapporto tra il Medioevo ed i mass-media, nello specifico sullo spazio relativo al Medioevo del quotidiano «La Repubblica», modi di dire sul Medioevo, utilizzo indebito d'immagini e quant'altro. Ha collaborato per alcuni mesi con due quotidiani della sua città (Il Tirreno e La Nazione) e nel 2004 ha pubblicato un romanzo dal titolo «Via Albertelli» per i tipi della Ibiskos Editrice (Empoli, collana il Caprifoglio). Attualmente collabora con il sito www.storiamedievale.net.

 

EMOZIONI DI UN PARTIGIANO

Buio. Non vedo niente intorno a me, ma sento chiaramente lo sfregare dei pantaloni lacerati dei miei compagni di cella sul freddo suolo di pietra e i gorgoglii dei nostri stomaci. Abbiamo mangiato solo un boccone da quando i partigiani ci hanno rinchiusi in quello che a me sembra già un loculo, come se la carcerazione preannunci la nostra fine. E pensare che ho cercato così a lungo i partigiani, per potermi unire a loro!
Ed ora che li ho trovati, vogliono condannarmi a morte come spia nazi-fascista. Io, una spia? Quando quel "signore" con i capelli brizzolati - che deve essere un po’ il capo baracca di questa sorta di avamposto sperduto tra i monti liguri, uno che avrà circa quarant’anni, non di più - ha dato l’ordine di farci uccidere come spie, più che da piangere mi è spuntato un sorriso.
Lui mi ha guardato, e deve avermi preso per pazzo. Fatto sta che, adesso, me ne sto rinchiuso qua dentro a patire il freddo e la fame, a contorcermi tra le braccia della morte imminente.
Dormo a tratti, per alcuni minuti, massimo mezz’ora, poi mi sveglio. Ho paura, sempre più paura. È una cosa strana, ma credo che le proprie paure, qualunque esse siano, si affrontino meglio quando intorno a noi c’è un po’ di luce. E io aspetto l’alba, aspetto la luce del giorno filtrare dalle sbarre dell’unica finestrella esistente in questa stanza, la nostra unica apertura sul mondo esterno.
Passa il tempo, il tempo della notte, con quella sua specie di odioso ronzio del silenzio. Già, la notte ha i suoi rumori, c’è qualcosa che si muove dentro la notte. Saranno degli spiriti? Eppure i sibili emessi dal silenzio devono nascondere qualcosa o qualcuno. E se ci sono degli spiriti, che tramite questo frinire, come mille cicale, cercano di dirci qualcosa, sono buoni o malvagi?
Poi il sole finalmente sorge: da questa finestra già filtrano quei primi raggi solari. Mi vengono in mente gli anni della mia adolescenza, gli anni che non tornano più, gli anni in cui pensavo di avere un po’ di felicità, gli anni in cui dormivo sul letto insieme a mia madre e a mia sorella, e in cui la luce del giorno, sfruttando ogni fessura tra le stecche delle persiane, solleticava le mie palpebre fino a destarmi dal torpore.
Laggiù a Porto Santo Stefano, in quel paesino ai piedi del Monte Argentario dove sono nato - in un viottolo chiamato Via dell’Arancio - alle prime luci dell’alba i pescatori sono già in mare aperto da più di un’ora per poter portare sulle bancarelle il pesce fresco, appena in tempo per l’apertura del mercato. Io ero piccolo e non mi interessava, ma mio padre, finché abitò con noi, si svegliava molto prima dell’alba, insieme a tutti, per poter solcare le fredde acque notturne con la sua imbarcazione. E anche quando non lavorava, con il suo orecchio di buon vecchio lupo di mare, si destava soltanto al rumore dei motori e delle eliche che, facendo ribollir l’acqua, permettevano alle imbarcazioni colme solo di reti vuote di partire e di lasciarsi alle spalle il molo; tutti salutavano la statua della Madonna posta vicino al piccolo faro, come se chiedessero protezione.
E ogni mattina, quando lasciavano gli ormeggi, i pescatori, strofinandosi gli occhi infossati e stanchi, pensavano al momento in cui sarebbero tornati, carichi di pesci, polpi e granci - non granchi, ma granci - e pensavano alla colazione che le mogli preparavano appena sveglie, al buon sapore del latte bollito o del caffè caldo, pensavano al risveglio dei propri figli, ai loro dolci lineamenti, al sangue del loro sangue.
D’altra parte Santo Stefano è questo, o meglio lo era prima che la guerra contaminasse la perfetta armonia dei suoi abitanti: un paesino composto da quattro case e alcune botteghe che si affacciano sul porticciolo, tra cui spicca, poco più in alto, un’antica fortezza spagnola, memoria dello "Stato dei Presidi", e dalle cui merlature spero si possa ancora ammirare il panorama costiero e spaziare con la fantasia, sentirsi liberi come gli uccelli del cielo.
Mentre navigo tra i miei ricordi arriva un ragazzo, che avrà sì e no diciott’anni: viso pulito e occhi marroni profondi, capelli castani un po’ spettinati. Parla in dialetto genovese. Ci porge delle scodelle attraverso una fessura della porta di ferro, sufficientemente larga da permettermi di scorgere i lineamenti del giovane. Le scodelle contengono del pane a pezzi inzuppato in acqua in cui sono state versate delle gocce di latte. Penso che, per essere dei prigionieri sull’orlo della condanna capitale e in tempo di guerra, ci trattino anche troppo bene. O forse è l’ultimo pasto?
Gli chiedo se può darci qualche informazione sul nostro destino, e aggiornarci sulla situazione esterna.
«Non posso parlare troppo - risponde secco - se può esservi di conforto, i "capi" non hanno ancora deciso se giustiziarvi.» Da quelle parole traspare distacco. Non fiato, non ribatto assolutamente. La freddezza con cui quel ragazzo risponde alle mie domande l’ho già vista, qualche migliaio di volte. È l’atrocità della guerra. "Chissà quante sofferenze avrà patito, anche lui" penso tra me e me.
Mi siedo al mio posto, in terra, e divoro i pezzi di pane inzuppati nell’acqua. La mia voracità non è dovuta soltanto alla fame - ho superato periodi di digiuno ben più lunghi - ma altresì al nervosismo che questa attesa mi crea.
Passo il resto della giornata con questo pensiero, tracciando dei segni senza significato con un gessetto che ho trovato in un angolo di questa stanza. O forse, a guardarli bene, un significato ce l’hanno: sono delle linee ondulate. Forse inconsciamente cerco di riprodurre su questa pietra il mare, il mare blu, che mi sembra tanto lontano. È buffo: e pensare che Genova non deve essere tanto distante dal luogo in cui mi trovo. Non mi rendo conto molto bene, e sicuramente è più giù a valle, ma non deve essere troppo lontana.
Con queste linee voglio ottenere un risultato preciso e inconscio: voglio provare a "sentire" nuovamente il profumo del salmastro, l’aria frizzante di cui godevo ogni giorno quando abitavo ancora a Santo Stefano, e rivedere con gli occhi della mente il colore del mare.
Ben presto tutta la mattonella di pietra sulla quale disegno si ricopre di onde.
Ecco, è il mio mare! Separandomi da quanto accade intorno a me, mi sembra quasi di potermi immergere tra questi flutti. Mi sdraio su un fianco, come se attendessi il canto di qualche sirena…

 

continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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