Tiziana Pretti

Romanzo breve
di Tiziana Pretti
Pagine: 57
Prezzo: 10 euro

 


 

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PROFILO DELL'AUTRICE

TIZIANA PRETTI è nata a Trino in provincia di Vercelli. Infermiera e psicomotricista, ama scrivere racconti per bambini. Il suo primo libro, edito nel 2002, è stato «Cirillo e la collina del sorriso». Nell’ottobre 2005 è uscito «Il ragazzo delle stelle», nell’ottobre 2006 «C’era una volta un bosco» e nell’ottobre 2007 «La rivincita del popolo dei cacciati».

 

I PROFUMI DELLA MEMORIA

Era una bella domenica di fine ottobre. Il clima mite e il sole invogliavano a fare una passeggiata, una delle ultime, forse, prima dell’arrivo dell’inverno.
In città, si teneva il mercatino dell’antiquariato ed io avevo deciso di andare a curiosare tra la merce esposta.
È questo uno dei miei passatempi preferiti e anche se, di solito, non acquisto alcunché, tuttavia riesco sempre a portarmi a casa nuove emozioni, vecchi profumi e belle storie che solo le cose di un tempo passato sanno regalare.
Per poter trarre il massimo risultato da una passeggiata come quella che mi accingevo a fare, occorre però trovarsi nello stato d’animo adatto e quindi non avere fretta, non farsi distrarre dalla gente e dai rumori che ci circondano e lasciarsi guidare dalla curiosità.
Ogni oggetto ha una sua storia ed è in grado di raccontarcela: basta saperlo guardare.
E così, una grande chiave, con l’anello dell’impugnatura arrugginito e la mappa ben lustra, ci parla di una casa, forse medioevale, disabitata da tempo, ma non completamente abbandonata. Venduta, probabilmente per essere ristrutturata, a qualcuno che alla vecchia porta di doghe chiodate ha preferito un nuovo portoncino in alluminio blindato. Peccato.
Un arcolaio ci racconta invece la storia di una donna di paese che, nei lunghi pomeriggi invernali, si recava nella stalla, dove, insieme ad altre donne, passava il tempo disfacendo una vecchia maglia ormai lisa e, recuperando quella lana, ne faceva una matassa. L’avrebbe poi lavata, forse tinta con l’unico colore a quei tempi disponibile: il nero. Poi l’avrebbe, con pazienza, rilavorata, ottenendo così un capo praticamente nuovo.
Perché quando non c’erano soldi neppure per comprare l’indispensabile, non ci si poteva permettere certo di buttare via una maglia, anche se lisa.
Chissà quale sarebbe stato il primo oggetto che avrebbe attratto la mia curiosità… Pregustavo il momento mentre, a passo lento, mi avvicinavo alla via dove era allestito il mercato.
Il primo ambulante esponeva vecchia mobilia, abbastanza in buono stato. C’era un tavolo rettangolare, con la struttura in legno e il ripiano di marmo grigio. Accanto al cassetto che si apriva su un lato, c’era un foro rotondo, dentro il quale alloggiava il mattarello.
Sul tavolo era appoggiato un lume a petrolio, senza stoppino, e una “bugia” in ottone che reggeva un moccolo di candela.
Accanto al tavolo c’era un armadio con un’unica anta, di semplice fattura, e, poco più in là, una piattaia che conteneva alcuni piatti di ceramica bianca.
Ma ciò che attirò la mia attenzione fu un canterano che, a prima vista, pareva uguale ad altri, disposti ordinatamente in prima fila o seminascosti da altri pezzi di povera mobilia, lungo quella strada ombrosa.
La sua era una storia un po’ particolare: i suoi cassetti avevano racchiuso e custodito segreti unici che non interessavano la maggior parte dei passanti che, adducendo il pretesto di curiosare tra i banchi del mercatino, desideravano solo godere dei caldi raggi di sole di quel pomeriggio di fine autunno.
Mi avvicinai a quel mobile incuriosita dalla perfezione di una rosa scolpita nel legno, al centro del primo cassetto.
Il fiore sembrava sbocciato da poco: i petali esterni, dalla forma perfetta, sembravano tendersi verso il tiepido sole, come a voler carpire da quei raggi la forza necessaria a compiere l’ultimo sforzo per potersi aprire, in tutto il loro vigore, mostrando la loro bellezza.
Nonostante gli anni trascorsi, quel fiore era ancora vivo e pulsante di vita, almeno ai miei occhi. Al centro, i petali, invece, erano ancora chiusi, quasi volessero celare, ma ancora per poco, il cuore dolce e profumato di quella rosa; un cuore non ancora pronto, ma desideroso si, di donarsi alle api che già gli facevano la corte, ronzandogli intorno con forse troppa insistenza, ma rispettose comunque di un tempo che già prometteva una dolce ricompensa.
Ai lati del bocciolo, due foglie completavano il fregio, trasformando il mobile, costruito in legno povero, in un pezzo assolutamente unico e di ottima fattura.
Gli altri tre cassetti non avevano nessuna incisione, ma solo due piccole maniglie scure, forse di ferro o di ottone brunito, per permetterne l’apertura.
Il legno non aveva venature molto evidenti, forse a causa della vernice scura che lo ricopriva o della patina che il tempo trascorso aveva depositato sulla sua superficie.
Guardando attentamente si poteva vedere il lavoro dei tarli che, con molta ostinazione e molto tempo, l’avevano qua e là bucherellato, senza però minarne la solidità e la bellezza.
Lo toccai: levigato e caldo al tatto, sembrava volermi parlare, sembrava invitarmi ad aprire quel cassetto sul quale il bocciolo di rosa pareva più schiuso rispetto a quando l’avevo notato; sembrava desideroso di raccontarmi i suoi segreti.
E fu così che, con molto rispetto, quasi con timore, mi decisi a suggere quel dolce racconto che i petali aperti mi offrivano.
E aprii il cassetto.

Rosina era figlia di un taglialegna e di una contadina: gente povera, come tanta ce n’era a quei tempi, per la quale l’onestà, la dignità e l’onore rappresentavano i veri valori della vita. Abitava in quattro stanzette arredate con mobili semplici, essenziali direi. Un tavolo, quattro sedie e una credenza rappresentavano l’arredamento della cucina, dove, oltre ad un acquaio sprovvisto di acqua corrente, e un camino, utile per riscaldarsi, ma anche per cucinare, non c’era altro che ordine e pulizia.
L’uno e l’altra cosa venivano messi in evidenza, nelle belle giornate estive, dal sole che entrava da una finestrella posta proprio di fronte al camino; e, per questo, nelle stagioni di mezzo e in inverno, quando un raggio pallido di quello stesso sole penetrava nella cucina, sembrava voler sfidare la brillantezza della fiamma che, nel focolare, non si lasciava mai languire.
Rosina era nata nella camera da letto accanto alla cucina: un grande letto di ferro scuro sul quale era disteso un materasso di foglie di granoturco, racchiuse in una fodera di stoffa a righe blu e bianche.
Un materasso povero certo, ma molto popolare, molto utilizzato, ai tempi di cui stiamo parlando.
La materia prima, le foglie di granturco, era facilmente reperibile, poiché c’erano molti campi dove il mais veniva coltivato e quasi tutte le famiglie contadine ne possedevano uno: piccolo o grande, secondo la disponibilità di terra, il numero di bocche da sfamare o di capi di animali da cortile da allevare.
Le foglie, asciutte e ben secche, avvolgendo i corpi nelle fredde notti invernali, trasmettevano un piacevole tepore e la comodità di quella imbottitura dipendeva anche dal suo spessore. Le donne di casa lo sapevano bene; perciò, quando giungeva il tempo della raccolta di quelle foglie, ci si dedicavano a lungo, ben sapendo che quello non era certo tempo sprecato. La manutenzione del pagliericcio poi non rappresentava un problema: non necessitava di un lungo lavoro di cardatura, come la lana, ma era sufficiente aggiungere nuove foglie per renderlo di nuovo bello gonfio e comodo.
E quando, a sera, dopo una lunga giornata di lavoro, i contadini andavano a coricarsi erano così stanchi che certo non facevano caso a quegli scricchiolii che provenivano proprio dal materasso, ad ogni piccolo movimento del corpo.
Le lenzuola avevano il profumo inconfondibile della liscivia, con la quale erano state lavate, e del sole che le aveva asciugate. Più che un profumo era un sentore, una sensazione piacevole di pulito, di bucato appena fatto. Ogni lenzuolo era formato da quattro teli di stoffa tessuta a mano, tenuti assieme da un fitto e preciso punto cordoncino che veniva insegnato alle bambine dalle mamme che, a loro volta, lo avevano imparato fin da piccole.
Per eseguirlo ci voleva precisione e pazienza, due qualità non facilmente riscontrabili nelle giovani, di qualsiasi generazione si parli; ma dopo i primi tempi in cui il lavoro veniva scambiato per un gioco ed eseguito in modo approssimato con mano imprecisa e impaziente di terminare, i gesti diventavano sempre più lenti, precisi, quasi armoniosi; e nei pomeriggi invernali, accanto al fuoco, accompagnavano i racconti dei nonni e i sogni delle giovani adolescenti.

continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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