Romanzo di EGLER GHINATO
EGLER GHINATO - Nota sull'autrice

«SUL TRENO PER VIENNA»

Venezia Mestre: ore 12,47

Quest'anno la mezzanotte verrà, con il brindisi, travolta da musiche di walzer viennesi.
Fabrizio mi allungherà il calice, ammiccando con un sorriso bonario.
Ci guarderemo e scoppieremo a ridere insieme.

(Capodanno a Vienna: hai visto, questa volta ci siamo riusciti... - Ammetti che non ci credevi - Buon anno, mia donna fatale - Buon anno, grand'uomo - Dimmi, come lo vuoi quest'anno? - Né meglio né peggio di quello che è appena finito, direi - Lo vedi? Niente da domandare al nuovo anno. Vuol dire che sei già la donna più fortunata del mondo... - Non hai bisogno di dirmelo, lo so - Davvero? - Non prendermi in giro... - Sono più serio che mai! - O già un po' ubriaco, sospetto - L'uno e l'altro, può darsi - La miscela migliore, dunque... - Per merito tuo - Mio!? Credevo di Vienna...)

Vienna. Sembra davvero che ci siamo riusciti.
Sono tre anni che Gustav continua ad invitarci, ma all'ultimo momento io e Fabrizio abbiamo sempre dovuto cambiare programma. Adesso però è troppo tardi anche per i contrattempi dell'ultimo momento.
Eccoci qui, finalmente, seduti su questo treno che ci porta a Vienna.
Solo tre persone nello scompartimento: io, Fabrizio, e lo sconosciuto che mi siede di fronte. Tutti e tre siamo assorti in lettura o in silenzi. E ciascuno fa probabilmente il conto di quanto tempo ci vorrà ad arrivare.
Perché non abbiamo scelto l'aereo? Oh, no! Ci spostiamo sempre in aereo per lavoro... Paradosso delle comodità acquisite: poi si rimpiangono le vacanze di gioventù, coi treni e lo zaino in spalla. E poiché anche questa è una vacanza, abbiamo voluto il treno. Non importa se ci metteremo più tempo. Abbiamo voluto fare i nostalgici.

Non ho mai capito se sono stata io a scegliere Fabrizio o lui a scegliere me.
Forse, semplicemente, non ci siamo mai scelti. E quando un giorno mi ritrovai nel suo letto, fu soltanto per caso. O perché quella bottiglia di champagne, che Fabrizio volle a tutti i costi stappare al termine di una serata in cui avevamo già bevuto abbastanza, tirò un brutto scherzo ad entrambi. E al mattino, quando l'ebbrezza dell'alcool era ormai passata, svegliarci e trovarci insieme sotto le lenzuola fu per tutti e due - credo - un inconfessato imbarazzo.
Siamo stati tentati, in quel momento, di relegare l'episodio ad incidente da dimenticare. Poi non andò così, e siamo tornati a cercarci. Perché, infondo, era vero che ci trovavamo bene insieme. e non c'era bisogno nemmeno di scomodare la parola «amore».
Ci incontravamo al giornale, parlavamo, discutevamo. Quando possibile, ci frequentavamo.
Ci piaceva molto parlare di politica, di cronaca, o di letteratura, cinema, arte, spettacolo. Un po' meno di noi. Per questo, forse, ci è capitato tante volte di metterci a discutere di lavoro anche quando facciamo l'amore. In un certo senso è stato il lavoro a tenerci insieme, oltre che a dar vita al nostro rapporto. Sono ormai cinque anni.
Ciascuno continua a vivere a casa propria. Anche se mi capita spesso di notare, con un po' di autoironia, quante tracce di lui siano ormai stabilmente disseminate per il mio appartamento (lo spazzolino da denti, il rasoio, la schiuma da barba, l'accappatoio, la sua bottiglia preferita di whisky, l'odore della sua pipa... o la cravatta che ha dimenticato da me l'altra sera). Ma altrettanto resta di me nel suo. Sorriso. Si finisce per avere due case, mi dico. Anche se è stato un nostro implicito ma inderogabile accordo quello di non dare e di non pretendere alcuna copia delle rispettive chiavi di casa.
Meglio restare fuori dal portone ad aspettare, tamburellando nervosamente le dita, quando l'altro non è riuscito ad arrivare a casa in tempo per l'ora fissata. Meglio rincasare trafelati, maledicendo il traffico e i semafori rossi, quando l'inconveniente ci ha trattenuto fuori più del previsto, e sappiamo che qualcuno ci sta aspettando sotto il portone. Meglio. Oggi capita a me e domani capita a lui. Ma l'importante è sapere che casa mia resta casa mia, e casa sua resta casa sua.
Non ci saranno valigie e scatoloni da preparare, né chiavi da riconsegnare al legittimo proprietario, il giorno che ci lasceremo.

Noi possiamo restare senza vederci anche per lungo tempo: quando siamo all'estero, ma anche quando siamo troppo assorbiti dal lavoro per concederci evasioni e distrazioni.
Allora ci incontriamo semplicemente al giornale, ci salutiamo affettuosamente, ci scusiamo per non avere tempo da dedicarci, e ci proponiamo di vederci appena sarà possibile. Nessuno dei due ha bisogno di assiduità.
Ci guardiamo bene dall'avanzare pretese l'uno sulla vita dell'altra. Nemmeno la gelosia è ammessa. Ciascuno continua a frequentare, per conto proprio e per quanto gli riesce, le proprie amicizie. Nessuno dei due chiede mai conto delle persone con cui l'altro esce.
Non so se mi tradisce. Penso che abbia qualche avventura occasionale, ma non potrei affermarlo con certezza. Forse è una domanda che non mi sono mai posta. O - se mai me lo sono chiesta - mi sono anche risposta che in ogni caso non è rilevante. Non sono mai stata gelosa di lui. Come lui non si è mai dimostrato geloso di me. Ciascuno è ben consapevole di essere libero. Siamo in questo probabilmente, una coppia inconsueta. Ma i cinque anni trascorsi insieme in questo modo ci hanno consolidato.
Penso che nessuno dei due, all'inizio, credesse che poteva durare. Invece siamo ancora qui, insieme, oggi. E siamo qui, insieme, su questo treno per Vienna.

Una settimana a Vienna per il fine d'anno. Sono tre anni che la programmavamo. Adesso, finalmente, ci siamo decisi: vogliamo concedercela (in via eccezionale, s'intende).
Gustav ci attende. Credo che fino a quando non ci vedrà scendere insieme dal treno, non sarà convinto che arriviamo proprio tutti e due.

Per metterci in viaggio abbiamo scelto il giorno di Santo Stefano, proprio per evitare i sovraffollamenti dei giorni di vigilia. Infatti. Il viaggio si ripromette tranquillo.
Solo un altro viaggiatore nel nostro scompartimento: siede vicino al finestrino, di fronte a me, e legge il giornale. Fabrizio mi è seduto accanto ed è tutto intento a sfogliare guide e opuscoli di Vienna e dintorni. Sta facendo e disfacendo piani organizzativi per la settimana, e predispone tutti i posti che deve portarmi a vedere. Infatti, strano a dirsi, a Vienna io non ci sono mai stata.
Inutile ricordargli che, conoscendo Gustav, ci si può ragionevolmente aspettare che abbia già predisposto lui tutto quanto. Sarà lì ad aspettarci alla stazione - non ha voluto sentire ragioni al riguardo.
Ma Fabrizio non sembra pensarci minimamente. Sfoglia con compiacimento le sue guide turistiche e di tanto in tanto me le allunga per mostrarmi qualche illustrazione o per avanzare qualche commento. Continua a ripetermi i suoi programmi di itinerari possibili, chiedendo la mia approvazione - salvo modificarli comunque ogni cinque minuti, a prescindere da quello che io gli rispondo.
Sembra animato da un entusiasmo quasi da bimbo. Ad osservarlo, mi fa tenerezza. Ma è la vacanza che abbiamo programmato e sognato da gran tempo: forse lo posso capire.
Abbiamo perfino deciso, per questi giorni, di bandire dalla conversazione ogni argomento che abbia a che fare con il nostro lavoro.
Con un po' di malizia mi viene però da domandarmi se per caso non sia proprio a causa di questo concorde divieto che lui ha subito tirato fuori dalle valigie le sue guide di Vienna - appena salito sul treno - e non fa che predisporre le variazioni infinite degli itinerari del nostro soggiorno turistico. O se non sia proprio per questo motivo che anch'io, appena seduta, ho subito tolto dalla borsa il libro che mi sono portata appresso e ho cominciato ad aprirlo.

Fa paura, in fondo, non poter parlare di quello di cui si è soliti parlare. Sorge il sospetto che non ci sia poi molto altro da dirsi.
Ma è un pensiero inquietante. E allora, ecco, ciascuno dei due si aggrappa a qualcosa: il mio libro di poesie, le sue guide turistiche: Allora lui potrà mostrarmi una fotografia, e da lì cominciare a parlarmi di Vienna. E vinceremo il silenzio. Poi faremo il nome di Gustav - io o lui, non importa - e cominceremo a parlare di lui, del nostro vecchio amico Gustav, di quella testamatta, dell'ultima volta che ci siamo incontrati e di chissà-che-cosa-avra-combinato-negli-ultimi-tempi. E poi, quando anche questo argomenti si sarà esaurito, io potrò tornare ad aprire il mio libro e lui tornerà a sfogliare, con studiato interesse, le sue guide. Finché sarò io ad allungargli da leggere una delle poesie che avrò sottomano. Così potremo cominciare a parlare dei nostri poeti.
E di nuovo vinceremo il silenzio.
E di vittoria in vittoria, sul silenzio che da sempre ci minaccia, continueremo a parlare. finché arriveremo a Vienna, dove troveremo Gustav alla stazione, ad aspettarci.
Gustav ci correrà incontro. Gustav, nostro salvatore. Perché sarò lì, con noi, e ci racconterà e ci chiederà un milione di cose. E allora non saremo più soli - io e Fabrizio - l'uno di fronte all'altra, ad avere paura di non avere niente da dirci.
Poi, quando a notte inoltrata ci saluteremo con Gustav, probabilmente proprio di fronte all'albergo in cui noi saremo alloggiati, al buio il nostro silenzio ci farà meno paura.
Saliremo nella nostra stanza, sapendo che - se avremo sonno - potremo semplicemente dormire. La stanchezza e il viaggio risulteranno ottimi alibi.
E se non avremo ancora sonno, spegneremo comunque la luce e al buio ci avvicineremo l'uno all'altra.
Perché anche lì ci sarà silenzio, e il silenzio tra due persone è sopportabile solo quando si è molto lontani o molto vicini.
La vera lontananza viene dalla reciproca indifferenza: questa, l'abbiamo persa tra noi ormai da parecchi anni. Non riusciamo più ad essere abbastanza lontani da non sentirci turbati dal nostro silenzio.
E allora, avremmo piuttosto bisogno di sentirci un po' più vicini - intimamente vicini - perché il nostro silenzio non avesse a farci paura. Ma non riusciamo mai ad essere vicini abbastanza. Non intimamente vicini, cioè.
Per questo, quando spegniamo la luce, ci cerchiamo come smarriti, abbracciandoci stretti. E non diciamo più niente, cercando semplicemente la rassicurazione dei nostri corpi avvinghiati, che aderiscono l'uno all'altro ansimanti. Per sentirci almeno in quel momento vicini. Fisicamente vicini, cioè. Uniti anche? Oh, no. Questo mai.

Udine: ore 14,04
E intanto corre questo treno per Vienna. Guardo paesaggi di neve sfilare rapidi attraverso il finestrino. Fabrizio continua a leggere le sue guide e il viaggiatore che mi siede di fronte continua a leggere il suo giornale.
Per noia forse, provo a sbirciare le pagine che Fabrizio sta leggendo e, indicandogli una fotografia, provo a chiedergli: questo cos'è?
Mi risponde senza alzare lo sguardo dalle pagine che sta sfogliando.
Torno a guardare fuori dal finestrino. Cerco di immaginarmi la settimana che ci attende a Vienna. Ho molta voglia di rivedere Gustav, so che in sua compagnia ci divertiremo sicuramente.

Gustav è un artista, una persona squisita, capace di metterti sempre a tuo agio. Ed è un vulcano di iniziative e di idee. con lui non c'è mai tempo per annoiarsi. Sicuramente è tra le persone più interessanti che ho avuto modo di conoscere attraverso Fabrizio.
Lui e Fabrizio sono amici di vecchia data. Si conobbero quand'erano entrambi ancora studenti, e Gustav venne in Italia per coltivare i suoi studi d'arte.
Io lo conobbi qualche anno fa, quando rimase ospite da Fabrizio per alcune settimane. Da allora abbiamo sempre mantenuto i contatti.
Sono appunto tre anni che insiste perché trascorriamo tutti e tre insieme, a Vienna, il Capodanno. è diventato ormai un amico comune. Uno dei pochissimi amici comuni - a parte i colleghi - che io e Fabrizio riusciamo ad avere.
Mi ha accettata molto bene, fin dall'inizio, forse perché ero anch'io appassionata d'arte (la scultura fu l'hobby e l'amore della mia gioventù), o forse perché non sono troppo possessiva nei riguardi di Fabrizio. Insomma, so di essergli piaciuta. Non altrettanto - mi si dice - la moglie di Fabrizio, a suo tempo. Ma forse perché, a quel tempo - benché si rifiutasse di ammetterlo - Gustav era ancora innamorato di Fabrizio.
Devo dire che questa storia, quando Fabrizio me la raccontò, mi sorprese. Positivamente, credo. Prima di allora non avevo mai creduto che Fabrizio fosse una persona capace di tenersi per amico un omosessuale. Tantomeno un omosessuale che lui sapeva essere perdutamente innamorato di lui.
Del resto - da quanto mi raccontò - la situazione aveva creato a suo tempo non pochi imbarazzi e difficoltà per entrambi, almeno finché Gustav non riuscì a farsi una ragione dell'impossibilità da parte di Fabrizio di corrispondere ai suoi sentimenti come lui avrebbe desiderato. Credo sia stato proprio il matrimonio di Fabrizio a disilluderlo definitivamente. Ma l'amicizia rimase, e resta tuttora.
Io penso di essergli piaciuta proprio come il tipo di donna che riteneva adatta ad uno come Fabrizio - almeno, una volta preso atto che era decisamente una donna ciò che Fabrizio cercava. Poi, appena conobbi Gustav, io mi appassionati moltissimo ai suoi dipinti, e lui, a più riprese, cercò anche di incoraggiarmi a riprendere in mano la creta che usavo modellare quando ero ragazza. Ma è difficile spiegargli che non c'è più tempo per queste cose.

Tarvisio Centrale: (a.) ore 15,04
L'uomo seduto di fronte a me ha riposto il giornale e adesso guarda anche lui fuori dal finestrino.
Lo osservo distrattamente. Avrà una quarantina d'anni, forse meno. Non mi sembra molto alto. L'aspetto è asciutto - magro, direi. Porta un paio di occhiali con montatura metallica, dorata, per la precisione.
Mentre volta il capo, spostandosi verso il finestrino, noto sulla sua nuca una leggera calvizie.
Veste bene, uno stile casual piuttosto giovanile, ma non sfacciato, e curato nei particolari. Sembra un tipo a modo. Mi domando se andrà anche lui fino a Vienna. Potrei provare a rivolgergli la parola, ma francamente non ne ho voglia. Mi stupisco, anzi, che non ci abbia ancora pensato Fabrizio.

Mi volto verso Fabrizio, ma vedo che è ancora troppo occupato a sfogliare i suoi opuscoli e le sue guide per pensare di iniziare una conversazione, con me o con lui.
In questo momento sicuramente non si ricorda nemmeno che io sono qui. Tantomeno è in grado di vedere il nostro compagno di scompartimento. Tra un po' rifletterà sulla sua presenza e allora non potrà fare a meno di rivolgergli la parola. A meno che l'altro non scenda prima.
Potrei leggere, intanto. Ma non ne ho voglia.

La concentrazione di Fabrizio in questo inutile impegno di autoerudizione sulle amenità viennesi mi intenerisce e mi infastidisce allo stesso tempo. Conosce benissimo Vienna, lo so. Con chi mai deve fare sfoggio di cultura sull'arte e sull'ambiente viennese? Con me? Con Gustav? Mi sembra assurdo. Quali altre notizie va mai cercando?
Vorrei che allungasse la mano verso di me: un gesto affettuoso, una carezza. In fondo, questo è proprio il «ostro» viaggio - tanto rimandato, tanto vagheggiato, tanto atteso. Perché non ne parliamo? Perché non ci parliamo? Perché non proviamo a parlare un po' di noi? Ma forse anche questo non è che l'ennesimo sortilegio che abbiamo inventato, per poterci sentire un po' più vicini, per poterci dire: vedi, quest'anno il Capodanno lo passiamo insieme, lo passiamo a Vienna, proprio come avevamo deciso. Basta questo?
Che cosa vuol dire «insieme»? Siamo davvero «insieme», adesso, solo perché siamo seduti qui, l'uno accanto all'altra sullo stesso treno, con Vienna per destinazione?
Ci sono distanze che non riusciremo mai a misurare con il metro, né con i chilometri. Sono distanze che parlano dentro di noi.

Ma no, non ho niente da rimproverargli.
Forse che io sono capace di avvicinarmi affettuosamente a lui e di passare delicatamente una mano tra i suoi capelli? (Come, adesso, a guardarlo, vorrei fare - e come non so fare...).
No, lo so bene. E allora, dunque, cosa posso pretendere da lui?
Niente. Questo è il punto. Non pretendo niente. Non mi aspetto più niente, né da Fabrizio né da nessun altro. Mi basta sapere che a Vienna trascorreremo delle belle giornate. E so che trascorreremo delle belle giornate. Lo so, perché so che tutti e due lo vogliamo, e che ci adopreremo in tutti i modi perché siano belle davvero.
Poi, quando in albergo di notte faremo l'amore, ci diremo quanto siamo fortunati - mai un litigio tra noi - e quanto stiamo bene insieme. E dopo, quando saremo di ritorno a casa, rituffati ciascuno nel turbine del lavoro che attende, per i primi tempi ci vedremo di fretta. Farà comodo a tutti e due, dopo sette giorni trascorsi insieme dalla mattina alla sera, perché non siamo abituati a stare insieme ininterrottamente per un tempo così lungo.
Una settimana insieme, fuori dal nostro ambiente consueto, a Vienna, per noi è già una dura prova.
Non ce lo diciamo, ma lo sappiamo entrambi. Così - poi - ci scuseremo a vicenda, ma per qualche settimana preferiremo prendere a pretesto altre cose da fare, ed evitare di vederci.
Farà in tempo a dissolversi, nel mio appartamento, l'odore della sua pipa. Nel suo, l'effluvio intenso dei miei bagnoschiuma alla vaniglia («Ma non sai inventare niente di più sensuale che avere sempre il profumo di un dolce appena sfornato dalla pasticceria?...»).
Ma poi, a poco a poco, ricomincerà a mancarmi l'odore del suo tabacco e a lui l'ostinazione delle mie essenze alla vaniglia sparse per tutta la casa... E torneremo a cercarci, progettando e sognando il prossimo viaggio che faremo insieme.
Mentre i giorni continueranno a passare veloci, e noi, infreddoliti d'inverno, ad aspettarci a turno sotto il portone (perché - lo sappiamo benissimo - tutte le nostre migliori intenzioni non basteranno mai ad evitarci di fare tardi agli appuntamenti che ci diamo). E ridendo e scherzando, continuando a raccontarci dell'ultima intervista o dei pettegolezzi su colleghi e colleghe anche sotto le coperte, riusciremo ancora a sentirci felici quando ci sarà possibile passare insieme la sera e prendere sonno nello stesso letto, abbracciati.

Siamo fermi alla stazione di Tarvisio per il controllo passaporti. Finora nel nostro scompartimento non è entrato nessuno.
Sto osservando la sciarpa di seta al collo dell'uomo che mi siede di fronte. Ne avevo regalata una di simile a Fabrizio, ma non la porta mai. Dice che gli ricorda troppo lo stile di Gustav nel vestirsi - gilet, cappelli, sciarpe e foulard - e che non ci tiene a passare per gay pure lui.
Io invece trovo che al viaggiatore qui di fronte, ad esempio, quella sciarpa di seta stia bene. E starebbe bene anche a Fabrizio. Ma si sa che ciascuno ha i propri gusti e le proprie fissazioni. Io per prima. E Fabrizio ne sa qualcosa al riguardo.

Adesso lo sconosciuto di fronte a me si è accorto che lo sto osservando. Per un attimo i nostri sguardi si sono incrociati.
Ho subito distolto lo sguardo. Non ho ancora voglia di mettermi a parlare.
Del resto, neppure lui, finora, ha palesato alcuna intenzione in tal senso. Però adesso ha cominciato ad osservarmi.
Evito di lasciare che i nostri sguardi si incrocino ancora. Tuttavia ha una faccia simpatica, mi è sembrato. Un non so che di attraente - o di enigmatico, non saprei.

Tarvisio Centrale: (p.) ore 15,35 Il treno è ripartito e Fabrizio sonnecchia. Ha messo da parte i suoi opuscoli e le sue guide; ha detto: mi è venuto sonno. Quindi si è messo comodo sul sedile, accoccolandosi addosso alla mia spalla e chiudendo gli occhi.
Io lo guardo per un attimo, poi riapro il mio libro: «Ingeborg Bachmann, poesie». Lo apro a una pagina a caso e leggo, nella traduzione italiana (non ho mai imparato il tedesco):

«Ferma! è te che scongiuro, volto dell'unico amore, resta limpido e calando le ciglia chiudi gli occhi sul mondo, resta bello, volto dell'unico amore, e solleva la fronte oltre il balenare dei dubbi. Si spartiranno i tuoi baci, ti sfigureranno nel sonno, se andrai in cerca di specchi in cui ad ognuno appartieni».

Leggo. Rimango pensierosa e assorta. Riprendo da capo questi versi, ripetendomeli mentalmente e cadenzandoli, come se volessi saggiare l'accostamento delle parole, il ritmo che le raccorda. Nel farlo, muovo impercettibilmente le labbra: ferma - è te - che scongiuro - volto - dell'unico amore...
Meccanicamente getto uno sguardo a Fabrizio: sta dormendo, o almeno così sembra.
Torno a guardare fuori dal finestrino.
Piove. Una pioggia delicata, sottile.

Fabrizio si è svegliato. Si stiracchia, dà un'occhiata verso il finestrino, domanda dove siamo, guarda l'orologio.
Adesso mi sorride. Si tende verso di me e allunga la mano al mio libro. Lo osserva con aria interessata.
«Bello?» domanda. E intanto me lo sfila dalle mani.
Annuisco, mentre lui lo ha già aperto e lo sta sfogliando. Vedo che smette di sfogliarne distrattamente le pagine e si sofferma a leggere qualche poesia.
«Belle!» commenta.
Mi allungo verso di lui, per vedere quali sta leggendo, quali sono a fargli dire: belle.
Io le conosco, le ho già lette. Provo ad immaginarmi cosa dicono a lui questi versi, quali sono le emozioni, le risonanze che gli suscitano, e perché anche per lui sono «belle».
Vorrei riuscire ad estraniarmi da me stessa, riuscire per un momento a leggerle come se fossi lui: essere nella sua mente, nei suoi pensieri.
Provare quello che lui prova. Allora forse riuscirei, per un momento, a sentirmi veramente vicina a lui.
E penso alla Dickinson, alle sere d'inverno in cui ci siamo ritrovati insieme rannicchiati sotto le coperte con le poesie della Dickinson in mano (guarda questa - prova a leggere quest'altra - e questa, la conosci? - ...E il libro passava continuamente dalle mie alle sue mani). Ma non capitava mai che scegliessimo di mostrarci la poesia che anche l'altro prediligeva. E non so perché quelle che a lui sono le più care non sono mai quelle che più emozionano me.

Villach: (a.) ore 16,00
Fabrizio si è ormai assorto nella lettura. Le poesie della Bachmann adesso hanno preso il posto delle descrizioni di Vienna e dintorni.
Anche un libro di poesie può prestarsi a fungere da schermo tra due persone. Schermo, dietro il quale nascondersi. Dietro al quale allontanarsi, cercare rifugio, quando l'altro in qualche modo fa paura.
Lo stesso libro che in un'altra occasione potrà essere il nostro raccordo, fragile filo d'unione, passando e ripassando dalle mie alle sue mani (leggi questa - ascolta quest'altra - conosci quella che dice...?), oggi è soltanto il pretesto che aiuta a risolvere la difficoltà di avere così poco da dirsi.
Ma la cosa mi è nota.

Amo, ho sempre amato leggere. Amo le parole, le parole scritte, le parole su carta, le parole che restano quando il pensiero rischierebbe altrimenti di smarrirle. Amo i pensieri. Amo le idee. Mi piace giocarci. Prenderle, girarle, rigirarle, smontarle, ricostruirle.
è un passatempo delizioso e appagante. Dà sicurezza. Le idee con cui giochiamo sono nostre, nessuno può portarcele via. Sono docili o ribelli.
Ma non fuggono, non tradiscono, non deludono. Le persone sì.

Anche per questo mi piace leggere alla sera per prendere sonno. E per questo non potrei accettare la convivenza stabile con un uomo. Dovrei probabilmente sacrificargli questa abitudine segretamente deliziosa. E quante altre cose.
Quando c'è un altro nel mio appartamento, alla sera - Fabrizio, o chi altro prima di lui - non posso rifugiarmi tra i miei libri e le mie scartoffie. Mi sembrerebbe di fargli torto. Ma questo è possibile solo fintantoché la presenza dell'altro non diventa abitudine.
Fabrizio si è sempre mostrato d'accordo. è così che restiamo spesso anche parecchio tempo senza vederci. Un modo per non soffocarci. O un modo per non accorgerci di tutto quello che, volenti o nolenti, dovremmo vedere, se vivessimo insieme. Come lo vediamo adesso, in qualche modo.
Anche se fingiamo di non rendercene conto. Ma non è la passione ciò che è in grado di tenere insieme due persone. La passione brucia in fretta e poi ne restano soltanto manciate di cenere.
A tenere insieme, giorno dopo giorno, sono piuttosto la reciproca cooperazione e il pacato buon senso. è la complicità degli inganni che ci si dispensa l'un l'altro per aiutarsi ad accettarsi. Le piccole menzogne con cui travestiamo a vicenda le nostre impronunciabili verità. O i piccoli trucchi che impariamo ad inventare, per dimostrarci che ci vogliamo bene e dare così all'altro una ragione per restare quando non sa più dove trovarla.

Villach: (p.) ore 16,13
Fabrizio ha ripreso in mano la cartina topografica di Vienna. Improvvisamente mi chiede se ricordo qual è il nuovo indirizzo di Gustav. (Ha cambiato casa sei mesi fa).
Gli rispondo che non lo ricordo a memoria, ma devo avercelo scritto in un foglietto dentro alla borsa.
Guarda nel mio portafoglio - gli dico - deve esserci un foglietto con sopra scritto l'indirizzo.
Fabrizio si alza, prende la mia borsa dal portabagagli e tira fuori il mio portafoglio. Lo osservo mentre, in piedi, lo apre e - girandolo e rigirandolo - fruga nei vari scomparti in cerca del prezioso foglietto.
«Ah, eccolo!» esclama.
E intanto, dal mio portafoglio - che tiene in mano maldestro - scivola a terra qualcosa che tintinna ai nostri piedi.
Ce ne accorgiamo tutti e tre: anche il viaggiatore che mi siede di fronte e che è rimasto ad osservare Fabrizio in questa operazione di ricerca dell'indirizzo di Gustav. Anche lui, come me, scosta immediatamente le gambe per guardare a terra che cosa è caduto.
Si china Fabrizio per raccogliere le presunte monete, ma lo precede il nostro compagno di scompartimento, che prontamente si allunga a raccogliere la catenina d'argento che è scivolata vicino ai suoi piedi.
e mentre quest'uomo la prende in mano, restando un attimo assorto ad osservarla, Fabrizio esclama prontamente sarcastico: «Ah, ecco dunque che fine aveva fatto!».
L'uomo continua a studiare attentamente la catenella sul palmo della sua mano. E intanto ride grossolanamente Fabrizio: «Nel portafoglio! La tieni nel portafoglio!».
Lo dice con il tono di chi ha sorpreso un bambino a rubare la marmellata, e non si rende conto di quanto è ridicolo.
Io sorrido con aria indifferente, evitando di raccogliere la provocazione.

CONTINUA

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