L'uomo che ha raccolto il mio girocollo d'argento
sembra non avere prestato attenzione ai commenti
di Fabrizio, come se fosse intento soltanto a
studiare l'oggetto. Tarda a riconsegnarlo a
Fabrizio e solleva lo sguardo, incuriosito, verso
di me.
Così i nostri sguardi si incrociano, mentre
Fabrizio ridacchia. E l'espressione dei suoi occhi
- stupore? - mi incute uno strano imbarazzo.
Intanto, però, Fabrizio si è ormai attivato, e
adesso sembra cogliere l'occasione per rivolgersi,
con l'aria spavalda di un'antica maschile
complicità, allo sconosciuto che finora ha
ignorato.
«Ah, le donne! - dice rivolto all'uomo, ma
guardandomi di sottecchi - parlano tanto di
libertà e di indipendenza, ma poi cos'è che
vogliono veramente? Una catena al collo! Ecco il
loro più segreto desiderio».
È la solita provocazione nei miei riguardi.
Lo ascolto un po' divertita e un po' seccata: il
ritornello lo conosco a memoria e so già come
proseguirà.
«La vede, questa? Le sembra una collana, una
collana qualunque?» incalza infatti Fabrizio,
rivolto al nostro casuale compagno di viaggio, che
intanto gli ha restituito la collana caduta.
Ora Fabrizio la tiene per una estremità,
facendogliela dondolare di fronte con posa
compiaciuta.
Quanto vorrei che la smettesse.
Ma lui prosegue nel suo soliloquio.
«No, non si lasci ingannare. Sembra una collana,
ma è ben altro... Lo chieda a lei - dice
accennando a me - se è una collana come tutte le
altre, o se per caso non è una catena da portare
al collo, sa, una di quelle belle catene che un
tempo si mettevano alle caviglie degli
schiavi...».
«Oh, certo, è una catena sottile - precisa subito
- d'argento, anche. Ma era fatta per stare al suo
collo, e guai se lei se la toglieva! La catena
messa dal padrone. Oh, non mi chieda chi è il
padrone... Provi a insinuare che una donna ha
qualcuno che le fa da padrone, e vede cosa si
scatena...».
E tornando a far dondolare la catenina, prosegue
ancora: «Però, la guardi bene, questa collana...
Mica è un filo di perle o di pietre preziose! Sono
solo degli anellini d'argento incastrati in serie
uno nell'altro. Vale a dire, una catena. Una
catena da mettere al collo. Ai cani non si mette
il collare, no? Per le donne è la stessa cosa,
solo che loro le chiamano collane...».
Tento invano di interromperlo, notando lo sguardo
stupito e divertito dell'uomo che si è visto
inaspettatamente indirizzare questa cascata di
opinioni non richieste.
Questa storia non riguarda lui - vorrei dire a
Fabrizio - e dunque che bisogno c'è di
coinvolgerlo nelle nostre faccende?
Ma Fabrizio ha voglia di raccontare qualcosa di
noi a questo sconosciuto. Per noia o per svago. O
per avere qualcosa da dire da qui fino a Vienna.
So già che non serve protestare, ribattere, o
tentare di zittirlo. Siamo io e lui ad avere
bisogno proprio di questo: spiegare al primo
malcapitato che viene sotto tiro i ridicoli
impacci che sono sottesi all'apparente
meravigliosa intesa del nostro rapporto.
Parole, che tra di noi non sappiamo dirci,
trapelano con prepotenza appena ci viene data la
presenza di un interlocutore estraneo. Parliamo a
questo - sia il collega di turno, o lo sconosciuto
che troviamo sul treno - ma è solo per fare sapere
l'uno all'altra quello che altrimenti non saremmo
capaci di dirci.
Comunicazione per interposta persona: palare ad un
terzo perché ci ascolti chi silenziosamente ci è
accanto. Strano a dirsi, ma serve. Vale ad
esprimere almeno in questo modo, ben travestiti
dall'abito del grottesco, quei segreti disappunti
che a vicenda non sappiamo palesarci.
Così tanti sono i piccoli fremiti - coartati,
censurati, repressi - che passano tra di noi
proprio attraverso il motteggio e lo scherzo, o
l'ironia. L'autoironia, anche. O soprattutto.
Perché, quante volte ci pigliamo in giro da soli,
per nascondere un'aspettativa delusa o una
richiesta che non sappiamo avanzare...
Spesso mi sono persuasa che l'autoironia è la
migliore risorsa che resta a quelli come noi, che
possono comunicare soltanto ridendoci sopra il
tacito desiderio che è stato misconosciuto e che
in altro modo non avrebbero mai il coraggio di
confessare.
è come un senso di pudore che si acquista con gli
anni, quello che induce a nascondere dietro il
velo del sorriso l'intima sofferenza, l'intima
delusione - quali che siano. Perché desiderare è
proibito, quando non ci si ritiene più in diritto
di pretendere. Solo il bambino può piangere,
pestare i piedi, gridare per ottenere quello che
desidera - oppure, a seconda dell'indole,
ritirarsi imbronciato in disparte, ostentando così
il proprio disappunto.
Per pretendere, bisogna pur credere che ci sia
qualcuno disposto a dare.
Io, da parecchio tempo, non so più se questo
qualcuno esiste.
«E poi, lo vede questo... questo coso qui? Cosa le
sembra che sia questo?», ha intanto proseguito
Fabrizio, secondo il copione che entrambi
conosciamo ormai bene. «Penserebbe mai di chiamare
“ciondolo” questa cosa dalle punte aguzze?
Ciondolo! Altro che ciondolo! Questa è un'arma
contundente dalle punte affilate...».
E finalmente si assesta comodo e trionfante sul
sedile, per arrivare a pronunciare la sua sentenza
conclusiva, che io conosco a memoria.
«Io gliel'ho sempre detto che deve averglielo
regalato sua madre, perché le servisse a tenere a
distanza gli uomini, come una specie di amuleto
scaccia-amanti... Le avrà detto: tu tienilo sempre
al collo. Così poteva essere sicura che chiunque
avesse osato insidiare la figlia, avrebbe avuto a
che fare con questo - esclama compiaciuto,
guardandomi di sottecchi. - è un'arma-sfregia-
amanti, ecco cos'è... Uno prova ad avvicinarseli,
a cercare un po' di intimità, e subito, zac...
viene immediatamente trafitto dalle punte di
questo... questo graziosissimo ciondolo!».
E ride Fabrizio, guardandomi.
Non intervengo. Osservo come abbia ritrovato il
meglio della sua ironia e se ne compiaccia. Vedo
con quanta soddisfazione si esibisce di fronte a
questo spettatore occasionale. Lo lascio fare - se
ha così voglia di proseguire. Muore dalla voglia
di proseguire, me ne accorgo.
Così lui incalza, rivolto al nostro compagno di
scompartimento: «Mi dica - proviamo a sentire il
signore qui - mi dica... Cosa le sembra mai che
possa essere questo coso... questo ciondolo?
Suvvia, sentiamo anche il suo parere...».
E so che non si attende risposta.
Ma l'uomo gli risponde pacatamente, con un
sorriso: «è un gabbiano».
Io trasalisco. Anche Fabrizio, a cui manca adesso
la prontezza della replica.
è colto di sorpresa e deve modificare la battuta
che aveva già pronta da pronunciare. Lo fa con un
certo disagio: «Ah! Un gabbiano... un gabbiano, mi
dice...».
E si volta verso di me, d'improvviso quasi
smarrito, mentre io non riesco a trattenere un
aperto sorriso di trionfo.
Finché riesce a riprendersi dalla sorpresa e ad
aggiungere pensieroso: «Dunque anche lei riesce a
vederci un gabbiano, mah... francamente pensavo ci
volesse un bel po' di fantasia per vedere un
gabbiano in questa forma... Un gabbiano, mah...».
«Sì, un gabbiano. In forma stilizzata,
naturalmente» precisò l'uomo, con tono sicuro.
«Eh, forse... Sarà pur vero dunque...» si arrende
Fabrizio. «In effetti, lei - additando me - ha
sempre sostenuto esattamente questo... che era un
gabbiano...».
Intanto io, pensierosa, mi fisso a guardare il
nostro compagno di viaggio.
Anche lui adesso si è messo a fissarmi. e a
sorridermi.
So che dovrei essere lieta, che dovrei essergli
riconoscente della risposta data a Fabrizio (un
punto a mio favore). Francamente nemmeno io me
l'aspettavo.
Però mi ha provocato soltanto un indistinto
disagio. Come continuo ad essere turbata, adesso,
da questi occhi neri che continuano a scrutare nel
mio silenzio. E forse sono grata a Fabrizio per la
disinvoltura con cui di nuovo continua a parlare.
«Comunque, gabbiano o non gabbiano, adesso si è
scoperto che fine aveva fatto questa catenella»
riprende infatti Fabrizio, ridendo. «Caso mai
avessi potuto pensare che fosse davvero sparita
dalla circolazione...».
E con tono da istrione prosegue: «No, non sia mai
detto! Tolta dal collo, ma solo per finire nel
portafoglio. Com'è che non ci avevo pensato
prima?».
Comunque non la porto più al collo - replico
infine io, sperando di porre fine alla disputa.
«e meno male!» ribatte prontamente Fabrizio. «Ti
ho regalato un girocollo d'oro perché ti decidessi
a togliere questo».
Non sono stata io a chiederti di regalarmi nessun
gioiello, e lo sai - protesto infastidita.
«Non intendevo dire questo» mi risponde. «è stata
una mia iniziativa, d'accordo. Almeno, però, è
servita a farti compiere il sacro e terribile
gesto di toglierti quella catenina dal collo...».
E dunque? - domando. Non era appunto questo che
volevi?
«Beh, non pensavo però che fosse finita nel
portafoglio. Si direbbe che da questo amuleto tu
non possa proprio staccarti...».
Sto già per replicare di nuovo, ma mi precede il
nostro compagno di scompartimento che
improvvisamente interviene a difendermi.
«Spesso il valore soggettivo degli oggetti non
coincide né con la loro bellezza, né con il loro
valore materiale» afferma l'uomo, con tono pacato.
«Certo, certo...» ribadisce Fabrizio, rivolgendosi
all'uomo. «Diciamo pure che nelle mie osservazioni
c'è un po' di acredine, un po' di disappunto, che
viene dal vedere tanto amata una collanina in cui
io proprio non trovo tutta quell'originalità e
quella bellezza che lei (indicando me) sembra
vederci. E comunque, per quanto grande possa
essere il suo valore affettivo, mi sembra un po'
eccessivo tenersela al collo sempre, giorno e
notte, irremovibilmente...».
«Ma ormai non la porta più al collo, mi sembra di
avere inteso...» insiste il nostro interlocutore,
rivolgendosi a Fabrizio e guardando me.
Mi guarda e io lo scruto con sospetto. Perché mi
difende?
è gentile da parte sua, ma non cerco avvocati.
Fabrizio ha ragione a suo modo. E intimamente lo
so.
E conclude intanto Fabrizio: «Sì, è vero. Però ce
n'è voluto del tempo, per farla decidere a
togliersela...».
Sì, ce n'è voluto del tempo.
Improvvisamente, adesso, su questa affermazione il
nostro battibecco sembra inciampare e spegnersi.
In una pausa di silenzio io e Fabrizio ci
guardiamo con tutta la complicità di una
consapevolezza che è nostra, e nostra soltanto.
ciò che non potremo mai condividere, né raccontare
o spiegare a questo nostro interlocutore
occasionale. Forse anche ciò che quest'uomo in
qualche modo intuisce, chissà, dai nostri sguardi
fattisi adesso pensierosi.
Disagio. Quel breve e delicatissimo disagio che a
volte si insinua imprevedibile nel flusso
spumeggiante della parlata allegra, scherzo o
risata. Disagio, del momento in cui si sente
simultaneamente attore sul palco e spettatore in
platea. E lì ci si vede, e ci si scopre d'un
tratto mediocri e ridicoli.
Per questo le parole che dovrebbero seguire,
d'improvviso non vengono più. Si impregnano di un
così nauseante sapore di banalità che un pudico
ritegno si premura di censurarle. Si avverte
sconsolatamente quanto ogni parola risulti
inadeguata al vissuto che vorrebbe esprimere e che
quel pezzo di storia, proposta come un racconto ad
effetto, per intrattenere l'ignara persona che ci
sta a sentire, è passata sulla nostra vita con ben
altri significati.
Perché non basta ammantare di ridicolo i piccoli
aneddoti del nostro percorso, per mutare in farsa
o commedia la vita. Poiché niente è veramente
ridicolo, nemmeno ostinarsi per anni a tenere al
collo una vecchia catenella d'argento.
è esattamente questo che sta tentando di spiegare
a Fabrizio l'uomo dalla sciarpa di seta. E
Fabrizio è troppo avveduto per non capire che
l'uomo a cui si è rivolto ha perfettamente
ragione. Che io stessa ho ragione. Che abbiamo
tutti ragione.
Perfino lui, che insiste a ritenere molto
fantasioso attribuire la forma di un gabbiamo ad
un pezzetto d'argento sagomato press'a poco a
forma di «w» capovolta.
Klagenfurt: ore 16,39
Intanto l'uomo che mi siede di fronte ha scostato
la sciarpa di seta. Ha portato distrattamente la
mano al colletto sbottonato della camicia.
Ho seguito dapprima casualmente la sequenza dei
suoi movimenti con lo sguardo. Meccanicamente l'ho
osservato scostare quella sciarpa di seta che di
lui avevo notato fin dall'inizio. Poi, mentre la
sua mano frugava con noncuranza tra il collo della
camicia e quello del maglione, ho sentito
l'inquietudine invadermi, quasi spaccarmi. Nella
frazione di un attimo il pensiero ha percorso
sentieri infiniti.
Il riscaldamento sul treno sembra fissato sul
massimo: fa troppo caldo qui dentro. Non ho da
stupirmi se il nostro compagno di viaggio si
allarga con la mano il colletto della camicia
felpata. È un gesto comune. Fa caldo, continuo a ripetermi.
Ma il pensiero ha cominciato a sfuggirmi. Mi
accorgo di avere iniziato ad osservare con
un'attenzione crescente i lineamenti del suo viso.
Ne cerco il colore degli occhi dietro le lenti
degli occhiali, indovino come dovevano essere i
suoi capelli prima che incominciassero a
incanutirsi e a farsi radi intorno alla nuca.
Ricadenzo mentalmente il tono e l'accento della
sua voce, dalle poche frasi che gli ho udito
pronunciare finora con noi.
Copyright © 1997