SUL TRENO PER VIENNA (2)
SUL TRENO PER VIENNA (II parte)

L'uomo che ha raccolto il mio girocollo d'argento sembra non avere prestato attenzione ai commenti di Fabrizio, come se fosse intento soltanto a studiare l'oggetto. Tarda a riconsegnarlo a Fabrizio e solleva lo sguardo, incuriosito, verso di me.
Così i nostri sguardi si incrociano, mentre Fabrizio ridacchia. E l'espressione dei suoi occhi - stupore? - mi incute uno strano imbarazzo. Intanto, però, Fabrizio si è ormai attivato, e adesso sembra cogliere l'occasione per rivolgersi, con l'aria spavalda di un'antica maschile complicità, allo sconosciuto che finora ha ignorato.
«Ah, le donne! - dice rivolto all'uomo, ma guardandomi di sottecchi - parlano tanto di libertà e di indipendenza, ma poi cos'è che vogliono veramente? Una catena al collo! Ecco il loro più segreto desiderio».
È la solita provocazione nei miei riguardi. Lo ascolto un po' divertita e un po' seccata: il ritornello lo conosco a memoria e so già come proseguirà.

«La vede, questa? Le sembra una collana, una collana qualunque?» incalza infatti Fabrizio, rivolto al nostro casuale compagno di viaggio, che intanto gli ha restituito la collana caduta. Ora Fabrizio la tiene per una estremità, facendogliela dondolare di fronte con posa compiaciuta.
Quanto vorrei che la smettesse.
Ma lui prosegue nel suo soliloquio.

«No, non si lasci ingannare. Sembra una collana, ma è ben altro... Lo chieda a lei - dice accennando a me - se è una collana come tutte le altre, o se per caso non è una catena da portare al collo, sa, una di quelle belle catene che un tempo si mettevano alle caviglie degli schiavi...».
«Oh, certo, è una catena sottile - precisa subito - d'argento, anche. Ma era fatta per stare al suo collo, e guai se lei se la toglieva! La catena messa dal padrone. Oh, non mi chieda chi è il padrone... Provi a insinuare che una donna ha qualcuno che le fa da padrone, e vede cosa si scatena...».
E tornando a far dondolare la catenina, prosegue ancora: «Però, la guardi bene, questa collana... Mica è un filo di perle o di pietre preziose! Sono solo degli anellini d'argento incastrati in serie uno nell'altro. Vale a dire, una catena. Una catena da mettere al collo. Ai cani non si mette il collare, no? Per le donne è la stessa cosa, solo che loro le chiamano collane...».
Tento invano di interromperlo, notando lo sguardo stupito e divertito dell'uomo che si è visto inaspettatamente indirizzare questa cascata di opinioni non richieste.
Questa storia non riguarda lui - vorrei dire a Fabrizio - e dunque che bisogno c'è di coinvolgerlo nelle nostre faccende?
Ma Fabrizio ha voglia di raccontare qualcosa di noi a questo sconosciuto. Per noia o per svago. O per avere qualcosa da dire da qui fino a Vienna.
So già che non serve protestare, ribattere, o tentare di zittirlo. Siamo io e lui ad avere bisogno proprio di questo: spiegare al primo malcapitato che viene sotto tiro i ridicoli impacci che sono sottesi all'apparente meravigliosa intesa del nostro rapporto.
Parole, che tra di noi non sappiamo dirci, trapelano con prepotenza appena ci viene data la presenza di un interlocutore estraneo. Parliamo a questo - sia il collega di turno, o lo sconosciuto che troviamo sul treno - ma è solo per fare sapere l'uno all'altra quello che altrimenti non saremmo capaci di dirci.
Comunicazione per interposta persona: palare ad un terzo perché ci ascolti chi silenziosamente ci è accanto. Strano a dirsi, ma serve. Vale ad esprimere almeno in questo modo, ben travestiti dall'abito del grottesco, quei segreti disappunti che a vicenda non sappiamo palesarci.
Così tanti sono i piccoli fremiti - coartati, censurati, repressi - che passano tra di noi proprio attraverso il motteggio e lo scherzo, o l'ironia. L'autoironia, anche. O soprattutto. Perché, quante volte ci pigliamo in giro da soli, per nascondere un'aspettativa delusa o una richiesta che non sappiamo avanzare...
Spesso mi sono persuasa che l'autoironia è la migliore risorsa che resta a quelli come noi, che possono comunicare soltanto ridendoci sopra il tacito desiderio che è stato misconosciuto e che in altro modo non avrebbero mai il coraggio di confessare.
è come un senso di pudore che si acquista con gli anni, quello che induce a nascondere dietro il velo del sorriso l'intima sofferenza, l'intima delusione - quali che siano. Perché desiderare è proibito, quando non ci si ritiene più in diritto di pretendere. Solo il bambino può piangere, pestare i piedi, gridare per ottenere quello che desidera - oppure, a seconda dell'indole, ritirarsi imbronciato in disparte, ostentando così il proprio disappunto.
Per pretendere, bisogna pur credere che ci sia qualcuno disposto a dare. Io, da parecchio tempo, non so più se questo qualcuno esiste.

«E poi, lo vede questo... questo coso qui? Cosa le sembra che sia questo?», ha intanto proseguito Fabrizio, secondo il copione che entrambi conosciamo ormai bene. «Penserebbe mai di chiamare “ciondolo” questa cosa dalle punte aguzze? Ciondolo! Altro che ciondolo! Questa è un'arma contundente dalle punte affilate...».
E finalmente si assesta comodo e trionfante sul sedile, per arrivare a pronunciare la sua sentenza conclusiva, che io conosco a memoria.
«Io gliel'ho sempre detto che deve averglielo regalato sua madre, perché le servisse a tenere a distanza gli uomini, come una specie di amuleto scaccia-amanti... Le avrà detto: tu tienilo sempre al collo. Così poteva essere sicura che chiunque avesse osato insidiare la figlia, avrebbe avuto a che fare con questo - esclama compiaciuto, guardandomi di sottecchi. - è un'arma-sfregia- amanti, ecco cos'è... Uno prova ad avvicinarseli, a cercare un po' di intimità, e subito, zac...
viene immediatamente trafitto dalle punte di questo... questo graziosissimo ciondolo!».
E ride Fabrizio, guardandomi.
Non intervengo. Osservo come abbia ritrovato il meglio della sua ironia e se ne compiaccia. Vedo con quanta soddisfazione si esibisce di fronte a questo spettatore occasionale. Lo lascio fare - se ha così voglia di proseguire. Muore dalla voglia di proseguire, me ne accorgo.
Così lui incalza, rivolto al nostro compagno di scompartimento: «Mi dica - proviamo a sentire il signore qui - mi dica... Cosa le sembra mai che possa essere questo coso... questo ciondolo?
Suvvia, sentiamo anche il suo parere...».
E so che non si attende risposta.
Ma l'uomo gli risponde pacatamente, con un sorriso: «è un gabbiano».

Io trasalisco. Anche Fabrizio, a cui manca adesso la prontezza della replica.
è colto di sorpresa e deve modificare la battuta che aveva già pronta da pronunciare. Lo fa con un certo disagio: «Ah! Un gabbiano... un gabbiano, mi dice...».
E si volta verso di me, d'improvviso quasi smarrito, mentre io non riesco a trattenere un aperto sorriso di trionfo.
Finché riesce a riprendersi dalla sorpresa e ad aggiungere pensieroso: «Dunque anche lei riesce a vederci un gabbiano, mah... francamente pensavo ci volesse un bel po' di fantasia per vedere un gabbiano in questa forma... Un gabbiano, mah...».
«Sì, un gabbiano. In forma stilizzata, naturalmente» precisò l'uomo, con tono sicuro.
«Eh, forse... Sarà pur vero dunque...» si arrende Fabrizio. «In effetti, lei - additando me - ha sempre sostenuto esattamente questo... che era un gabbiano...».

Intanto io, pensierosa, mi fisso a guardare il nostro compagno di viaggio.
Anche lui adesso si è messo a fissarmi. e a sorridermi.
So che dovrei essere lieta, che dovrei essergli riconoscente della risposta data a Fabrizio (un punto a mio favore). Francamente nemmeno io me l'aspettavo.
Però mi ha provocato soltanto un indistinto disagio. Come continuo ad essere turbata, adesso, da questi occhi neri che continuano a scrutare nel mio silenzio. E forse sono grata a Fabrizio per la disinvoltura con cui di nuovo continua a parlare. «Comunque, gabbiano o non gabbiano, adesso si è scoperto che fine aveva fatto questa catenella» riprende infatti Fabrizio, ridendo. «Caso mai avessi potuto pensare che fosse davvero sparita dalla circolazione...».
E con tono da istrione prosegue: «No, non sia mai detto! Tolta dal collo, ma solo per finire nel portafoglio. Com'è che non ci avevo pensato prima?».
Comunque non la porto più al collo - replico infine io, sperando di porre fine alla disputa.
«e meno male!» ribatte prontamente Fabrizio. «Ti ho regalato un girocollo d'oro perché ti decidessi a togliere questo».
Non sono stata io a chiederti di regalarmi nessun gioiello, e lo sai - protesto infastidita. «Non intendevo dire questo» mi risponde. «è stata una mia iniziativa, d'accordo. Almeno, però, è servita a farti compiere il sacro e terribile gesto di toglierti quella catenina dal collo...».
E dunque? - domando. Non era appunto questo che volevi?
«Beh, non pensavo però che fosse finita nel portafoglio. Si direbbe che da questo amuleto tu non possa proprio staccarti...».
Sto già per replicare di nuovo, ma mi precede il nostro compagno di scompartimento che improvvisamente interviene a difendermi.
«Spesso il valore soggettivo degli oggetti non coincide né con la loro bellezza, né con il loro valore materiale» afferma l'uomo, con tono pacato. «Certo, certo...» ribadisce Fabrizio, rivolgendosi all'uomo. «Diciamo pure che nelle mie osservazioni c'è un po' di acredine, un po' di disappunto, che viene dal vedere tanto amata una collanina in cui io proprio non trovo tutta quell'originalità e quella bellezza che lei (indicando me) sembra vederci. E comunque, per quanto grande possa essere il suo valore affettivo, mi sembra un po' eccessivo tenersela al collo sempre, giorno e notte, irremovibilmente...».
«Ma ormai non la porta più al collo, mi sembra di avere inteso...» insiste il nostro interlocutore, rivolgendosi a Fabrizio e guardando me.

Mi guarda e io lo scruto con sospetto. Perché mi difende? è gentile da parte sua, ma non cerco avvocati.
Fabrizio ha ragione a suo modo. E intimamente lo so.
E conclude intanto Fabrizio: «Sì, è vero. Però ce n'è voluto del tempo, per farla decidere a togliersela...».

Sì, ce n'è voluto del tempo. Improvvisamente, adesso, su questa affermazione il nostro battibecco sembra inciampare e spegnersi. In una pausa di silenzio io e Fabrizio ci guardiamo con tutta la complicità di una consapevolezza che è nostra, e nostra soltanto.
ciò che non potremo mai condividere, né raccontare o spiegare a questo nostro interlocutore occasionale. Forse anche ciò che quest'uomo in qualche modo intuisce, chissà, dai nostri sguardi fattisi adesso pensierosi.
Disagio. Quel breve e delicatissimo disagio che a volte si insinua imprevedibile nel flusso spumeggiante della parlata allegra, scherzo o risata. Disagio, del momento in cui si sente simultaneamente attore sul palco e spettatore in platea. E lì ci si vede, e ci si scopre d'un tratto mediocri e ridicoli.
Per questo le parole che dovrebbero seguire, d'improvviso non vengono più. Si impregnano di un così nauseante sapore di banalità che un pudico ritegno si premura di censurarle. Si avverte sconsolatamente quanto ogni parola risulti inadeguata al vissuto che vorrebbe esprimere e che quel pezzo di storia, proposta come un racconto ad effetto, per intrattenere l'ignara persona che ci sta a sentire, è passata sulla nostra vita con ben altri significati.
Perché non basta ammantare di ridicolo i piccoli aneddoti del nostro percorso, per mutare in farsa o commedia la vita. Poiché niente è veramente ridicolo, nemmeno ostinarsi per anni a tenere al collo una vecchia catenella d'argento. è esattamente questo che sta tentando di spiegare a Fabrizio l'uomo dalla sciarpa di seta. E Fabrizio è troppo avveduto per non capire che l'uomo a cui si è rivolto ha perfettamente ragione. Che io stessa ho ragione. Che abbiamo tutti ragione.
Perfino lui, che insiste a ritenere molto fantasioso attribuire la forma di un gabbiamo ad un pezzetto d'argento sagomato press'a poco a forma di «w» capovolta.

Klagenfurt: ore 16,39
Intanto l'uomo che mi siede di fronte ha scostato la sciarpa di seta. Ha portato distrattamente la mano al colletto sbottonato della camicia.
Ho seguito dapprima casualmente la sequenza dei suoi movimenti con lo sguardo. Meccanicamente l'ho osservato scostare quella sciarpa di seta che di lui avevo notato fin dall'inizio. Poi, mentre la sua mano frugava con noncuranza tra il collo della camicia e quello del maglione, ho sentito l'inquietudine invadermi, quasi spaccarmi. Nella frazione di un attimo il pensiero ha percorso sentieri infiniti.

Il riscaldamento sul treno sembra fissato sul massimo: fa troppo caldo qui dentro. Non ho da stupirmi se il nostro compagno di viaggio si allarga con la mano il colletto della camicia felpata. È un gesto comune. Fa caldo, continuo a ripetermi.
Ma il pensiero ha cominciato a sfuggirmi. Mi accorgo di avere iniziato ad osservare con un'attenzione crescente i lineamenti del suo viso.
Ne cerco il colore degli occhi dietro le lenti degli occhiali, indovino come dovevano essere i suoi capelli prima che incominciassero a incanutirsi e a farsi radi intorno alla nuca. Ricadenzo mentalmente il tono e l'accento della sua voce, dalle poche frasi che gli ho udito pronunciare finora con noi.

CONTINUA

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