SUL TRENO PER VIENNA (2)
SUL TRENO PER VIENNA (III parte)

Non so come è possibile compiere con la mente tante operazioni nell'arco brevissimo di pochi secondi. Ma il tempo in cui la sua mano è andata a scostare la sciarpa di seta, frugandosi attorno al collo, a me è parso dilatarsi all'infinito. E infinite e rapidissime le pulsazioni che ho sentito accelerarsi nel mio cuore.
Contro il pensiero che corre, io malgrado, veloce, quanto più veloce di questo treno per Vienna, ho tentato invano di ribellarmi. Ma non è possibile.

Non è possibile, ho continuato a ripetermi intensamente, nello sforzo di arginare quell'interrogativo - presentimento o sospetto - che in me cominciava a farsi largo. No, non è possibile.
E ho maledetto me stessa e i capricci della mia fantasia. Mi sono persuasa con tutta la mia ragionevolezza che non vi + niente di noto nel viso enigmatico che qui, di fronte a me, mi sta guardando silenzioso. Ogni tratto di questo volto mi è nuovo, estraneo, sconosciuto. Dome deve essere. Si tratta soltanto di un viaggiatore qualunque, che è capitato come noi su questo treno e proprio in questo scompartimento, in un giorno qualsiasi, diretto non so dove né perché. Ma nella mia mente cocciuta è una voce via via sempre più nota quella che continua a ripetere come in una litania interminabile la risposta che poco fa ha dato a Fabrizio: è un gabbiano - è un gabbiano - è un gabbiano...

No, non è possibile. Altrimenti l'avrei riconosciuto subito. Non è possibile. Non c'è niente di strano nell'avere indovinato che il pendente raffigurava un gabbiano. è solo colpa di Fabrizio, che a forza di insistere e di prendermi in giro, ha finito per convincermi di non potere pretendere che quel ciondolo assomigliasse ad un gabbiano per altri che per me.
Non c'è niente di particolare nei suoi occhi. E poi non erano così scuri.
E poi non credo che porterebbe sciarpe di seta. E poi... Quanti anni avrà quest'uomo? E i capelli sono troppo corti.
Non portava gli occhiali.
E perché dovrebbe andare a Vienna? E proprio il giorno di Santo Stefano! In treno!
E quella calvizie sulla nuca...
E poi... e poi...
Ma tutto questo non significa niente, lo so. Si può cambiare molto in diciassette anni. E non significano niente gli occhiali, la sciarpa di seta, o i pochi capelli, già grigi. Nemmeno che si trovi su questo treno, diretto a Vienna, o chissà dove. E forse anche gli occhi non sono poi troppo scuri. E non capisco perché mi ha sempre guardata in quel modo, e perché non ha restituito subito la catenina a Fabrizio, quando l'ha raccolta.
E cosa vi ho trovato io - in lui - di attraente?
Non lo so. Ma anche questo... che cosa può voler dire?
No, sicuramente no. fantasie. Scherzi di un pensiero che a volte corre per meandri oscuri.
Brandelli di ricordi superflui, che nel momento imprevisto mi ricascano addosso. E riescono ancora a fare solo del male, a fare solo paura.
No, sicuramente no. è solo un uomo qualunque. Un uomo che ha ascoltato divertito il battibecco tra me e Fabrizio, intervenendo semmai con parole assennate.

Ho ancora lo sguardo fisso su di lui. E mentre osservo la sua mano allargare il colletto della camicia, sento la mia serrarsi al bracciolo del sedile e l'altra stringere il libro con forza. Il cuore batte con tonfi sempre più rapidi e tutte le mie forze sono impegnate a controllare il tremito delle labbra e delle palpebre.
Controllati, mi dico con rabbia: è un'ipotesi estremamente improbabile.
Non so più cosa provo, se speranza o paura.
Possibile e impossibile in questo istante sono venuti a mischiarsi, nelle imprevedibili coincidenze della vita o del caso. D'improvviso tutto mi sembra impossibile e possibile allo stesso tempo. Ma non so cosa voglio. Non so se quello che i miei occhi stanno ansiosamente cercando di vedere, è ciò che vogliono o ciò che non vogliono vedere.

Vienna. Vienna! Arriva in fretta, ti prego. Fatemi scendere da questo treno.
Ma non è vero: sono inchiodata. E inchiodato è il mio sguardo.
Basterebbe forse chiudere gli occhi, fingere di voler dormire.
Non cerco verità, non voglio più verità, non so che farmene. In altri tempi le ho cercate. Ora no. Ora è tardi. Ora so che non servono a niente. Solo opinioni. come le nostre. Quelle degli articoli che scriviamo. Punti di vista, non più che questo.
Non voglio svelare più niente. Ci sono limiti che la nostra curiosità, la nostra voglia di conoscere non può e non deve superare.
Ma adesso, qui, non sono capace di voltare la testa e di chiudere gli occhi.

Suvvia, che ti succede? - mi dico. Non avere paura. Parole note. Parole che ho ripetuto a me stessa con voce suadente tutte le volte che mi sono trovata sola, con qualcosa di terrificante che incombeva, e dovevo procedere.
Andrà tutto bene, vedrai - mi dicevo. E poi riderai, sì, dopo riderai a ripensarci. Non può accadere niente di veramente importante su un treno. Non su questo treno. Non su un comunissimo treno diretto a Vienna.

Ora, con uno sforzo immenso, sposto per un attimo lo sguardo al finestrino. Ricordo anche a quel gioco superstizioso di cui un tempo mi servivo, senza crederci, semplicemente per attenuare l'ansia. Provo allora ad immaginare intensamente quello che fra pochi istanti “inevitabilmente” vedrò: il mio vecchio girocollo di corallo, al collo di quest'uomo.
Intensamente, devo pensarlo intensamente, come se l'avessi già visto - come se fosse vero. E poiché l'ho pensato, ecco, non accadrà. Antico espediente per ingannare la sorte, la vita. Ciò che si è meticolosamente pensato non accadrà mai. La realtà rifugge dal riprodurre ciò che il pensiero ha dettagliatamente anticipato: ama troppo cogliere di sorpresa. Rinuncia ai suoi piani, quando noi riusciamo a precederla, a prevedere... (Mioddio, quanto sono stupida a volte!).

E adesso torno a guardare l'uomo con la sciarpa di seta seduto di fronte a me. Lo guardo negli occhi e lo vedo fissarmi e sorridermi.
Il mio sguardo ormai non può più evitare di scivolare al collo di lui.
E vedo adesso la sua mano giocherellare e attorcigliare una sottile collanina di corallo. La vedo come l'avevo vista un attimo fa nel mio pensiero.
è il girocollo di corallo che apparteneva a mia nonna e che mia nonna mi regalò quand'ero ragazza. Il girocollo che non ho più rivisto da diciassette anni e che, dal fermaglio a forma di serpente, immediatamente riconosco. Come in questo momento potrei riconoscerlo tra un milione di altri. Lo vedo e lo riconosco al collo di un uomo che invece non ho riconosciuto.
Ciò che ad occhi chiusi, un momento fa, ho immaginato come se lo stessi vedendo, è ciò che adesso vedo realmente.
L'espediente, questa volta, non ha raggiunto il suo scopo.
In silenzio distolgo lo sguardo verso il finestrino.
Per un attimo non vedo più niente.

Leoben: ore 18,35
Hanno continuato a parlare, lui e Fabrizio, di questo e di quello.
Le loro voci giungevano fino a me come musica di sottofondo ad altri pensieri - ricordi. Il tempo del presente si intreccia e si confonde con quello del passato. Non so più a quale appartengo. Non so più chi sono: se la giornalista, la donna indipendente, cinica, arrabbiata di oggi, o la tenera e ingenua ragazza sognante di ieri.
L'una e l'altra, tento di dirmi. La giornalista di oggi è nata dalla ragazza di ieri. Eppure, adesso, a guardare il girocollo d'argento posato sul ripiano di fronte a me, non riesco a non provare vergogna.
Vergogna. Per la ragazza di ieri. Per tutti gli anni che ho pure tenuto ostinatamente al collo quella collana. Vergogna per conservarla ancora, dentro al portafoglio. Vergogna di fronte a quest'uomo che ha appena saputo da Fabrizio l'ostinazione con cui ho portato per anni il suo girocollo d'argento. Solo un'immensa, dissacrante vergogna.

Fabrizio, abbracciami. Fabrizio, fammi scendere da questo treno. Fabrizio, smetti di parlare a quest'uomo. Guardami negli occhi e lascia che in te mi rispecchi e mi veda, come tu mi vedi, come so che tu mi hai sempre vista: questa. Questa donna inquieta, spigolosa, che è stata sempre pronta a tenerti testi. Che sa vivere con quella dose di cinismo che serve a non lasciarsi irretire. Che sa giocare, prendere e prendersi in giro. E lottare. E stringere i pugni, farsi largo, mordersi la lingua, inghiottire. E non le hai mai visto sul viso una lacrima.
Lacrime. Ma un giorno anch'io le ho versate. Per questo sconosciuto che mi siede di fronte. Saremo, avremo, faremo, andremo - disse, insieme a me, molto tempo fa. E io attesi, sì, quella volta attesi. Lui mancò. Soltanto parole. Parole. Fiato di voce.
Parole che illudono.
Mi ingannai. Ma per ingannarsi, bisogna credere. Quella volta avevo creduto.
Sì. Io scettica, io disillusa, diffidente, guardinga, una volta ho creduto. Quella volta. Ma ero giovane, tanto giovane, sai. Declamavo Prévert e mi dilettavo a plasmare sculture di creta. Avevo sogni romantici da adolescente e pensavo solo in termini di assoluti. Non c'era niente a metà tra il bianco ed il nero. Non c'era niente di intermedio tra la dedizione totale e l'indifferenza. Ciò che non era giusto era irrevocabilmente sbagliato, e ciò che non era sbagliato era altrettanto inequivocabilmente giusto.
Quel giusto, l'avrei perseguito a costo di morirci. Ero severa: con gli altri, e con me stessa di conseguenza. Non ammettevo compromessi e non concedevo indulgenza. C'erano verità che nitidamente sapevo distinguere, e per questo conoscevo con sicurezza la via da percorrere.
Credere era sempre sapere. Fiducia significava certezza. Plasmavo con la creta le forme dei miei mondi sognanti. Non dubitavo che fosse in mio potere farli divenire realtà. Volere significava potere. Intanto mi accontentavo di costruirli nella mia mente, lungo i ritorti itinerari del possibile, e di modellarne le figure in quel mio passatempo da artista - così mi piaceva sentirmi - con il quale davo forma all'ideale, anticipando il suo avverarsi.
Sapevo fin troppo bene cosa stavo cercando. Per questo, quando poi lo incontrai, non esitai a riconoscerlo. Lui. Bastò scambiare poche frasi.
Bastò guardarsi negli occhi. M'accorsi che aveva sognato i miei sogni. Nient'altro contò. Nemmeno quale fosse il suo nome.
E quando poi mi ammonirono, cercando di spiegarmi chi lui fosse realmente, non volli ascoltare. Non ci fu più realtà. Anche droga restò un'insignificante parola, che niente poteva spiegare di lui. Aveva sognato i miei sogni: questo solo contava. Perché chi aveva sognato i miei sogni, non poteva deludermi.
L'avere trascorso insieme soltanto una dozzina di ore, e in un frangente inconsueto, ai miei occhi non sminuì niente. Perché ero giovane allora, tanto giovane, sai.

La malleabilità è una virtù. Ma l'ho imparato più tardi.
Chi non sa piegarsi, alla fine si spezza.
Ma ho dovuto spezzarmi per capirlo. L'ostinazione era stata troppo a lungo la mia regola aurea. C'è un limite alla resistenza umana. C'è un limite anche al male che possiamo infliggere a noi stessi. Oltre quel limite c'è un epilogo, che è morte o è rinascita. E se è rinascita, oltre quella rinascita c'è l'oblio di tutto ciò che eravamo.
Ho vissuto per quattro anni ibernata, mentre il tempo mi passava sopra senza toccarmi. C'è un orologio interiore che segue un andamento diverso da quello degli ani e delle stagioni. Succede a qualcuno che le sue lancette un giorno si fermino, e allora tutto ciò che in noi è vita rimane fisso a quella data, a quell'ora. E il resto dell'esistenza procede come senza di noi. L'indifferenza pervade tutto, senza distinzioni. Gli psicologi la chiamano depressione. Io l'ho sempre chiamata: essere altrove. Altrove, sempre, quale che sia il luogo in cui fisicamente ti trovi. Essere sempre lì, a quella data, a quell'ora. Essere sempre con lui. Con lui. Con lui, attraverso il pensiero, a figurarsi ogni attimo della sua giornata - con chi è, cosa fa, cosa sta pensando, cosa prova.
Col pensiero? No. Con il cuore, con il corpo, con l'anima: con tutto ciò che di vivo e pulsante vibra dentro di noi. Essere sempre con lui. Per quattro anni. Senza mai rivederlo. senza saperne più niente. E quella parola - droga - che martella la testa, trascinando con sé le visioni più macabre. Droga, droga, droga. E i neri presagi. Le crude immagini che si sovrappongono a tutta l'indescrivibile dolcezza che comunicava il suo viso. Dov'è? Cosa sta facendo?
Intanto, in questo modo, vedere il tempo passare.
Sentirlo passare anche?
No. Vederlo passare e basta. Come si vede scorrere un fiume. Noi, dentro e fuori, simultaneamente. Dentro alla corrente che trascina. E fuori, a vedersi trascinati. Per quattro anni. Quella che per gli altri si chiamava giovinezza. Gli anni che si pensano felici. Strana ironia. Anni vissuti in un'estenuante attesa: un giorno tornerà a cercarmi, un giorno. Un giorno (...quando?). Come un'altra Penelope, in abiti moderni: che tristezza a pensarci. Io, proprio io. E al collo quella catenina d'argento. Per dirmi: tornerà.
Quando? («Quando crescerai, ragazza? Sono solo sogni, non vedi. Pensi forse che lui possa ricordarsi ancora di te? Non essere ridicola. Tu lo sapresti riconoscere sempre, anche tra un milione di altri, oggi o tra cento anni... ma lui? Credi che si ricordi ancora il colore dei tuoi occhi? Credi proprio che lo conservi ancora il tuo girocollo di corallo? Non essere sciocca. Hai letto troppi romanzi» - sì, lo so).
Sì, lo sapevo. Ma ero ostinata.
Quattro anni durò quell'ostinazione, sorda ad ogni ammonimento, ad ogni consiglio.
Tutti sapevano con assoluta certezza la verità. Tutti sapevano perfettamente quanto ero ridicola, sapevano benissimo cosa dovevo fare («Dimenticarlo, ovvio»). Sapevano benissimo perché dovevo farlo («Perché non ti ha mai amata, ovvio»).
Tutti lo sapevano. tutti me lo dicevano. Ma non serviva a niente.
Poi un giorno, a Parigi, durante un soggiorno estivo di studio della lingua francese, qualcuno me lo domandò - cioè, domandò proprio a me ciò che a tutti era ovvio e noto.
«Ma lui ti ama?», mi sentii chiedere.

Fu lì che le lancette del mio orologio ripresero a muoversi, e tornai finalmente presente a me stessa.
Devo dunque ringraziare di questo un ragazzo algerino, che conobbi a Parigi e poi non rividi mai più. Preferii lasciarlo confinato nel ricordo di un'avventura parigina di gioventù. E così non ha mai saputo di essere stato lui - uno straniero incontrato a Parigi per caso - la persona che inconsapevolmente mi costrinse al risveglio. Dal lungo sonno, dal mito, dal sogno.
Mi risvegliai. Mi risvegliai nel momento in cui la mia voce, mio malgrado, rispose a quella domanda, con parole sommesse: «No, non credo».
No, non credo - strane parole, se pronunciate da me.
Ma in quel momento capii ciò che sapevo. Perché ero io, adesso, a rispondere così. Io. Non gli altri - come sempre - così pronti a negare quell'amore al mio posto. Questa volta ero io. E mi accorsi di avere più alibi.
Improvvisamente mi resi conto di essere stata «altrove» troppo a lungo e che era giunto il momento di fare ritorno agli altri e a me stessa.
Alla realtà. Una realtà che lì mi riprese attraverso il corpo. O una realtà alla quale, attraverso il corpo, mi restituii (quel corpo che era stato fantasma, quel corpo che per quattro anni aveva vissuto traversando la vita mentre tutto di me era immobile, estraneeo, lontano).
Lì, d'improvviso scoprii che potevo chiedere al mio corpo ciò che dai miei sentimenti non ero in grado di pretendere. E mentre la mia vergine recalcitranza a poco a poco e senza passione cedeva all'ardore di lui, ritrovavo il presente nella violenza del contrasto tra sogno e realtà. E in quel contrasto riscoprivo un significato alle cose.
Dissacrante contrasto, come quello tra l'eccitazione di lui e il mio intimo gelo, tra le sue labbra che mi baciavano avide e le mie tiepide carezze. O contrasto ancora più violento, più assurdo, più inesprimibile, quando quella mano d'uomo così estraneo e indifferente a me - ma così fatta di carne, così reale, così viva - accarezzò il mio collo e la collanina d'argento in cui era racchiuso - eterno, idealizzato, impalpabile - tutto l'indissolubile legame di un altro amore.
Come l'accostamento di colori di un dipinto di Kirchner, così spiccò allora ai miei occhi la materialità della sua mano sul mio ciondolo d'argento. Così vidi me e lui, avvinghiati insieme sul letto disfatto. E la fisicità della vita ritornò - chiamata, implorata da me stessa per prima - col calore del suo corpo sopra di me, dentro di me, di nuovo viva.
E con la vita, il risveglio. Un quadro di Kirchner ormai dentro di me, con le pennellate aspre, i contorni marcati delle figure, il contrasto dei colori puri violentemente accostati. Unica vera bellezza - perché non edulcorata, trasfigurata, poetizzata dal sogno. Invece rude, aggressiva, cruda espressione di ciò che dentro ci lacera, ci spacca, ci disorienta. Contraddizioni, contrasti, accostamenti sbagliati. Ciò che disturba tanto la vista quanto il pensiero. Questo pensiero che vuole - vorrebbe - dare ordine, senso, prevedibilità a tutte le cose. Trovare il fine e il perché. Incastrare bene tutte le tessere del grande «puzzle», per poi poterlo rimirare compiaciuti.
E invece no. No, no, no. Non è così. Solo contraddizioni e contrasti. La mente che non va d'accordo col cuore. L'egoismo celato di altruisti e filantropi. Gli atti d'amore dei criminali.
L'acutissima assennatezza dei pazzi. Il conto che non torna, anche quando tutte le cifre ci sembrano esatte. O i paradossi visivi dei dipinti di Escher, che imbrigliano lo sguardo e affascinano il cuore, quando vi osservi l'acqua percorrere in salita, sospinta dalle pale della ruota, la via dalla quale ridiscende a cascata, muovendo la stessa ruota che l'aveva sospinta in alto.
Metamorfosi. Di una realtà che trascorre attraverso forme molteplici, mentre invano ti sforzi di isolarne il frammento che le ha generate.
Finché è proprio questo che cominci ad amare.
L'imprevisto che sfata l'attesa. La ciocca di capelli ribelle al tuo pettine. La mediocrità celata nel sublime. La vita - questa vita - che non vuole farsi, divenire, adeguarsi a quello che potrebbe o che dovrebbe essere. L'assurdo che irrompe dove tutto altrimenti sarebbe prevedibile e ovvio. O la creta che si ribella alla mano, quando la mano vorrebbe imprigionarne la forma che più di tutte è chiara nel cuore.

CONTINUA

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