Non so come è possibile compiere con la mente
tante operazioni nell'arco brevissimo di pochi
secondi. Ma il tempo in cui la sua mano è andata a
scostare la sciarpa di seta, frugandosi attorno al
collo, a me è parso dilatarsi all'infinito. E
infinite e rapidissime le pulsazioni che ho
sentito accelerarsi nel mio cuore.
Contro il pensiero che corre, io malgrado, veloce,
quanto più veloce di questo treno per Vienna, ho
tentato invano di ribellarmi. Ma non è possibile.
Non è possibile, ho continuato a ripetermi
intensamente, nello sforzo di arginare
quell'interrogativo - presentimento o sospetto -
che in me cominciava a farsi largo. No, non è
possibile.
E ho maledetto me stessa e i capricci della mia
fantasia. Mi sono persuasa con tutta la mia
ragionevolezza che non vi + niente di noto nel
viso enigmatico che qui, di fronte a me, mi sta
guardando silenzioso. Ogni tratto di questo volto
mi è nuovo, estraneo, sconosciuto. Dome deve
essere. Si tratta soltanto di un viaggiatore
qualunque, che è capitato come noi su questo treno
e proprio in questo scompartimento, in un giorno
qualsiasi, diretto non so dove né perché.
Ma nella mia mente cocciuta è una voce via via
sempre più nota quella che continua a ripetere
come in una litania interminabile la risposta che
poco fa ha dato a Fabrizio: è un gabbiano - è un
gabbiano - è un gabbiano...
No, non è possibile. Altrimenti l'avrei
riconosciuto subito. Non è possibile.
Non c'è niente di strano nell'avere indovinato che
il pendente raffigurava un gabbiano. è solo colpa
di Fabrizio, che a forza di insistere e di
prendermi in giro, ha finito per convincermi di
non potere pretendere che quel ciondolo
assomigliasse ad un gabbiano per altri che per me.
Non c'è niente di particolare nei suoi occhi. E
poi non erano così scuri.
E poi non credo che porterebbe sciarpe di seta.
E poi... Quanti anni avrà quest'uomo?
E i capelli sono troppo corti.
Non portava gli occhiali.
E perché dovrebbe andare a Vienna? E proprio il
giorno di Santo Stefano! In treno!
E quella calvizie sulla nuca...
E poi... e poi...
Ma tutto questo non significa niente, lo so. Si
può cambiare molto in diciassette anni. E non
significano niente gli occhiali, la sciarpa di
seta, o i pochi capelli, già grigi. Nemmeno che si
trovi su questo treno, diretto a Vienna, o chissà
dove. E forse anche gli occhi non sono poi troppo
scuri. E non capisco perché mi ha sempre guardata
in quel modo, e perché non ha restituito subito la
catenina a Fabrizio, quando l'ha raccolta.
E cosa vi ho trovato io - in lui - di attraente?
Non lo so. Ma anche questo... che cosa può voler
dire?
No, sicuramente no. fantasie. Scherzi di un
pensiero che a volte corre per meandri oscuri.
Brandelli di ricordi superflui, che nel momento
imprevisto mi ricascano addosso. E riescono ancora
a fare solo del male, a fare solo paura.
No, sicuramente no. è solo un uomo qualunque. Un
uomo che ha ascoltato divertito il battibecco tra
me e Fabrizio, intervenendo semmai con parole
assennate.
Ho ancora lo sguardo fisso su di lui. E mentre
osservo la sua mano allargare il colletto della
camicia, sento la mia serrarsi al bracciolo del
sedile e l'altra stringere il libro con forza. Il
cuore batte con tonfi sempre più rapidi e tutte le
mie forze sono impegnate a controllare il tremito
delle labbra e delle palpebre.
Controllati, mi dico con rabbia: è un'ipotesi
estremamente improbabile.
Non so più cosa provo, se speranza o paura.
Possibile e impossibile in questo istante sono
venuti a mischiarsi, nelle imprevedibili
coincidenze della vita o del caso. D'improvviso
tutto mi sembra impossibile e possibile allo
stesso tempo. Ma non so cosa voglio. Non so se
quello che i miei occhi stanno ansiosamente
cercando di vedere, è ciò che vogliono o ciò che
non vogliono vedere.
Vienna. Vienna! Arriva in fretta, ti prego. Fatemi
scendere da questo treno.
Ma non è vero: sono inchiodata. E inchiodato è il
mio sguardo.
Basterebbe forse chiudere gli occhi, fingere di
voler dormire.
Non cerco verità, non voglio più verità, non so
che farmene. In altri tempi le ho cercate. Ora no.
Ora è tardi. Ora so che non servono a niente. Solo
opinioni. come le nostre. Quelle degli articoli
che scriviamo. Punti di vista, non più che questo.
Non voglio svelare più niente. Ci sono limiti che
la nostra curiosità, la nostra voglia di conoscere
non può e non deve superare.
Ma adesso, qui, non sono capace di voltare la
testa e di chiudere gli occhi.
Suvvia, che ti succede? - mi dico. Non avere
paura. Parole note. Parole che ho ripetuto a me
stessa con voce suadente tutte le volte che mi
sono trovata sola, con qualcosa di terrificante
che incombeva, e dovevo procedere.
Andrà tutto bene, vedrai - mi dicevo. E poi
riderai, sì, dopo riderai a ripensarci.
Non può accadere niente di veramente importante su
un treno. Non su questo treno. Non su un
comunissimo treno diretto a Vienna.
Ora, con uno sforzo immenso, sposto per un attimo
lo sguardo al finestrino. Ricordo anche a quel
gioco superstizioso di cui un tempo mi servivo,
senza crederci, semplicemente per attenuare
l'ansia. Provo allora ad immaginare intensamente
quello che fra pochi istanti “inevitabilmente”
vedrò: il mio vecchio girocollo di corallo, al
collo di quest'uomo.
Intensamente, devo pensarlo intensamente, come se
l'avessi già visto - come se fosse vero. E poiché
l'ho pensato, ecco, non accadrà.
Antico espediente per ingannare la sorte, la vita.
Ciò che si è meticolosamente pensato non accadrà
mai. La realtà rifugge dal riprodurre ciò che il
pensiero ha dettagliatamente anticipato: ama
troppo cogliere di sorpresa. Rinuncia ai suoi
piani, quando noi riusciamo a precederla, a
prevedere... (Mioddio, quanto sono stupida a
volte!).
E adesso torno a guardare l'uomo con la sciarpa di
seta seduto di fronte a me. Lo guardo negli occhi
e lo vedo fissarmi e sorridermi.
Il mio sguardo ormai non può più evitare di
scivolare al collo di lui.
E vedo adesso la sua mano giocherellare e
attorcigliare una sottile collanina di corallo. La
vedo come l'avevo vista un attimo fa nel mio
pensiero.
è il girocollo di corallo che apparteneva a mia
nonna e che mia nonna mi regalò quand'ero ragazza.
Il girocollo che non ho più rivisto da diciassette
anni e che, dal fermaglio a forma di serpente,
immediatamente riconosco. Come in questo momento
potrei riconoscerlo tra un milione di altri.
Lo vedo e lo riconosco al collo di un uomo che
invece non ho riconosciuto.
Ciò che ad occhi chiusi, un momento fa, ho
immaginato come se lo stessi vedendo, è ciò che
adesso vedo realmente.
L'espediente, questa volta, non ha raggiunto il
suo scopo.
In silenzio distolgo lo sguardo verso il
finestrino.
Per un attimo non vedo più niente.
Leoben: ore 18,35
Hanno continuato a parlare, lui e Fabrizio, di
questo e di quello.
Le loro voci giungevano fino a me come musica di
sottofondo ad altri pensieri - ricordi. Il tempo
del presente si intreccia e si confonde con quello
del passato. Non so più a quale appartengo. Non so
più chi sono: se la giornalista, la donna
indipendente, cinica, arrabbiata di oggi, o la
tenera e ingenua ragazza sognante di ieri.
L'una e l'altra, tento di dirmi. La giornalista di
oggi è nata dalla ragazza di ieri.
Eppure, adesso, a guardare il girocollo d'argento
posato sul ripiano di fronte a me, non riesco a
non provare vergogna.
Vergogna. Per la ragazza di ieri. Per tutti gli
anni che ho pure tenuto ostinatamente al collo
quella collana. Vergogna per conservarla ancora,
dentro al portafoglio. Vergogna di fronte a
quest'uomo che ha appena saputo da Fabrizio
l'ostinazione con cui ho portato per anni il suo
girocollo d'argento. Solo un'immensa, dissacrante
vergogna.
Fabrizio, abbracciami. Fabrizio, fammi scendere da
questo treno. Fabrizio, smetti di parlare a
quest'uomo. Guardami negli occhi e lascia che in
te mi rispecchi e mi veda, come tu mi vedi, come
so che tu mi hai sempre vista: questa. Questa
donna inquieta, spigolosa, che è stata sempre
pronta a tenerti testi. Che sa vivere con quella
dose di cinismo che serve a non lasciarsi
irretire. Che sa giocare, prendere e prendersi in
giro. E lottare. E stringere i pugni, farsi largo,
mordersi la lingua, inghiottire. E non le hai mai
visto sul viso una lacrima.
Lacrime. Ma un giorno anch'io le ho versate. Per
questo sconosciuto che mi siede di fronte.
Saremo, avremo, faremo, andremo - disse, insieme a
me, molto tempo fa.
E io attesi, sì, quella volta attesi.
Lui mancò. Soltanto parole. Parole. Fiato di voce.
Parole che illudono.
Mi ingannai. Ma per ingannarsi, bisogna credere.
Quella volta avevo creduto.
Sì. Io scettica, io disillusa, diffidente,
guardinga, una volta ho creduto. Quella volta. Ma
ero giovane, tanto giovane, sai. Declamavo Prévert
e mi dilettavo a plasmare sculture di creta. Avevo
sogni romantici da adolescente e pensavo solo in
termini di assoluti. Non c'era niente a metà tra
il bianco ed il nero. Non c'era niente di
intermedio tra la dedizione totale e
l'indifferenza. Ciò che non era giusto era
irrevocabilmente sbagliato, e ciò che non era
sbagliato era altrettanto inequivocabilmente
giusto.
Quel giusto, l'avrei perseguito a costo di
morirci. Ero severa: con gli altri, e con me
stessa di conseguenza. Non ammettevo compromessi e
non concedevo indulgenza. C'erano verità che
nitidamente sapevo distinguere, e per questo
conoscevo con sicurezza la via da percorrere.
Credere era sempre sapere. Fiducia significava
certezza. Plasmavo con la creta le forme dei miei
mondi sognanti. Non dubitavo che fosse in mio
potere farli divenire realtà. Volere significava
potere. Intanto mi accontentavo di costruirli
nella mia mente, lungo i ritorti itinerari del
possibile, e di modellarne le figure in quel mio
passatempo da artista - così mi piaceva sentirmi -
con il quale davo forma all'ideale, anticipando il
suo avverarsi.
Sapevo fin troppo bene cosa stavo cercando. Per
questo, quando poi lo incontrai, non esitai a
riconoscerlo. Lui. Bastò scambiare poche frasi.
Bastò guardarsi negli occhi. M'accorsi che aveva
sognato i miei sogni. Nient'altro contò. Nemmeno
quale fosse il suo nome.
E quando poi mi ammonirono, cercando di spiegarmi
chi lui fosse realmente, non volli ascoltare. Non
ci fu più realtà. Anche droga restò
un'insignificante parola, che niente poteva
spiegare di lui. Aveva sognato i miei sogni:
questo solo contava. Perché chi aveva sognato i
miei sogni, non poteva deludermi.
L'avere trascorso insieme soltanto una dozzina di
ore, e in un frangente inconsueto, ai miei occhi
non sminuì niente. Perché ero giovane allora,
tanto giovane, sai.
La malleabilità è una virtù. Ma l'ho imparato più
tardi.
Chi non sa piegarsi, alla fine si spezza.
Ma ho dovuto spezzarmi per capirlo. L'ostinazione
era stata troppo a lungo la mia regola aurea. C'è
un limite alla resistenza umana. C'è un limite
anche al male che possiamo infliggere a noi
stessi. Oltre quel limite c'è un epilogo, che è
morte o è rinascita. E se è rinascita, oltre
quella rinascita c'è l'oblio di tutto ciò che
eravamo.
Ho vissuto per quattro anni ibernata, mentre il
tempo mi passava sopra senza toccarmi. C'è un
orologio interiore che segue un andamento diverso
da quello degli ani e delle stagioni. Succede a
qualcuno che le sue lancette un giorno si fermino,
e allora tutto ciò che in noi è vita rimane fisso
a quella data, a quell'ora. E il resto
dell'esistenza procede come senza di noi.
L'indifferenza pervade tutto, senza distinzioni.
Gli psicologi la chiamano depressione. Io l'ho
sempre chiamata: essere altrove. Altrove, sempre,
quale che sia il luogo in cui fisicamente ti
trovi. Essere sempre lì, a quella data, a
quell'ora. Essere sempre con lui. Con lui. Con
lui, attraverso il pensiero, a figurarsi ogni
attimo della sua giornata - con chi è, cosa fa,
cosa sta pensando, cosa prova.
Col pensiero? No. Con il cuore, con il corpo, con
l'anima: con tutto ciò che di vivo e pulsante
vibra dentro di noi. Essere sempre con lui. Per
quattro anni. Senza mai rivederlo. senza saperne
più niente. E quella parola - droga - che martella
la testa, trascinando con sé le visioni più
macabre. Droga, droga, droga. E i neri presagi. Le
crude immagini che si sovrappongono a tutta
l'indescrivibile dolcezza che comunicava il suo
viso. Dov'è? Cosa sta facendo?
Intanto, in questo modo, vedere il tempo passare.
Sentirlo passare anche?
No. Vederlo passare e basta. Come si vede scorrere
un fiume. Noi, dentro e fuori, simultaneamente.
Dentro alla corrente che trascina. E fuori, a
vedersi trascinati. Per quattro anni. Quella che
per gli altri si chiamava giovinezza. Gli anni che
si pensano felici. Strana ironia. Anni vissuti in
un'estenuante attesa: un giorno tornerà a
cercarmi, un giorno. Un giorno (...quando?).
Come un'altra Penelope, in abiti moderni: che
tristezza a pensarci. Io, proprio io. E al collo
quella catenina d'argento. Per dirmi: tornerà.
Quando? («Quando crescerai, ragazza? Sono solo
sogni, non vedi. Pensi forse che lui possa
ricordarsi ancora di te? Non essere ridicola. Tu
lo sapresti riconoscere sempre, anche tra un
milione di altri, oggi o tra cento anni... ma lui?
Credi che si ricordi ancora il colore dei tuoi
occhi? Credi proprio che lo conservi ancora il tuo
girocollo di corallo? Non essere sciocca. Hai
letto troppi romanzi» - sì, lo so).
Sì, lo sapevo. Ma ero ostinata.
Quattro anni durò quell'ostinazione, sorda ad ogni
ammonimento, ad ogni consiglio.
Tutti sapevano con assoluta certezza la verità.
Tutti sapevano perfettamente quanto ero ridicola,
sapevano benissimo cosa dovevo fare
(«Dimenticarlo, ovvio»). Sapevano benissimo perché
dovevo farlo («Perché non ti ha mai amata,
ovvio»).
Tutti lo sapevano. tutti me lo dicevano. Ma non
serviva a niente.
Poi un giorno, a Parigi, durante un soggiorno
estivo di studio della lingua francese, qualcuno
me lo domandò - cioè, domandò proprio a me ciò che
a tutti era ovvio e noto.
«Ma lui ti ama?», mi sentii chiedere.
Fu lì che le lancette del mio orologio ripresero a
muoversi, e tornai finalmente presente a me
stessa.
Devo dunque ringraziare di questo un ragazzo
algerino, che conobbi a Parigi e poi non rividi
mai più. Preferii lasciarlo confinato nel ricordo
di un'avventura parigina di gioventù. E così non
ha mai saputo di essere stato lui - uno straniero
incontrato a Parigi per caso - la persona che
inconsapevolmente mi costrinse al risveglio. Dal
lungo sonno, dal mito, dal sogno.
Mi risvegliai. Mi risvegliai nel momento in cui la
mia voce, mio malgrado, rispose a quella domanda,
con parole sommesse: «No, non credo».
No, non credo - strane parole, se pronunciate da
me.
Ma in quel momento capii ciò che sapevo. Perché
ero io, adesso, a rispondere così. Io. Non gli
altri - come sempre - così pronti a negare
quell'amore al mio posto. Questa volta ero io. E
mi accorsi di avere più alibi.
Improvvisamente mi resi conto di essere stata
«altrove» troppo a lungo e che era giunto il
momento di fare ritorno agli altri e a me stessa.
Alla realtà. Una realtà che lì mi riprese
attraverso il corpo. O una realtà alla quale,
attraverso il corpo, mi restituii (quel corpo che
era stato fantasma, quel corpo che per quattro
anni aveva vissuto traversando la vita mentre
tutto di me era immobile, estraneeo, lontano).
Lì, d'improvviso scoprii che potevo chiedere al
mio corpo ciò che dai miei sentimenti non ero in
grado di pretendere. E mentre la mia vergine
recalcitranza a poco a poco e senza passione
cedeva all'ardore di lui, ritrovavo il presente
nella violenza del contrasto tra sogno e realtà. E
in quel contrasto riscoprivo un significato alle
cose.
Dissacrante contrasto, come quello tra
l'eccitazione di lui e il mio intimo gelo, tra le
sue labbra che mi baciavano avide e le mie tiepide
carezze. O contrasto ancora più violento, più
assurdo, più inesprimibile, quando quella mano
d'uomo così estraneo e indifferente a me - ma così
fatta di carne, così reale, così viva - accarezzò
il mio collo e la collanina d'argento in cui era
racchiuso - eterno, idealizzato, impalpabile -
tutto l'indissolubile legame di un altro amore.
Come l'accostamento di colori di un dipinto di
Kirchner, così spiccò allora ai miei occhi la
materialità della sua mano sul mio ciondolo
d'argento. Così vidi me e lui, avvinghiati insieme
sul letto disfatto. E la fisicità della vita
ritornò - chiamata, implorata da me stessa per
prima - col calore del suo corpo sopra di me,
dentro di me, di nuovo viva.
E con la vita, il risveglio. Un quadro di Kirchner
ormai dentro di me, con le pennellate aspre, i
contorni marcati delle figure, il contrasto dei
colori puri violentemente accostati. Unica vera
bellezza - perché non edulcorata, trasfigurata,
poetizzata dal sogno. Invece rude, aggressiva,
cruda espressione di ciò che dentro ci lacera, ci
spacca, ci disorienta. Contraddizioni, contrasti,
accostamenti sbagliati. Ciò che disturba tanto la
vista quanto il pensiero. Questo pensiero che
vuole - vorrebbe - dare ordine, senso,
prevedibilità a tutte le cose. Trovare il fine e
il perché. Incastrare bene tutte le tessere del
grande «puzzle», per poi poterlo rimirare
compiaciuti.
E invece no. No, no, no. Non è così. Solo
contraddizioni e contrasti. La mente che non va
d'accordo col cuore. L'egoismo celato di altruisti
e filantropi. Gli atti d'amore dei criminali.
L'acutissima assennatezza dei pazzi. Il conto che
non torna, anche quando tutte le cifre ci sembrano
esatte. O i paradossi visivi dei dipinti di
Escher, che imbrigliano lo sguardo e affascinano
il cuore, quando vi osservi l'acqua percorrere in
salita, sospinta dalle pale della ruota, la via
dalla quale ridiscende a cascata, muovendo la
stessa ruota che l'aveva sospinta in alto.
Metamorfosi. Di una realtà che trascorre
attraverso forme molteplici, mentre invano ti
sforzi di isolarne il frammento che le ha
generate.
Finché è proprio questo che cominci ad amare.
L'imprevisto che sfata l'attesa. La ciocca di
capelli ribelle al tuo pettine. La mediocrità
celata nel sublime. La vita - questa vita - che
non vuole farsi, divenire, adeguarsi a quello che
potrebbe o che dovrebbe essere. L'assurdo che
irrompe dove tutto altrimenti sarebbe prevedibile
e ovvio. O la creta che si ribella alla mano,
quando la mano vorrebbe imprigionarne la forma che
più di tutte è chiara nel cuore.
Copyright © 1997