SUL TRENO PER VIENNA (4)
SUL TRENO PER VIENNA (IV parte)

Bruck: ore 18,49
Ora lui è qui, di fronte a me, come diciassette anni fa. Il solo uomo per cui abbia pianto. Senza riconoscerlo l'avevo osservato fino ad ora, incuriosita e distratta, come si osserva un viaggiatore qualunque. Senza capire cos'era in quel suo sorriso a confondermi e a turbarmi.
Eravamo due estranei quando ci incontrammo, e due estranei siamo dunque rimasti, per tutto questo tempo. due estranei che oggi, di nuovo per caso, si sono ritrovati insieme su questo treno. E come due estranei si guardano negli occhi senza potersi riconoscere, così noi ci siamo guardati, ma non ci siamo riconosciuti. Cambiati, sì, tanto cambiati da allora.
Cambiata io - sì - al punto che oggi può sedermi di fronte per ore, inosservata, la persona che ieri avrei riconosciuto tra mille, e alla quale sarei corsa incontro, trafelata e ansimante, per gettargli le braccia al collo. E adesso, invece, non ho né la voglia né il coraggio di dirgli che l'ho riconosciuto.
Ma non è più tempo, ormai, per riconoscersi e per ricordare.
Più volte nella vita mi è capitato di implorare segretamente: ora, ora, prima che sia troppo tardi - presentendo che c'è un tempo limite ad ogni desiderio, ogni attesa.
Non servirà che domani, quando il mio tempo è scaduto, mi si renda al multiplo ciò che oggi chiedo e mi è negato. è al bambino - al bambino col naso schiacciato contro la vetrina dei giocattoli - che devi regalare il trenino elettrico, se vuoi farlo felice. Finché è bambino. Poco vale che tu glielo compri quando ormai è cresciuto e ha abbandonato i giocattoli.
Perché tutti i trenini elettrici che poi potrà comprarsi, o ricevere come dono tardivo, non varranno quel trenino elettrico della vetrina di giocattoli all'angolo della via, che era tutto quello che un giorno aveva voluto e che non ha avuto mai.
La promessa che rimanda a domani il suo adempimento è sempre un inganno, se viene adempiuta quando il desiderio è passato. La ricompensa sostitutiva non restituisce il maltolto, come a chiedere scusa non si annulla il torto arrecato. L'occasione lasciata cadere è sempre un'occasione perduta.
Perché è la mano che a te un giorno si tese, aperta e fiduciosa, quella che dovevi prendere - prima che si ritraesse.
Ora non puoi più: non so ritendertela.
E non ti porto rancore. Ciò che adesso sento è solo l'irrilevanza di quando ci si accorge che è tardi - tardi per impedire la delusione o il misfatto, tardi per consentire a una felicità possibile di farsi realtà. Tardi, quando ormai è già accaduto tutto - o comunque troppo, per poterne prescindere.

E guardo le rughe che già hanno cominciato a solcare il tuo viso, i capelli tagliati corti e ingrigiti, gli occhiali che allora non portavi, l'abbigliamento e la postura mutati.
penso quindi ai due ragazzi di allora, su quella spiaggia, e cerco di immaginare come tu adesso mi veda. Cerco di ricordarmi com'ero.
La freschezza dei miei trentacinque anni, rispetto ai tuoi quarantuno, adesso in qualche modo mi rassicura, come pure la consapevolezza di conservar ancora un aspetto giovanile e piacente.
Nel mio caso, le lenti a contatto hanno costituito gli occhialetti rotondi che portavo a quel tempo, e ho imparato a curare il mio aspetto come da ragazza preferivo non fare. Sono quel genere di donna che è migliorata invecchiando.
Fabrizio, a guardare le mie foto di adolescente, ha spesso commentato che avrei avuto difficilmente successo con lui, se mi avesse conosciuta allora. E penso che creda di farmi un complimento nel dirmelo - almeno, un complimento alla donna che ha saputo trasformarsi in modo secondo lui così apprezzabile.
Non sa come la prima volta che me lo disse, mi trattenni a stento dall'intimargli di andarsene via e di scordarsi di me per sempre.
Rabbia provai, di fronte al suo commento allegro, divertito. E vergogna, anche. Vergogna e rimorso per il mio cedere, ciò nonostante, alle sue carezze e ai suoi baci. Per il mio lasciare impunita l'offesa che con quelle parole aveva arrecato alla ragazza di ieri. E furibonda rabbia, appunto, per la disinvolta spavalderia con cui mi proponeva quel commento, che per lui era un complimento alla donna che sono e che per me era solo un insulto alla ragazza che ero.
Raramente mi è capitato di odiare Fabrizio quanto in quel momento. Perché mi diceva che il rospo della vecchia favola lui non l'avrebbe mai baciato. E io ho sempre odiato che nelle favole siano solo le donne a baciare dei Principi-rospi o dei Principi-bestia, mentre la Cenerentola vestita di stracci non l'ha mai notata nessuno, e c'è voluta una fata, che la vestisse dell'abito più bello e le fornisse paggi e carrozza, perché allora il Principe se ne invaghisse alla festa: lei la più seducente, la più affascinante di tutte.
Vorrei ci fossero favole in cui la strega repellente si trasforma in una bellissima fanciulla al bacio del cavaliere sconosciuto, ma nessuno ha mia pensato di inventarle. I Principi delle favole smontano da cavallo solo per baciare delle belle addormentate nel bosco.
La parità che ci siamo conquistate non è ancora riuscita a farci acquisire un valore che prescinda dal nostro aspetto: l'uomo è sedotto dalla bellezza fisica in un modo che, a mio avviso, non ha pari presso le donne. E questo non ha mai cessato di amareggiarmi, o di indispormi. Eppure, in questo momento, forse per la prima volta nella mia vita, il ricordo della valutazione che Fabrizio ha ripetutamente avanzato su di me, confrontando il mio aspetto di oggi con quello delle vecchie foto di gioventù, anziché infastidirmi, mi rassicura.
E mi accorgo che segretamente vorrei che anche tu - tu che mi stai guardando oggi, dopo tanto tempo - potessi avere di me la sua stessa impressione.
Ma lo vorrei soltanto perché un giorno tu sei smontato da cavallo e hai baciato il rospo che Fabrizio non avrebbe baciato.
è a te - a te che hai baciato quel rospo - che vorrei sembrare bella oggi. Bella, per l'uomo che mi mise al collo una collanina d'argento, quando vestivo jeans scoloriti, camicioni larghi e avevo l'acne, gli occhiali spessi e il viso acqua e sapone.

Vienna Neustadt: ore 20,10
Fu nell'agosto di diciassette anni fa. Ora il ricordo è così nitido da inghiottirmi.
Non ho mai dimenticato, comprendo.

Arrivammo che la festa era cominciata da poco. File di macchine parcheggiate lungo la via e musica che si udiva fin dalla strada. Illuminata la villa, con quasi tutte le finestre spalancate nell'afa dell'estate inoltrata e rumori di voci e risate che provenivano dall'interno. Striscioni di buon compleanno appesi qua e là - dagli amici, suppongo.
Tanti auguri al padrone di casa - non l'abbiamo mai visto prima, ma non importa. A invitarci e a portarci lì sono stati gli amici del festeggiato: più siamo e più ci divertiamo, hanno detto. Così siamo venute. con loro. Turiste in vacanza. Aggregate alla festa di qualcuno che non conosciamo e che probabilmente non rivedremo mai più.
Loro - gli amici del padrone di casa - li avevamo conosciuti alla spiaggia, nei giorni precedenti. Insieme abbiamo già trascorso diverse sere: pub, pizzerie, discoteche, cinema all'aperto. Stasera, una festa di compleanno.
Tanti auguri al padrone di casa. Poi dolci, bibite, tartine, spumante. Il consueto buffet. Io però non ho fame, non mangio.
Qualche presentazione. Anzi, troppe, Sciami di volti indistinguibili mi avvicinano con un radioso sorriso e qualche parola affrettata, poi scivolano via senza lasciarmi nemmeno il tempo di afferrarne il nome, nel frastuono assordante della musica a tutto volume. finché insieme agli altri ci si mischia alle danze nel salone svuotato dai mobili. E ci si accinge così a tirare mattina.
Indugio in qualche ballo svogliato. Scambio distratte parole con i nostri accompagnatori e con chi capita attorno. Vedo che mostrano di divertirsi le amiche e compagne di questa vacanza, con le quali divido la stanza all'albergo. E intanto sorseggio il mio cocktail, mentre mi accosto alla finestra a guardare il cielo, la luna, le stelle.
è una limpida serata d'estate; un grosso pastore tedesco corre abbaiando per il grande giardino. Io non ho voglia di ballare. Non ho voglia di mangiare le appetitose tartine del buffet. Non ho voglia nemmeno di ridere, civettare, scherzare. Stasera no, non ne ho voglia. Non ho voglia di niente. Non ho voglia di essere lì.
Vorrei rientrare all'albergo. Ma le amiche sembrano divertirsi. Anche i nostri accompagnatori.
Tutti ballano, chiacchierano, ridono. Non c'è speranza di potere venire via prima dell'alba, suppongo. Così mi rassegno. E guardo il cielo. cielo stellato di una calda notte d'agosto. E Magda l'altra sera si è uccisa.

Magda l'altra sera si è uccisa. Non riesco a non pensarci.
Non la vedevo da anni, ma da bambine giocavamo insieme.
Aveva solo vent'anni. Due più di me.
Magda e i nostri giochi d'infanzia. Magda e i suoi biondi capelli. Magda e la sua storia, evidentemente incompresa. Magda e le nostre corse sui prati. Magda e tutto il mondo innocente di quando eravamo bambine. Magda e la nostra promessa tradita («...Resteremo amiche per sempre»).
Magda, dimenticata da me in tutti questi anni. E così viva adesso dentro di me.
L'altra sera si è uccisa.
Me l'ha detto al telefono mia madre, stamani. Non se l'aspettava nessuno.
Non la vedevo da anni. Le avevo promesso: ti verrò a trovare. Non ci sono mai andata. Ho sempre avuto qualcosa di meglio da fare.
Eravamo cresciute insieme, fino alla soglia dell'adolescenza. Poi la sua famiglia si trasferì.
Zelante corrispondenza tra di noi, agli inizi: meticolose lettere di ragazzine diligenti, che si andarono diradando via via con gli anni. I contatti - telefonici perlopiù - si mantenevano invece tra le rispettive madri. Da questi loro periodici scambi di informazioni continuavo ad avere ancora notizie di lei. Ma sua madre raccontava sempre che stava bene. Una volta o l'altra, con i miei, saremmo andati a trovarli, giù nel Sud. Ma si è sempre rimandato a domani.
Ieri, quando i suoi hanno fatto ritorno da un week-end al mare al quale lei non aveva voluto partecipare, l'hanno trovata nella vasca da bagno, riversa in una pozza di sangue.
Non ha lasciato nessuna lettera, non ha spiegato di quel gesto il perché.
Ed è così che l'altra sera si è uccisa. A vent'anni.
E io guardo il cielo e penso a Magda. A Magda che non c'è più.
Penso a lei, e penso a questa festa che è così assurda, così ridicola, stasera. Non avrei voluto venirci, ma non volevo raccontare di Magda. Hanno insistito e sono venuta.
Così resto alla finestra a finire il mio cocktail e poi scendo in giardino.

Sembra immenso il giardino di questa villa: cespugli e sentieri sinuosi tra le finte collinette e gli alberi alti.
Mi ha accompagnata la piccola gatta siamese del padrone di casa. La tengo in braccio, l'accarezzo piano. Passeggio lentamente, solitaria. Sconfinato e blu, sopra di me, solo il cielo. Il rock a tutto volume della festa arriva fin qui, ma attenuato, già lontano da me.
O forse sono io che mi sono fatta lontana.
Lontana, sono con Magda. La vedo nella vasca da bagno, accasciata nella pozza di sangue. Non vedo che quello. E silenziosamente le grido: perdonami.

Così, assorda in questi pensieri, non ho udito i passi alle mie spalle che si sono nel frattempo avvicinati, sull'erba.
Mi ha invece fatto voltare di scatto la voce che improvvisa ha interrotto il mio dialogo muto col fantasma di chi non c'è più.
«Loro sono più soli di noi» ha detto alle mie spalle la voce.
Sorpresa, mi volto a scrutare nel buio il volto di chi mi ha parlato. Lo illumina appena un fascio obliquo di luce che viene da uno dei faretti luminosi sparsi qui e là nel giardino. E vedo nell'ombra un viso che mi sorride malinconico.
Non trovo in quel sorriso niente dell'invadente spavalderia che mi ero aspettata di vedervi. E così, perplessa, resto ad osservare in silenzio lo sconosciuto che ha tentato in quel modo di attaccare discorso con me, che ho disertato la festa e la musica per ritirarmi appartata nella brezza leggera di questo giardino.
Mi ha colpita quel “noi”, che a lui mi assimila e che l'assimila a me.
Potrei ripristinare le giuste distanze, osservando - come si usa - che non mi sento sola, ma soltanto un poco annoiata, o che sono uscita a prendere una boccata d'aria perché fa troppo caldo lì dentro. Potrei, ma non lo faccio. Mi limito a guardarlo nel buio, incuriosita e in silenzio. E non replico niente.
Ma come se non si aspettasse una replica, lui prosegue: «Giorgio ha insistito perché portassi il sassofono, ma io non ho voglia di suonare stasera».
Non so chi è Giorgio. Anzi, ora ricordo: Giorgio è il nome del padrone di casa - il ragazzo che oggi compie gli anni e ha organizzato la festa.
Dunque costui è un amico del padrone di casa. Non so se è tra quelli che mi sono stati presentati poco fa, non lo ricordo. Capisco soltanto che ha deciso di farmi sapere che lui suona il sassofono.
Non me ne importa niente e non ho niente da dirgli.
«Io dico che la musica dello stereo potrà bastare», incalza. «Non ho voglia di suonare questa sera. E comunque non importerà a nessuno che io suoni o no...».
Non gli rispondo. Non ho voglia di parlare con nessuno. Non adesso, non qui, questa sera.
Ma lui continua, incurante del mio silenzio: «I tuoi amici sembrano divertirsi là dentro... Ma non preoccuparti, verrà mattina anche per loro e si decideranno a riportarti a casa».
Sta dicendo tutto lui, come se non gli importasse della mia riluttanza a rispondergli, a dire qualcosa, ad accettare la conversazione.
«Scusa se ho disturbato i tuoi pensieri», aggiunge dopo una breve pausa. «Dimmi pure che vuoi essere lasciata sola e me ne vado, ma non dirmi che adesso hai voglia di tornare dentro a ballare, perché non è vero e non hai bisogno di dirlo per mandarmi via».
Io non ho detto niente - gli rispondo.
E la gatta siamese si divincola tra le mie braccia e balza a terra, sperdendosi nel giardino.
«Mentiremo probabilmente fino alla morte, false parole, false carezze, falsi sorrisi... E musica a tutto volume per anestetizzare il cervello, o il cuore - non so...» dice piano, senza guardarmi. «Occorreva forse il coraggio di dire di no. Non venirci a questa festa. Ma né tu né io l'abbiamo avuto».
è vero - adesso gli dico.
«Sapessi a volte quanto vorrei far tacere queste domande che mi esplodono dentro fino a disintegrarmi, e riuscire finalmente ad essere come loro» dice, accennando agli altri dentro alla villa. «E divertirmi e basta. Smettere di pensare...».

Incuriosita lo ascolto e adesso lo osservo. Poi abbasso lo sguardo e dico semplicemente, in un soffio: Magda l'altra sera si è uccisa.
Lo dico e subito mi pento di averlo detto.
Vorrei che non mi avesse sentita. Che ne sa questo sconosciuto di Magda? Che cosa può importargliene? Ma è la frase che mi martella la testa, lo stomaco, il cuore. L'ho trattenuta dentro di me fino a questo momento, ora mi è scivolata di bocca come un fiume che rompe la diga. E che vi sia qui questo ragazzo ad udirla - lui piuttosto che un altro - è solo una decisione del caso. Mi pento di aver parlato, ma è già troppo tardi.
è troppo tardi, perché lui prontamente riprende le mie parole prima che io possa lasciarle cadere: «E se Magda l'altra sera si è uccisa, deve essere terribile trovarsi qui a questa festa, stasera».
Sì. Sì. Oh, sì! - vorrei dirgli.
Non so se lo dico. Ma non mi ha domandato chi sia Magda, e questo mi sconcerta. Perché era questo che mi aspettavo chiedesse.
Lui però non chiede, lui parla: «Magda. Magda... Qualcuno si uccide e noi invece restiamo...».
Sì. Oh, sì! Giocavamo insieme quando eravamo bambine e fantasticavamo del nostro futuro. Aveva solo vent'anni e si è uccisa. E nessuno ha capito perché.
«Nessuno. Nemmeno tu...» aggiunge, guardandomi intensamente negli occhi.

Non la vedevo da anni. Si era trasferita anni fa, con i suoi - mi affanno improvvisamente a spiegargli - erano ritornati al paese d'origine. Poco prima che partissi per questa vacanza mi aveva telefonato. Era qualche anno che non ci sentivamo più. Non ci ho dato importanza, a quella telefonata. Non avrei mai pensato...
«Nessuno ci avrebbe pensato, l'hai detto tu» mi dice, mentre intanto riprendiamo a passeggiare “ insieme, adesso “ nel buio del giardino. «Non sei tu responsabile».
Sì, lo so.
«Lo sai, ma non ti basta».
Può forse bastare? - gli chiedo.
«Senti, voglio dirti una cosa... Stavo per andarmene da questa festa, quando ti ho vista alla finestra e poi ti ho vista scendere nel giardino. Ti ho seguita, senza sapere nemmeno bene perché. Volevo andarmene, perché non avevo voglia di ridere o di scherzare questa sera. E meno che mai di suonare il sassofono come Giorgio mi aveva chiesto. Ma se il sax ti piace e se riuscisse a arti abbozzare un sorriso in questo momento, vorrei suonarlo per te, solo per te, qui, dove gli altri non sentono».
Lo guardo sorpresa, senza sapere ancora cosa rispondergli.
«Forse Magda ha avuto ragione ad andarsene, ma qualcuno deve restare», continua. «E non è detto che questo sia più facile che uccidersi. Oppure lasceremo il mondo a loro (indicando di nuovo gli altri, dentro alla villa), alle loro risate, al loro stordimento, al loro allegro vivere?». E guardandomi intensamente negli occhi, aggiunge: «Se mi può fare piacere suonare per te, non è per farti dimenticare Magda. è davvero terribile che qualcuno muoia per niente, senza scalfire nessuna certezza nel cuore di tutti quelli che l'hanno visto morire. Ma per noi che restiamo, la vita deve comunque continuare. Bisogna cercare di darle un senso, non accontentarci di buttarla via...». Suonami qualcosa allora - gli dico d'improvviso, interrompendolo.
Mi guarda, mi scruta.
«Sì. Il sassofono, l'ho lasciato in macchina. Devo andare a prenderlo», dice.
E dopo un attimo di esitazione aggiunge: «Vuoi accompagnarmi?».
Sì, lo accompagno. Lo accompagno mentre continuiamo a parlare.
Così, a poco a poco, cominciamo a raccontarci di noi. Lo facciamo con la disinvoltura che potrebbero avere due vecchi amici. E Magda si è già fatta lontana mentre me ne sto accovacciata sull'erba ad ascoltarlo suonare.
E intanto prosegue la notte. Prosegue nell'angolo più appartato del giardino, dove la villa già sembra lontana. Lontani da noi tutti gli altri: il festeggiato, le amiche e gli amici che mi hanno portata alla festa.
Seduti sull'erba, io e lui, parliamo di noi - e del cielo, del mare, del sogno della vita che vogliamo vivere. E parliamo del nostro esserci immediatamente riconosciuti, tra tutti, come simili - come uguali. Perché identiche sono le nostre inquietudini, le nostre domande, l'interiore fatica di vivere.
E parliamo del nostro parlare, anche. Così diverso - mioddio! - nella forma, nei contenuti, nei modi, da quello che comunemente si usa tra due sconosciuti.
Ma noi non siamo più due sconosciuti, diciamo. Forse non lo siamo mai stati. Ad incontrarci ci siamo semplicemente “ri-conosciuti”. Lui nel seguirmi a parlarmi. Io nell'esitante rispondergli. Nel rispondergli a quel modo, cioè. Nel dirgli così, a mezza voce, ciò che a tutti gli altri avevo taciuto: che Magda l'altra sera si è uccisa. Come se anche lui l'avesse potuta conoscere.
Perché forse c'è nella vita di tutti una Magda che un giorno si uccide. E ci domanda perché invece noi no, perché noi restiamo vivi. E lui lo sapeva, che ciascuno ha avuto o avrà la sua Magda. Così, in pochi attimi, si ri-conosce l'interlocutore sempre cercato, sempre atteso. Allora non c'è più bisogno di altro per riporvi la nostra fiducia totale.
E quando all'appressarsi dell'alba mi propone di andare con lui sulla spiaggia, a vedere sorgere il sole, tutta la fiducia c'è già.
Non esito ad acconsentire con grande entusiasmo, ricordandomi appena di correre ad avvisare le amiche ancora dentro alla villa con il gruppo ristretto degli invitati rimasti.
Vado via con lui - dico - e provvederà lui a riaccompagnarmi all'albergo. E al loro domandarmi, tirandomi un attimo a parte, dove fossi finita e chi fosse costui, rispondo già pazza, rapita, invaghita, sognante: lo amo.
Non c'è tempo per spiegazioni ulteriori. Non servono spiegazioni ulteriori. Di lui so già quello che conta - quello che conta davvero. Altrettanto sa ormai lui di me. L'essenziale. cioè, tutto.
Il resto è superfluo. Avrà poi tempo più avanti, quando questa vacanza per me sarà giunta al termine, di venire a trovarmi lì dove io vivo, e vedere i miei quadri e le sculture di creta di cui già gli ho parlato.
Col sax suonerà una serenata sotto la mia finestra, ha detto scherzando. Ne abbiamo riso, abbracciandoci. Ma per ora conta di più organizzare i giorni che ci restano da passare insieme quaggiù. A cominciare dall'alba che adesso ci attende sulla riva del mare.
Presto, facciamo presto, o arriveremo a sole già sorto.
Mi trascina alla macchina per mano, correndo. Ridiamo. Ridiamo degli altri rimasti alla villa, con il loro occhi assonnati e annoiati nello strascico di una festa che non vuole finire. Ridiamo del loro ignorare quanto è stata diversa questa festa per noi, questa sera. Ridiamo, mentre inciampo, correndo verso la sua auto parcheggiata in fondo alla via.
Saliti in macchina, prima che lui avvii il motore, restiamo un attimo a fissarci negli occhi in silenzio. E così, senza dire parola, lui si china su di me per baciarmi.
Lo bacio con l'abbandono e il tumulto con cui non ho mai baciato nessuno. Poi, ancora in silenzio, mette in moto l'auto mentre io gli accarezzo i capelli. E nella notte ormai declinante, ci dirigiamo verso il mare.

Sulla spiaggia accoccolati l'uno accanto all'altra, guardiamo levarsi il sole.
Misura la mia mano con la sua - palmo contro palmo. E camminiamo scalzi sulla battigia. recitiamo a voci alternate una poesia di Prévert che conosciamo entrambi a memoria. “Barbara - Rappelle-toi, Barbara - Il pleuvait sans cesse sur Brest celle jour-là...”.
Quando poi lui si slaccia il girocollo d'argento e lo mette al mio collo, io faccio altrettanto col mio. E si incrociano nel gesto le nostre braccia, senza che abbiamo bisogno di aggiungere parola. Lo guardo. Mi guarda. Lo accarezzo. Non trovo parole. Non occorrono parole. Mi stringe a sé. Ci baciamo. Mi indica i gabbiani sul mare. Mi parla delle gite in barca a vela che faremo nei prossimi giorni.
Ci siamo solo noi due sulla spiaggia, sospesi su un lembo di sabbia tra l'azzurro del mare e del cielo. Creature di un sogno. Del sogno che ciascuno in segreto un giorno ha sognato. In quel mattino, in quell'alba - per noi - la realtà.

Poi è tarda mattinata quando mi riaccompagna all'albergo.
Fermando la macchina davanti all'entrata, ci diamo appuntamento lì per la sera.
Prima che io scenda, ci baciamo ancora per salutarci. E sono già quasi all'ingresso della hall quando lo sento gridare ad alta voce il mio nome Mi volto. Lo vedo che corre verso di me. La portiera dell'auto è rimasta spalancata. Ansimante mi raggiunge e mi solleva in braccio. Poi prende fiato, e sorridendo mi sussurra: «Volevo dirti... “Rappelle-toi, Barbara!” Cioè, volevo dirti, non dimenticare. Non dimenticare mai questa notte, quest'alba... Promettimelo».
Te lo prometto, rispondo confusa e sorpresa. E glielo dico con una tenerezza infinita.
Complici, ci guardiamo ancora, ridendo.
Poi lui aggiunge: «Sarò qui alle nove stasera, cerca di non farmi aspettare troppo».
Sarò puntualissima, replico con uno sguardo di intesa.
Ci salutiamo ancora con un cenno di mano, mentre lui si allontana. Resto a guardarlo finché non risale in macchina.

Non lo rividi mai più.

Vienna Meidling: ore 20,40
Ora siamo in piedi nel corridoio io e Fabrizio, con le nostre valigie.
Il nostro compagno si è avviato all'uscita sulla destra del corridoio. Io ho preceduto Fabrizio, e mi sono subito avviata con la valigia verso l'uscita di sinistra.
Nell'uscire dallo scompartimento mi sono voltata un'ultima volta a guardare la catenella col gabbiano, che ho lasciato sopra il ripiano di fronte al sedile.

Vienna Südbanhof: ore 20,46
Fabrizio intanto si è accorto di avere dimenticato sul sedile la piantina di Vienna e torna indietro a riprendersela.
Io guardo fuori dal finestrino per vedere se intravedo Gustav. E intanto il treno si ferma. Fabrizio mi raggiunge, mi abbraccia, mi dice contento: «Arrivati!».
Non volto più la testa a spiare ancora, al capo opposto del corridoio, l'ombra di lui che si allontana e scenderà dal treno tenendosi discosto da noi, per scomparire tra la folla della stazione.
Tenevo da quattro anni nel portafoglio una catenella d'argento con un pendente a forma di gabbiano. Non so se assomigliava davvero ad un gabbiano, ma so che è stato sempre un gabbiano per me. Ora non l'ho più. Ora non ho più niente che asserisca e ricordi che quel mattino lontano è davvero esistito. Potrei averlo soltanto sognato. Non mi resta più niente che possa provarmelo.

Nel giardino di casa accendevo falò, quando ero ragazza, per dare fuoco alle cose - lettere, cianfrusaglie, oggetti ricordo - che appartenevano a momenti felici, amicizie, vacanze, affetti, che vicende successive avevano poi deteriorato nel significato e nel valore che avevano avuto.
Bruciavo tutte le cose che ricordavano un passato lieto e irrecuperabile, quasi che solo stringendo nel pugno quelle manciate di cenere potessi darmi la forza di dirmi: «coraggio, si ricomincia da capo», senza più voltarmi indietro, pietrificata dalla nostalgia dei ricordi.
E correvo dal parrucchiere a tagliarmi i capelli in un'acconciatura nuova, perché lo specchio mi negasse l'immagine di quella che fino al giorno prima ero stata.
Così feci a pezzi le tele e le statuette di creta, quando decisi che avrei rinunciato a tentare di diventare un'artista.
Ho sempre avuto bisogno di far saltare i ponti che mi lasciavo alle spalle. Era l'unico modo di costringermi ad andare avanti, quando la voglia di proseguire era così poca e così forte la tentazione del richiamo alla più sicura quiete delle cose già note, che ancora lasciavano udire il loro canto suadente, dietro di me - dentro di me.
Solo da quel ciondolo non mi sono mai separata. Non ho saputo gettarlo insieme alle cose vecchie. E non c'è un perché.

CONTINUA

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