Bruck: ore 18,49
Ora lui è qui, di fronte a me, come diciassette
anni fa. Il solo uomo per cui abbia pianto.
Senza riconoscerlo l'avevo osservato fino ad ora,
incuriosita e distratta, come si osserva un
viaggiatore qualunque. Senza capire cos'era in
quel suo sorriso a confondermi e a turbarmi.
Eravamo due estranei quando ci incontrammo, e due
estranei siamo dunque rimasti, per tutto questo
tempo. due estranei che oggi, di nuovo per caso,
si sono ritrovati insieme su questo treno. E come
due estranei si guardano negli occhi senza potersi
riconoscere, così noi ci siamo guardati, ma non ci
siamo riconosciuti. Cambiati, sì, tanto cambiati
da allora.
Cambiata io - sì - al punto che oggi può sedermi
di fronte per ore, inosservata, la persona che
ieri avrei riconosciuto tra mille, e alla quale
sarei corsa incontro, trafelata e ansimante, per
gettargli le braccia al collo. E adesso, invece,
non ho né la voglia né il coraggio di dirgli che
l'ho riconosciuto.
Ma non è più tempo, ormai, per riconoscersi e per
ricordare.
Più volte nella vita mi è capitato di implorare
segretamente: ora, ora, prima che sia troppo tardi
- presentendo che c'è un tempo limite ad ogni
desiderio, ogni attesa.
Non servirà che domani, quando il mio tempo è
scaduto, mi si renda al multiplo ciò che oggi
chiedo e mi è negato. è al bambino - al bambino
col naso schiacciato contro la vetrina dei
giocattoli - che devi regalare il trenino
elettrico, se vuoi farlo felice. Finché è bambino.
Poco vale che tu glielo compri quando ormai è
cresciuto e ha abbandonato i giocattoli.
Perché tutti i trenini elettrici che poi potrà
comprarsi, o ricevere come dono tardivo, non
varranno quel trenino elettrico della vetrina di
giocattoli all'angolo della via, che era tutto
quello che un giorno aveva voluto e che non ha
avuto mai.
La promessa che rimanda a domani il suo
adempimento è sempre un inganno, se viene
adempiuta quando il desiderio è passato. La
ricompensa sostitutiva non restituisce il
maltolto, come a chiedere scusa non si annulla il
torto arrecato. L'occasione lasciata cadere è
sempre un'occasione perduta.
Perché è la mano che a te un giorno si tese,
aperta e fiduciosa, quella che dovevi prendere -
prima che si ritraesse.
Ora non puoi più: non so ritendertela.
E non ti porto rancore. Ciò che adesso sento è
solo l'irrilevanza di quando ci si accorge che è
tardi - tardi per impedire la delusione o il
misfatto, tardi per consentire a una felicità
possibile di farsi realtà. Tardi, quando ormai è
già accaduto tutto - o comunque troppo, per
poterne prescindere.
E guardo le rughe che già hanno cominciato a
solcare il tuo viso, i capelli tagliati corti e
ingrigiti, gli occhiali che allora non portavi,
l'abbigliamento e la postura mutati.
penso quindi ai due ragazzi di allora, su quella
spiaggia, e cerco di immaginare come tu adesso mi
veda. Cerco di ricordarmi com'ero.
La freschezza dei miei trentacinque anni, rispetto
ai tuoi quarantuno, adesso in qualche modo mi
rassicura, come pure la consapevolezza di
conservar ancora un aspetto giovanile e piacente.
Nel mio caso, le lenti a contatto hanno costituito
gli occhialetti rotondi che portavo a quel tempo,
e ho imparato a curare il mio aspetto come da
ragazza preferivo non fare. Sono quel genere di
donna che è migliorata invecchiando.
Fabrizio, a guardare le mie foto di adolescente,
ha spesso commentato che avrei avuto difficilmente
successo con lui, se mi avesse conosciuta allora.
E penso che creda di farmi un complimento nel
dirmelo - almeno, un complimento alla donna che ha
saputo trasformarsi in modo secondo lui così
apprezzabile.
Non sa come la prima volta che me lo disse, mi
trattenni a stento dall'intimargli di andarsene
via e di scordarsi di me per sempre.
Rabbia provai, di fronte al suo commento allegro,
divertito. E vergogna, anche. Vergogna e rimorso
per il mio cedere, ciò nonostante, alle sue
carezze e ai suoi baci. Per il mio lasciare
impunita l'offesa che con quelle parole aveva
arrecato alla ragazza di ieri. E furibonda rabbia,
appunto, per la disinvolta spavalderia con cui mi
proponeva quel commento, che per lui era un
complimento alla donna che sono e che per me era
solo un insulto alla ragazza che ero.
Raramente mi è capitato di odiare Fabrizio quanto
in quel momento. Perché mi diceva che il rospo
della vecchia favola lui non l'avrebbe mai
baciato. E io ho sempre odiato che nelle favole
siano solo le donne a baciare dei Principi-rospi o
dei Principi-bestia, mentre la Cenerentola vestita
di stracci non l'ha mai notata nessuno, e c'è
voluta una fata, che la vestisse dell'abito più
bello e le fornisse paggi e carrozza, perché
allora il Principe se ne invaghisse alla festa:
lei la più seducente, la più affascinante di
tutte.
Vorrei ci fossero favole in cui la strega
repellente si trasforma in una bellissima
fanciulla al bacio del cavaliere sconosciuto, ma
nessuno ha mia pensato di inventarle. I Principi
delle favole smontano da cavallo solo per baciare
delle belle addormentate nel bosco.
La parità che ci siamo conquistate non è ancora
riuscita a farci acquisire un valore che prescinda
dal nostro aspetto: l'uomo è sedotto dalla
bellezza fisica in un modo che, a mio avviso, non
ha pari presso le donne. E questo non ha mai
cessato di amareggiarmi, o di indispormi.
Eppure, in questo momento, forse per la prima
volta nella mia vita, il ricordo della valutazione
che Fabrizio ha ripetutamente avanzato su di me,
confrontando il mio aspetto di oggi con quello
delle vecchie foto di gioventù, anziché
infastidirmi, mi rassicura.
E mi accorgo che segretamente vorrei che anche tu
- tu che mi stai guardando oggi, dopo tanto tempo
- potessi avere di me la sua stessa impressione.
Ma lo vorrei soltanto perché un giorno tu sei
smontato da cavallo e hai baciato il rospo che
Fabrizio non avrebbe baciato.
è a te - a te che hai baciato quel rospo - che
vorrei sembrare bella oggi. Bella, per l'uomo che
mi mise al collo una collanina d'argento, quando
vestivo jeans scoloriti, camicioni larghi e avevo
l'acne, gli occhiali spessi e il viso acqua e
sapone.
Vienna Neustadt: ore 20,10
Fu nell'agosto di diciassette anni fa. Ora il
ricordo è così nitido da inghiottirmi.
Non ho mai dimenticato, comprendo.
Arrivammo che la festa era cominciata da poco.
File di macchine parcheggiate lungo la via e
musica che si udiva fin dalla strada. Illuminata
la villa, con quasi tutte le finestre spalancate
nell'afa dell'estate inoltrata e rumori di voci e
risate che provenivano dall'interno. Striscioni di
buon compleanno appesi qua e là - dagli amici,
suppongo.
Tanti auguri al padrone di casa - non l'abbiamo
mai visto prima, ma non importa. A invitarci e a
portarci lì sono stati gli amici del festeggiato:
più siamo e più ci divertiamo, hanno detto.
Così siamo venute. con loro. Turiste in vacanza.
Aggregate alla festa di qualcuno che non
conosciamo e che probabilmente non rivedremo mai
più.
Loro - gli amici del padrone di casa - li avevamo
conosciuti alla spiaggia, nei giorni precedenti.
Insieme abbiamo già trascorso diverse sere: pub,
pizzerie, discoteche, cinema all'aperto. Stasera,
una festa di compleanno.
Tanti auguri al padrone di casa. Poi dolci,
bibite, tartine, spumante. Il consueto buffet.
Io però non ho fame, non mangio.
Qualche presentazione. Anzi, troppe, Sciami di
volti indistinguibili mi avvicinano con un radioso
sorriso e qualche parola affrettata, poi scivolano
via senza lasciarmi nemmeno il tempo di afferrarne
il nome, nel frastuono assordante della musica a
tutto volume. finché insieme agli altri ci si
mischia alle danze nel salone svuotato dai mobili.
E ci si accinge così a tirare mattina.
Indugio in qualche ballo svogliato. Scambio
distratte parole con i nostri accompagnatori e con
chi capita attorno. Vedo che mostrano di
divertirsi le amiche e compagne di questa vacanza,
con le quali divido la stanza all'albergo. E
intanto sorseggio il mio cocktail, mentre mi
accosto alla finestra a guardare il cielo, la
luna, le stelle.
è una limpida serata d'estate; un grosso pastore
tedesco corre abbaiando per il grande giardino.
Io non ho voglia di ballare. Non ho voglia di
mangiare le appetitose tartine del buffet. Non ho
voglia nemmeno di ridere, civettare, scherzare.
Stasera no, non ne ho voglia. Non ho voglia di
niente. Non ho voglia di essere lì.
Vorrei rientrare all'albergo. Ma le amiche
sembrano divertirsi. Anche i nostri
accompagnatori.
Tutti ballano, chiacchierano, ridono. Non c'è
speranza di potere venire via prima dell'alba,
suppongo. Così mi rassegno. E guardo il cielo.
cielo stellato di una calda notte d'agosto. E
Magda l'altra sera si è uccisa.
Magda l'altra sera si è uccisa. Non riesco a non
pensarci.
Non la vedevo da anni, ma da bambine giocavamo
insieme.
Aveva solo vent'anni. Due più di me.
Magda e i nostri giochi d'infanzia. Magda e i suoi
biondi capelli. Magda e la sua storia,
evidentemente incompresa. Magda e le nostre corse
sui prati. Magda e tutto il mondo innocente di
quando eravamo bambine. Magda e la nostra promessa
tradita («...Resteremo amiche per sempre»).
Magda, dimenticata da me in tutti questi anni. E
così viva adesso dentro di me.
L'altra sera si è uccisa.
Me l'ha detto al telefono mia madre, stamani. Non
se l'aspettava nessuno.
Non la vedevo da anni. Le avevo promesso: ti verrò
a trovare. Non ci sono mai andata. Ho sempre avuto
qualcosa di meglio da fare.
Eravamo cresciute insieme, fino alla soglia
dell'adolescenza. Poi la sua famiglia si trasferì.
Zelante corrispondenza tra di noi, agli inizi:
meticolose lettere di ragazzine diligenti, che si
andarono diradando via via con gli anni. I
contatti - telefonici perlopiù - si mantenevano
invece tra le rispettive madri. Da questi loro
periodici scambi di informazioni continuavo ad
avere ancora notizie di lei. Ma sua madre
raccontava sempre che stava bene. Una volta o
l'altra, con i miei, saremmo andati a trovarli,
giù nel Sud. Ma si è sempre rimandato a domani.
Ieri, quando i suoi hanno fatto ritorno da un
week-end al mare al quale lei non aveva voluto
partecipare, l'hanno trovata nella vasca da bagno,
riversa in una pozza di sangue.
Non ha lasciato nessuna lettera, non ha spiegato
di quel gesto il perché.
Ed è così che l'altra sera si è uccisa. A
vent'anni.
E io guardo il cielo e penso a Magda. A Magda che
non c'è più.
Penso a lei, e penso a questa festa che è così
assurda, così ridicola, stasera. Non avrei voluto
venirci, ma non volevo raccontare di Magda. Hanno
insistito e sono venuta.
Così resto alla finestra a finire il mio cocktail
e poi scendo in giardino.
Sembra immenso il giardino di questa villa:
cespugli e sentieri sinuosi tra le finte
collinette e gli alberi alti.
Mi ha accompagnata la piccola gatta siamese del
padrone di casa. La tengo in braccio, l'accarezzo
piano. Passeggio lentamente, solitaria. Sconfinato
e blu, sopra di me, solo il cielo. Il rock a tutto
volume della festa arriva fin qui, ma attenuato,
già lontano da me.
O forse sono io che mi sono fatta lontana.
Lontana, sono con Magda. La vedo nella vasca da
bagno, accasciata nella pozza di sangue. Non vedo
che quello. E silenziosamente le grido: perdonami.
Così, assorda in questi pensieri, non ho udito i
passi alle mie spalle che si sono nel frattempo
avvicinati, sull'erba.
Mi ha invece fatto voltare di scatto la voce che
improvvisa ha interrotto il mio dialogo muto col
fantasma di chi non c'è più.
«Loro sono più soli di noi» ha detto alle mie
spalle la voce.
Sorpresa, mi volto a scrutare nel buio il volto di
chi mi ha parlato. Lo illumina appena un fascio
obliquo di luce che viene da uno dei faretti
luminosi sparsi qui e là nel giardino. E vedo
nell'ombra un viso che mi sorride malinconico.
Non trovo in quel sorriso niente dell'invadente
spavalderia che mi ero aspettata di vedervi. E
così, perplessa, resto ad osservare in silenzio lo
sconosciuto che ha tentato in quel modo di
attaccare discorso con me, che ho disertato la
festa e la musica per ritirarmi appartata nella
brezza leggera di questo giardino.
Mi ha colpita quel “noi”, che a lui mi assimila e
che l'assimila a me.
Potrei ripristinare le giuste distanze, osservando
- come si usa - che non mi sento sola, ma soltanto
un poco annoiata, o che sono uscita a prendere una
boccata d'aria perché fa troppo caldo lì dentro.
Potrei, ma non lo faccio. Mi limito a guardarlo
nel buio, incuriosita e in silenzio. E non replico
niente.
Ma come se non si aspettasse una replica, lui
prosegue: «Giorgio ha insistito perché portassi il
sassofono, ma io non ho voglia di suonare
stasera».
Non so chi è Giorgio. Anzi, ora ricordo: Giorgio è
il nome del padrone di casa - il ragazzo che oggi
compie gli anni e ha organizzato la festa.
Dunque costui è un amico del padrone di casa.
Non so se è tra quelli che mi sono stati
presentati poco fa, non lo ricordo. Capisco
soltanto che ha deciso di farmi sapere che lui
suona il sassofono.
Non me ne importa niente e non ho niente da
dirgli.
«Io dico che la musica dello stereo potrà
bastare», incalza. «Non ho voglia di suonare
questa sera. E comunque non importerà a nessuno
che io suoni o no...».
Non gli rispondo. Non ho voglia di parlare con
nessuno. Non adesso, non qui, questa sera.
Ma lui continua, incurante del mio silenzio: «I
tuoi amici sembrano divertirsi là dentro... Ma non
preoccuparti, verrà mattina anche per loro e si
decideranno a riportarti a casa».
Sta dicendo tutto lui, come se non gli importasse
della mia riluttanza a rispondergli, a dire
qualcosa, ad accettare la conversazione.
«Scusa se ho disturbato i tuoi pensieri», aggiunge
dopo una breve pausa. «Dimmi pure che vuoi essere
lasciata sola e me ne vado, ma non dirmi che
adesso hai voglia di tornare dentro a ballare,
perché non è vero e non hai bisogno di dirlo per
mandarmi via».
Io non ho detto niente - gli rispondo.
E la gatta siamese si divincola tra le mie braccia
e balza a terra, sperdendosi nel giardino.
«Mentiremo probabilmente fino alla morte, false
parole, false carezze, falsi sorrisi... E musica a
tutto volume per anestetizzare il cervello, o il
cuore - non so...» dice piano, senza guardarmi.
«Occorreva forse il coraggio di dire di no. Non
venirci a questa festa. Ma né tu né io l'abbiamo
avuto».
è vero - adesso gli dico.
«Sapessi a volte quanto vorrei far tacere queste
domande che mi esplodono dentro fino a
disintegrarmi, e riuscire finalmente ad essere
come loro» dice, accennando agli altri dentro alla
villa. «E divertirmi e basta. Smettere di
pensare...».
Incuriosita lo ascolto e adesso lo osservo. Poi
abbasso lo sguardo e dico semplicemente, in un
soffio: Magda l'altra sera si è uccisa.
Lo dico e subito mi pento di averlo detto.
Vorrei che non mi avesse sentita. Che ne sa questo
sconosciuto di Magda? Che cosa può importargliene?
Ma è la frase che mi martella la testa, lo
stomaco, il cuore. L'ho trattenuta dentro di me
fino a questo momento, ora mi è scivolata di bocca
come un fiume che rompe la diga. E che vi sia qui
questo ragazzo ad udirla - lui piuttosto che un
altro - è solo una decisione del caso. Mi pento di
aver parlato, ma è già troppo tardi.
è troppo tardi, perché lui prontamente riprende le
mie parole prima che io possa lasciarle cadere: «E
se Magda l'altra sera si è uccisa, deve essere
terribile trovarsi qui a questa festa, stasera».
Sì. Sì. Oh, sì! - vorrei dirgli.
Non so se lo dico. Ma non mi ha domandato chi sia
Magda, e questo mi sconcerta. Perché era questo
che mi aspettavo chiedesse.
Lui però non chiede, lui parla: «Magda. Magda...
Qualcuno si uccide e noi invece restiamo...».
Sì. Oh, sì! Giocavamo insieme quando eravamo
bambine e fantasticavamo del nostro futuro. Aveva
solo vent'anni e si è uccisa. E nessuno ha capito
perché.
«Nessuno. Nemmeno tu...» aggiunge, guardandomi
intensamente negli occhi.
Non la vedevo da anni. Si era trasferita anni fa,
con i suoi - mi affanno improvvisamente a
spiegargli - erano ritornati al paese d'origine.
Poco prima che partissi per questa vacanza mi
aveva telefonato. Era qualche anno che non ci
sentivamo più. Non ci ho dato importanza, a quella
telefonata. Non avrei mai pensato...
«Nessuno ci avrebbe pensato, l'hai detto tu» mi
dice, mentre intanto riprendiamo a passeggiare “
insieme, adesso “ nel buio del giardino. «Non sei
tu responsabile».
Sì, lo so.
«Lo sai, ma non ti basta».
Può forse bastare? - gli chiedo.
«Senti, voglio dirti una cosa... Stavo per
andarmene da questa festa, quando ti ho vista alla
finestra e poi ti ho vista scendere nel giardino.
Ti ho seguita, senza sapere nemmeno bene perché.
Volevo andarmene, perché non avevo voglia di
ridere o di scherzare questa sera. E meno che mai
di suonare il sassofono come Giorgio mi aveva
chiesto. Ma se il sax ti piace e se riuscisse a
arti abbozzare un sorriso in questo momento,
vorrei suonarlo per te, solo per te, qui, dove gli
altri non sentono».
Lo guardo sorpresa, senza sapere ancora cosa
rispondergli.
«Forse Magda ha avuto ragione ad andarsene, ma
qualcuno deve restare», continua. «E non è detto
che questo sia più facile che uccidersi. Oppure
lasceremo il mondo a loro (indicando di nuovo gli
altri, dentro alla villa), alle loro risate, al
loro stordimento, al loro allegro vivere?».
E guardandomi intensamente negli occhi, aggiunge:
«Se mi può fare piacere suonare per te, non è per
farti dimenticare Magda. è davvero terribile che
qualcuno muoia per niente, senza scalfire nessuna
certezza nel cuore di tutti quelli che l'hanno
visto morire. Ma per noi che restiamo, la vita
deve comunque continuare. Bisogna cercare di darle
un senso, non accontentarci di buttarla via...».
Suonami qualcosa allora - gli dico d'improvviso,
interrompendolo.
Mi guarda, mi scruta.
«Sì. Il sassofono, l'ho lasciato in macchina. Devo
andare a prenderlo», dice.
E dopo un attimo di esitazione aggiunge: «Vuoi
accompagnarmi?».
Sì, lo accompagno. Lo accompagno mentre
continuiamo a parlare.
Così, a poco a poco, cominciamo a raccontarci di
noi. Lo facciamo con la disinvoltura che
potrebbero avere due vecchi amici. E Magda si è
già fatta lontana mentre me ne sto accovacciata
sull'erba ad ascoltarlo suonare.
E intanto prosegue la notte. Prosegue nell'angolo
più appartato del giardino, dove la villa già
sembra lontana. Lontani da noi tutti gli altri: il
festeggiato, le amiche e gli amici che mi hanno
portata alla festa.
Seduti sull'erba, io e lui, parliamo di noi - e
del cielo, del mare, del sogno della vita che
vogliamo vivere. E parliamo del nostro esserci
immediatamente riconosciuti, tra tutti, come
simili - come uguali. Perché identiche sono le
nostre inquietudini, le nostre domande,
l'interiore fatica di vivere.
E parliamo del nostro parlare, anche. Così diverso
- mioddio! - nella forma, nei contenuti, nei modi,
da quello che comunemente si usa tra due
sconosciuti.
Ma noi non siamo più due sconosciuti, diciamo.
Forse non lo siamo mai stati. Ad incontrarci ci
siamo semplicemente “ri-conosciuti”. Lui nel
seguirmi a parlarmi. Io nell'esitante
rispondergli. Nel rispondergli a quel modo, cioè.
Nel dirgli così, a mezza voce, ciò che a tutti gli
altri avevo taciuto: che Magda l'altra sera si è
uccisa. Come se anche lui l'avesse potuta
conoscere.
Perché forse c'è nella vita di tutti una Magda che
un giorno si uccide. E ci domanda perché invece
noi no, perché noi restiamo vivi. E lui lo sapeva,
che ciascuno ha avuto o avrà la sua Magda. Così,
in pochi attimi, si ri-conosce l'interlocutore
sempre cercato, sempre atteso. Allora non c'è più
bisogno di altro per riporvi la nostra fiducia
totale.
E quando all'appressarsi dell'alba mi propone di
andare con lui sulla spiaggia, a vedere sorgere il
sole, tutta la fiducia c'è già.
Non esito ad acconsentire con grande entusiasmo,
ricordandomi appena di correre ad avvisare le
amiche ancora dentro alla villa con il gruppo
ristretto degli invitati rimasti.
Vado via con lui - dico - e provvederà lui a
riaccompagnarmi all'albergo. E al loro domandarmi,
tirandomi un attimo a parte, dove fossi finita e
chi fosse costui, rispondo già pazza, rapita,
invaghita, sognante: lo amo.
Non c'è tempo per spiegazioni ulteriori. Non
servono spiegazioni ulteriori. Di lui so già
quello che conta - quello che conta davvero.
Altrettanto sa ormai lui di me. L'essenziale.
cioè, tutto.
Il resto è superfluo. Avrà poi tempo più avanti,
quando questa vacanza per me sarà giunta al
termine, di venire a trovarmi lì dove io vivo, e
vedere i miei quadri e le sculture di creta di cui
già gli ho parlato.
Col sax suonerà una serenata sotto la mia
finestra, ha detto scherzando. Ne abbiamo riso,
abbracciandoci. Ma per ora conta di più
organizzare i giorni che ci restano da passare
insieme quaggiù. A cominciare dall'alba che adesso
ci attende sulla riva del mare.
Presto, facciamo presto, o arriveremo a sole già
sorto.
Mi trascina alla macchina per mano, correndo.
Ridiamo. Ridiamo degli altri rimasti alla villa,
con il loro occhi assonnati e annoiati nello
strascico di una festa che non vuole finire.
Ridiamo del loro ignorare quanto è stata diversa
questa festa per noi, questa sera. Ridiamo, mentre
inciampo, correndo verso la sua auto parcheggiata
in fondo alla via.
Saliti in macchina, prima che lui avvii il motore,
restiamo un attimo a fissarci negli occhi in
silenzio. E così, senza dire parola, lui si china
su di me per baciarmi.
Lo bacio con l'abbandono e il tumulto con cui non
ho mai baciato nessuno. Poi, ancora in silenzio,
mette in moto l'auto mentre io gli accarezzo i
capelli. E nella notte ormai declinante, ci
dirigiamo verso il mare.
Sulla spiaggia accoccolati l'uno accanto
all'altra, guardiamo levarsi il sole.
Misura la mia mano con la sua - palmo contro
palmo. E camminiamo scalzi sulla battigia.
recitiamo a voci alternate una poesia di Prévert
che conosciamo entrambi a memoria. “Barbara -
Rappelle-toi, Barbara - Il pleuvait sans cesse sur
Brest celle jour-là...”.
Quando poi lui si slaccia il girocollo d'argento e
lo mette al mio collo, io faccio altrettanto col
mio. E si incrociano nel gesto le nostre braccia,
senza che abbiamo bisogno di aggiungere parola. Lo
guardo. Mi guarda. Lo accarezzo. Non trovo parole.
Non occorrono parole. Mi stringe a sé. Ci baciamo.
Mi indica i gabbiani sul mare. Mi parla delle gite
in barca a vela che faremo nei prossimi giorni.
Ci siamo solo noi due sulla spiaggia, sospesi su
un lembo di sabbia tra l'azzurro del mare e del
cielo. Creature di un sogno. Del sogno che
ciascuno in segreto un giorno ha sognato.
In quel mattino, in quell'alba - per noi - la
realtà.
Poi è tarda mattinata quando mi riaccompagna
all'albergo.
Fermando la macchina davanti all'entrata, ci diamo
appuntamento lì per la sera.
Prima che io scenda, ci baciamo ancora per
salutarci. E sono già quasi all'ingresso della
hall quando lo sento gridare ad alta voce il mio
nome
Mi volto. Lo vedo che corre verso di me. La
portiera dell'auto è rimasta spalancata. Ansimante
mi raggiunge e mi solleva in braccio. Poi prende
fiato, e sorridendo mi sussurra: «Volevo dirti...
“Rappelle-toi, Barbara!” Cioè, volevo dirti, non
dimenticare. Non dimenticare mai questa notte,
quest'alba... Promettimelo».
Te lo prometto, rispondo confusa e sorpresa. E
glielo dico con una tenerezza infinita.
Complici, ci guardiamo ancora, ridendo.
Poi lui aggiunge: «Sarò qui alle nove stasera,
cerca di non farmi aspettare troppo».
Sarò puntualissima, replico con uno sguardo di
intesa.
Ci salutiamo ancora con un cenno di mano, mentre
lui si allontana. Resto a guardarlo finché non
risale in macchina.
Non lo rividi mai più.
Vienna Meidling: ore 20,40
Ora siamo in piedi nel corridoio io e Fabrizio,
con le nostre valigie.
Il nostro compagno si è avviato all'uscita sulla
destra del corridoio. Io ho preceduto Fabrizio, e
mi sono subito avviata con la valigia verso
l'uscita di sinistra.
Nell'uscire dallo scompartimento mi sono voltata
un'ultima volta a guardare la catenella col
gabbiano, che ho lasciato sopra il ripiano di
fronte al sedile.
Vienna Südbanhof: ore 20,46
Fabrizio intanto si è accorto di avere dimenticato
sul sedile la piantina di Vienna e torna indietro
a riprendersela.
Io guardo fuori dal finestrino per vedere se
intravedo Gustav. E intanto il treno si ferma.
Fabrizio mi raggiunge, mi abbraccia, mi dice
contento: «Arrivati!».
Non volto più la testa a spiare ancora, al capo
opposto del corridoio, l'ombra di lui che si
allontana e scenderà dal treno tenendosi discosto
da noi, per scomparire tra la folla della
stazione.
Tenevo da quattro anni nel portafoglio una
catenella d'argento con un pendente a forma di
gabbiano. Non so se assomigliava davvero ad un
gabbiano, ma so che è stato sempre un gabbiano per
me. Ora non l'ho più. Ora non ho più niente che
asserisca e ricordi che quel mattino lontano è
davvero esistito. Potrei averlo soltanto sognato.
Non mi resta più niente che possa provarmelo.
Nel giardino di casa accendevo falò, quando ero
ragazza, per dare fuoco alle cose - lettere,
cianfrusaglie, oggetti ricordo - che appartenevano
a momenti felici, amicizie, vacanze, affetti, che
vicende successive avevano poi deteriorato nel
significato e nel valore che avevano avuto.
Bruciavo tutte le cose che ricordavano un passato
lieto e irrecuperabile, quasi che solo stringendo
nel pugno quelle manciate di cenere potessi darmi
la forza di dirmi: «coraggio, si ricomincia da
capo», senza più voltarmi indietro, pietrificata
dalla nostalgia dei ricordi.
E correvo dal parrucchiere a tagliarmi i capelli
in un'acconciatura nuova, perché lo specchio mi
negasse l'immagine di quella che fino al giorno
prima ero stata.
Così feci a pezzi le tele e le statuette di creta,
quando decisi che avrei rinunciato a tentare di
diventare un'artista.
Ho sempre avuto bisogno di far saltare i ponti che
mi lasciavo alle spalle. Era l'unico modo di
costringermi ad andare avanti, quando la voglia di
proseguire era così poca e così forte la
tentazione del richiamo alla più sicura quiete
delle cose già note, che ancora lasciavano udire
il loro canto suadente, dietro di me - dentro di
me.
Solo da quel ciondolo non mi sono mai separata.
Non ho saputo gettarlo insieme alle cose vecchie.
E non c'è un perché.
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