Da troppi anni non faccio più sculture, non dipingo più tele. Che un giorno - da ragazza - l'abbia fatto, forse non significa più niente.
Sono una giornalista. Fabrizio è il mio uomo. Fabrizio non sa - non ha mai saputo - di quella ragazza di diciotto anni che un giorno si
innamorò perdutamente di uno sconosciuto. Non credo nemmeno che gli importerebbe di saperlo.
Un giorno, davanti a un altare (a un altare? Fabrizio?... non so immaginarmelo) Fabrizio scelse per moglie una donna delle cui vita
ormai non sa praticamente più nulla. Sa soltanto che lei è poi andata a vivere a Roma, che si è risposata, che dal secondo matrimonio ha
avuto due figli. E basta.
Di lei e dei due anni che è durato il loro matrimonio non parla quasi mai. la solita incompatibilità di carattere, dice laconicamente per
spiegarne l'epilogo.
Non gli ho mai sentito pronunciare nei riguardi di lei una sola parola che potesse suonare come di rancore o di rimpianto. Il silenzio
copre ogni tratto di lei e delle loro storia. Il silenzio copre quel passato e lo salvaguarda - credo - da tutte le infinite e possibili
ridefinizioni del poi.
Eppure sono sicura che quel giorno, in chiesa, nel pronunciare il definitivo “sì”, lui era certo di amarla ed era certo che l'avrebbe
amata per sempre. E forse adesso questa sua intenzionale rinuncia a parlare di lei e di quel tempo è proprio l'unico modo che resta per
tenere fede, nonostante tutto, alla promessa d'origine. Forse, in una parte occultata e segreta di sé, non ha mai smesso di amarla. O
forse, non potendo più amarla ancora, cerca comunque in questo modo di custodire attraverso il silenzio l'antica convinzione che aveva
generato la promessa poi andata tradita.
Ho sempre rispettato e apprezzato questo suo riserbo. Detesto chi è abituato a coprire di fango tutte le cose che hanno perso il valore
che un tempo avevano avuto.
Perché, se un valore per noi l'hanno avuto - sia pure brevissimo - probabilmente meritano un po' del nostro riguardo. Fabrizio, questo,
lo sa. Io con lui.
Conosco soltanto il Fabrizio di oggi, ignoro tutto del ragazzo che è stato. Ci siamo incontrati già adulti. Da adulti ci siamo amati,
amando l'uno nell'altra quella conturbante fierezza, quell'austera disillusione in cui probabilmente intravediamo l'allusione silenziosa ad
un tempo remoto di altri sogni poi andati delusi.
Nella distanza, nella cortina di impenetrabilità che tanto spesso ci separano, io risento la pienezza degli eventi che hanno tessuto la
trama delle nostre vite, la loro ricchezza e la loro incondivisibilità, la forza ancora prepotente di un mai sopito desiderio di fusione e
insieme l'acquisita consapevolezza dell'impossibilità di realizzarlo.
Averlo rinnegato come pretesa eccessiva, idealistica, attualmente improponibile, non significa averlo dimenticato. Quel desiderio - quel
bisogno - che un tempo vi è stato, resta come ansia, come inquietudine, come tensione ancora capace di scuoterci in malcelati sussulti -
ciò che cripticamente smuove l'altrimenti imperturbabile rassegnazione delle nostre parole.
Forse in tutti questi anni non abbiamo mai trovato la forza di riesumare ricordi per i quali non potremmo mai trovare parole adeguate a
esprimerli.
Così penso a quel Fabrizio che oggi con tanta disinvoltura scherza e sorride sugli altrui matrimoni più o meno riusciti. Penso al
brillante sarcasmo con cui sempre gli riesce di demistificare ogni altrui sentimentalismo. Penso all'ironia che riserva a chi pronuncia la
parola «amore». E penso allora a quel giovane in abito scuro che, accanto ad una figurina esile e sorridente nel vestito bianco e nella
nube di veli, si riparava dalla pioggia di chicchi di riso in una vecchia foto spersa tra le scartoffie di un cassetto.
È quella che ci capitò fra le mani qualche anno fa, mentre frugavamo insieme tra le sue carte, cercando non so più quale dattiloscritto.
A trovarla, ci siamo guardati.
Ricordo ancora come fossi sul punto di commentarla con una battuta qualsiasi, ma notando la serietà del suo sguardo me ne mancò
d'improvviso il coraggio e la voglia. Così non dissi niente.
Nemmeno lui disse nulla prese solo in mano la foto per un istante e poi la rimise sul fondo del cassetto. Eppure mai come in
quell'attimo ci siamo capiti.
Dopo un po', mi disse scherzando che ero una donna estremamente discreta.
Ho rispetto per il tuo passato, risposi.
E lui mi attirò a sé, facendomi sedere sulle sue ginocchia. Poi mi prese il capo, appoggiandoselo sulla spalla, e con dolcezza mi
accarezzò i capelli, mentre baciava il pendente che portavo al collo.
Ho cercato la libertà, ho voluto la libertà.
Non ho chiesto agli altri né sostegno, né elogi, né comprensione, né soccorsi. Ho preteso soltanto che mi si lasciasse fare come
credevo.
Ho sbrigato da sola il mio bene e il mio male. Ho accettato aiuto e consigli quando sono venuti; non li ho domandati né aspettati quando
non mi sono stati offerti. Ho accolto nella mia casa amici e parenti e amanti, quando hanno voluto venire. Non ho bussato a nessuna
porta, quando ero sola. Ho bevuto i miei whisky solitari in lussuose camere d'albergo, più o meno silenziose. Mi sono ubriacata in
compagnia, con buoni vini nostrani alle tavolate chiassose di qualche trattoria, tra musica, risate e gente che mi ha voluto bene.
E quando mi imbattevo per la strada, o in metropolitana o sulle panchine delle stazioni, con qualche tossicodipendente dai vestiti
trasandati, i jeans stinti e lo sguardo perso nel vuoto, pensavo ad un ragazzo conosciuto molti anni addietro e a dove fosse lui adesso.
Lui aveva dato alla mia giovinezza il miraggio, la sete, la speranza. Io così poco cui in grado di dargli.
Chiedermi per tanto tempo cosa ne fosse stato di lui era tutto il senso di una sperequazione, di un debito mai estinto e che non avrei mai
più potuto estinguere. Era lui. Era Magda. Erano quelli che non c'erano più, o dei quali non sapevo più niente: quelli che erano stati
con me nel tempo della semina, ma che non erano più insieme a me a godere il tempo del raccolto. Fantasmi di morti o di vivi che
divorano l'anima. Ombre che affollano la nostra vita, più vive e reali di tutti i presenti. Ricordi che comprimiamo dentro il baule, ma
che traboccano da tutte le parti. E Magda bambina ha sempre continuato a fissarmi con i suoi grandi occhi innocenti.
Ma tutto questo appartiene a tanto tempo fa.
Sul treno dei ricordi ho rivisto e rivedo quelli che eravamo e che non siamo più. Anche di Magda non resta più niente. Sono
probabilmente una delle poche che la ricordano ancora.
I treni che portano a Vienna, non portano indietro. Chiunque si abbia ad incontrare nel proprio scompartimento.
Ma io non voglio tornare indietro, lo sai.
«Rimettilo nel portafoglio» mi ha detto Fabrizio, porgendomi il mio girocollo, appena siamo scesi dal treno.
Sono rimasta sorpresa, confusa, senza parole.
Lui se ne è reso conto, e ha proseguito scherzando: «Non sono io lo sbadato, vedi, che si dimentica tutto sul sedile...».
Ma io avevo intenzione di... - ho tentato di dirgli.
«Di lasciarlo sul treno?» mi ha interrotta. E senza darmi il tempo di rispondergli, ha continuato: «e perché mai dovevi lasciarlo lì?».
Era meglio così... - ho cercato di dirgli.
«E lascerai su un treno anche me in questo modo, un giorno, quando ti accorgerai che in fondo non sono più così importante?» mi ha
domandato seri, scrutandomi dentro agli occhi.
Perché mi dici questo, Fabrizio? Perché non ti rallegri invece del fatto che non lo voglia più conservare? - gli ho domandato stupita.
«Perché non so quali siano i ricordi che sono legati a questa catenina d'argento, e non mi interessa saperlo, ma so che il tuo amuleto
magico ti ricorda cose che contano. E se hai dei ricordi che valgono così tanto da farti custodire quest'oggetto con l'amore e
l'ostinazione con cui ti ho vista conservarlo e tenerlo sempre con te in questi anni... allora, adesso, non buttarlo via così: non se lo
merita... Anche se ora pensi di essere abbastanza forte da poterci rinunciare» mi ha spiegato.
E sei proprio tu a dirmi questo... - ho commentato pensierosa.
«Già!» ha esclamato. «Ti chiedo scusa adesso, per tutte le volte che ti ho presa in giro per questo gabbiano. Era solo una stupida
provocazione. Invece non sono mai stato capace di dirti che in realtà rimasi deluso, quando non telo vidi più al collo. Perché... sai una
cosa? Sei proprio una donna dalle mille contraddizioni. Ma è anche questo che mi è sempre piaciuto di te».
E adesso ti ringrazio, Fabrizio, per essere tornato indietro a riprendere questo girocollo d'argento che volevo abbandonare lì, sul
ripiano.
Lo rimetterò dentro al portafoglio, come d'abitudine. M'accompagnerà ancora negli anni che verranno, anche se forse - adesso - sarò
meno sicura di me, se mi troverò ancora ad affermare che il pendente raffigura un gabbiano. Forse semplicemente dirò che assomiglia
ad un gabbiano ai miei occhi, o che mi piace vederlo così. Ma non insisterò, se altri saranno di parere contrario.
E penso ai quadri del Picasso cubista, quelli in cui le armoniche forme e il delicato profilo della donna che sulla tela è dipinta diventano
scomposto sovrapporsi di occhi, o che mi piace vederlo così. Ma non insisterò, se altri saranno di parere contrario.
E penso ai quadri del Picasso cubista, quelli in cui le armoniche forme e il delicato profilo della donna che sulla tela è dipinta diventano
scomposto sovrapporsi di occhi, di bocca, di corpo, di mani.
Probabilmente non si riconoscerà - penso - quella donna in quel quadro. Ma la riconoscerà chi l'ha dipinta. E forse questo può bastare a
chi guarda.
Perché non conosco verità che sia altro che questo confondersi di punti di vista e di piani - e tutto è vero, tutto è falso, a seconda di
come lo guardo.
E in questo momento ti amo, Fabrizio, per quello che sei e per quello che non sarai mai. sono questi i momenti che contano. Non
cancellano gli altri - diversi - che ci sono stati egualmente. Con chi, non importa. Perché tutto quello che è stato, duraturo o fugare che
fosse, si è impresso sotto la pelle. E la traccia che resta è ricchezza, se è stato vissuto - purché fino in fondo.
Allora, grazie, adesso, per il braccio che mi passi attorno alla spalla, serrandomi a te.
Vienna. Siamo a Vienna, Fabrizio. Siamo arrivati.
Vedi Gustav? - ti domando, felice.
Ma non fai nemmeno in tempo a rispondermi e già lo vediamo, tutti e due: un biondo austriaco che viene verso di noi sbracciandosi e
quasi correndo.
Io e te ci guardiamo, con un cenno di intesa. È sempre lui, non cambierà mai, pensiamo tutti e due sorridendo.
E riprendiamo in mano le nostre valigie, andandogli incontro.
Così quest'anno la mezzanotte verrà, con il brindisi, travolta da musiche di walzer viennesi.
Gustav li abbraccerà. Insieme solleveranno il calice.
Fabrizio la guarderà, ammiccando con un sorriso bonario. Tutti e due scoppieranno a ridere: Capodanno a Vienna.
Fabrizio le bisbiglierà all'orecchio: hai visto, ci siamo riusciti.
Buon anno grand'uomo, lei gli dirà.
Buon anno donna fatale, le risponderà lui.
Poi faranno mattina con Gustav, tra musica, danze e risate.
E se questo treno avesse potuto correre indietro, fino alla spiaggia dove un giorno un ragazzo e una ragazza camminarono insieme innamorati, felici, ubriachi di promesse e di sogni, quei due ragazzi avrebbero forse potuto indicarsi con la stessa tenerezza di allora i gabbiani che volavano bassi sul mare, ma a guardarsi negli occhi non sarebbero più stati capaci di dirsi: ti amo.
Aveva solo diciotto anni a quel tempo.
Siamo tutti cresciuti.
- FINE -
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